In continuo divenire: storytelling e data journalism secondo Alessandro Frau

Vi propongo un piccolo esperimento.
Aprite il vostro browser. Ah, dimenticavo, lo state già usando.
Andate sulla home di un qualsiasi giornale, il vostro preferito. Uno vale l’altro, o quasi.
Aprite qualche articolo. Scegliete voi, davvero, non siate timidi.
Testo, foto. Un video, al massimo, con un minuto di pubblicità prima. Tutto qua.
Anni di paventate rivoluzioni tecnologiche, di innovazioni sbandierate, di futuro vaticinato dai grandi maestri del giornalismo per ritrovarci con un prodotto praticamente identico alla versione cartacea.

È veramente questo il massimo che può offrire il giornalismo italiano?

Ne parliamo con Alessandro Frau, diplomato in Storytelling alla Scuola Holden di Torino ed autore della community The Next Tech, che presenta le tecnologie che migliorano il futuro.Alessandro Frau

Il racconto e la praticità, lo stile e l’essenziale. Come coniugare due aspetti così diversi?
Dipende dal prodotto che si va a creare. Nella mia breve esperienza di content manager posso dirti che tutto sta nel miscelare due componenti essenziali: il data journalism e lo storytelling. Numeri e storia. Dati e panorama. Queste due componenti vanno usate, di volta in volta, in maniera diversa in base al tema dell’articolo, alle fonti a disposizione e al tipo di informazione che si vuole dare.

Avrai sicuramente seguito la polemica sullo Storytelling fatta da un giornale come Wired. Che idea ti sei fatto a riguardo? Si può davvero definire dannoso?
È una questione di definizioni. Il problema, a mio parere, è quando si arriva a identificare il cattivo giornalismo con lo storytelling. Invece, il cattivo giornalismo resta tale, con questa definizione. Lo storytelling è un’altra cosa. Se si omettono/cancellano alcune nozioni basilari in un articolo per favorire l’aspetto emozionale di una storia (e ottenere più clic) parliamo, ripeto, di cattivo giornalismo. Fare storytelling significa un’altra cosa, è arte del narrare. Una cosa bella, che genera empatia senza dimenticare tutti i componenti che caratterizzano il nucleo di una storia. Oggi invece è visto come una sorta di capro espiatorio per giustificare i mali di un giornalismo sempre più in declino. Ma per colpa di chi scrive, non della diffusione degli storyteller.

Qual è la tua definizione di storytelling?
Per me lo storytelling è un processo narrativo. Inizia con una storia (reale o inventata), si avvia con un immersione totale all’interno di essa, continua con l’eliminazione del superfluo a favore del nucleo, si conclude con il racconto finale. Quest’ultimo si declina sotto tre categorie: sguardo, linguaggio, strumento. Se dovessi trovare una sola definizione ti direi che lo storytelling è l’arte di raccontare una storia che, entrata sottopelle, fuoriesce dagli occhi.

Come ti è venuta la passione per il digital journalism?
Perché non essendo giornalista mi sono accorto che, per raccontare delle storie sul web, avevo bisogno di qualcosa di diverso dal solito. Ho fatto una ricerca e ho trovato che già tanti narratori, giornalisti, storyteller avevano cambiato passo: soprattutto dal punto di vista del contenitore. Inoltre è un mondo in continuo divenire, dove si corre e non si sta mai fermi. Come potevo non mettermi a correre anch’io?

In Italia si parla poco, pochissimo di digital journalism. Perché? Mancano gli investimenti o gli strumenti?
Perché si pensa che sia una strada altamente onerosa e faticosa. Molti giornali, in perdita, non fanno molto in questa direzione perché non hanno i mezzi per sostenere i presunti costi. Fanno l’esempio di Snow Fall, costato notevolmente al New York Times in termini di risorse economiche e umane. Ma quello è il traguardo. Prima c’è un cammino. Noi, con la scusa che la meta è lontana, camminiamo in maniera lentissima o stiamo addirittura fermi.

A tuo parere ci sono anche in Italia degli esempi di valorizzazione di questo aspetto?
La Stampa ha iniziato da un po’ una piccola rivoluzione interna puntando sul digitale. Anche il Corriere con le mappe de La Lettura o alcune scelte televisive di Repubblica sono buoni esempi parlando di grandi giornali. Se si gira il web, invece, ci sono giovani giornalisti digitali che hanno scoperto il mondo degli strumenti e delle app per fare foto, video, data, infografiche etc etc. Loro segneranno il futuro del giornalismo italiano.

Il giornalismo italiano non versa in buone condizioni: la qualità è al ribasso e le vendite ne risentono. Pensi che una forte spinta rinnovatrice potrebbe cambiare questa tendenza?
Bisogna investire nelle persone. Ci vogliono più giovani e più competenze. Qualità che spesso sono concentrare in singoli individui. Oggi un giornalista deve saper scrivere, curare il SEO*, titolare, usare al meglio i Social per pubblicare (e avere gli analaytics sempre aperti davanti agli occhi). Ma non solo. Deve saper girare e montare un video, ritoccare una foto e fare un’infografica. E la cosa bella è che queste persone già esistono. I giornali dovrebbero puntare su di loro. *(N.D.R. SEO è la sigla di Search Engine Optimization, il metodo e le regole attraverso i quali far sì che i pezzi vengano recepiti, capiti e ottimizzati da google. Ovvero, in parole povere, escano in alto quando si fa una ricerca sul web. Serve insomma ad essere trovati e ad essere letti.

Consigliaci tre strumenti o applicazioni interessanti.
Le prime tre che mi vengono in mente: Mapbox per le foto. Videolicious per i video. Shorthand (versione pro) per lo storytelling immersivo.

Pensi che l’utilizzo di questi strumenti tecnologici apra le porte a un nuovo tipo di giornalisti? Che inserisca insomma nel mercato italiano una nuova figura?
Sì, quella che ti ho descritto detto prima. Quella è la figura che sta cambiando questo mestiere e che segnerà il futuro del giornalismo. Anche in Italia. Più lentamente ma ci arriveremo.

Visto il declino e i problemi del giornalismo tradizionale pensi che abbia ancora un senso l’esistenza di un albo e di un ordine?
No, credo che ormai il professionista sia talmente un ibrido costituito da mille competenze che quel mondo sia totalmente superato. Non credo che le tutele che l’albo difende siano ancora attuali. Il mondo del lavoro è cambiato, non c’è più posto per un ordine così com’è oggi strutturato.

Come nasce l’idea di creare una community come The Next Tech?  
Nasce dal fatto di voler raccontare le storie di quelle persone che stanno già cambiando il mondo. Quelle che trasformano il futuro in presente. In tutti gli ambiti esistenti: dalla sanità alla green economy, dai device all’innovazione sociale. E non è una questione di ottimismo o reazione al giornalismo pessimista come uno potrebbe immaginare: quelle che raccontiamo sono storie belle che meritano di avere una voce.  E noi cerchiamo di dargliela.

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