In Italia si insegna a leggere, ma non si educa alla lettura

Ogni anno vengono immessi nel mercato editoriale italiano circa 40.000 novità, alle quali vanno aggiunte le nuove edizioni e le ristampe e che a loro volta si aggiungono ai testi già presenti in catalogo – tutti gli altri, per intenderci. Ma quanti di questi libri vengono letti? Dati alla mano, risulta che solo il 27,1% delle novità raggiunge le case del Belpaese, che oltre il 50% dei libri vende meno di dieci copie e che circa il 30-40% non ne vende nemmeno una. Un quadro piuttosto desolante, dovuto principalmente all’assenza di richiesta: solo il 41,1% degli italiani legge un libro all’anno, contro il 72% della Francia e il 94% dei paesi nordici, ottenendo l’ultimo posto per tasso di lettori nella classifica europea.

Ma come se la situazione non fosse già di per sé preoccupante, c’è da tener conto di un ulteriore dato estremamente allarmante: solo nel 2014, secondo il rapporto AIE, i lettori sono diminuiti del 6,1%, e se a tale diminuzione si somma quella registrata negli ultimi 5 anni si ottiene un vero e proprio crollo dei lettori, pari al 20%.

Ciò che maggiormente stupisce è che si parli moltissimo delle trasformazioni del romanzo, dell’imminente fine del classico letterario, della necessità di una digitalizzazione massiccia dei testi e del cambiamento del mercato editoriale ma si indaghi poco o nulla sull’elemento più importante, l’unico fondamentale, quello da cui dipendono tutte le altre variabili: il lettore, lo stravolgimento in corso delle modalità e della qualità di lettura che – ça va sans dire – si palesa anche attraverso la quantità di lettura.

La lettura si sta smaterializzando – con essa i lettori – e ciò ci pare avvenire principalmente per tre ragioni: i ritmi e gli usi che sosteniamo quotidianamente osteggiano la lettura, ch’è anzitutto una pratica solitaria, silenziosa e riflessiva; la digitalizzazione di informazioni e nozioni distorce la percezione della lettura; la lettura non è ritenuta un’attività utile e talvolta nemmeno piacevole, a causa delle politiche istituzionali che oltre a non promuoverla non raramente la compromettono.

Ma vediamo più accuratamente ognuna di queste tre ipotetiche.

Per ciò che concerne la prima, riesce facile immaginare quale possa essere il nemico della lettura: uno stile di vita frenetico, quell’eclettismo che sembra quasi una pretesa sociale e che ci richiede di essere presenti, produttivi, attivi, impeccabili in almeno tre ambiti diversi (lavorativo; sportivo/creativo; sentimentale) fino alla perdita del tempo (del diritto?)  di fermarsi a prendere fiato e a guardare il mondo attraverso le lenti di un libro. Gian Arturo Ferrari, ha ben illustrato questa dinamica:
«A differenza della televisione e della stampa, il libro esige innanzitutto una struttura del tempo fatta per leggere. Il lettore deve avere un tempo organizzato in maniera tale da consentire la lettura del libro, il quale non può essere letto in una sola volta; si deve poter riprendere in mano il libro a cadenze tali per cui ogni volta ci si ricordi ciò che si è letto in precedenza. Ciò esige un tempo molto strutturato in funzione della lettura. Questa condizione non è facile da realizzare, anche perché richiede una lunga educazione alla lettura, che deve cominciare fin da piccoli. A quarant’anni non si cambia la propria struttura del tempo.»

La seconda causa è strettamente connessa alla prima:  come scriveva Seneca a Lucilio qualche millennio fa, quando internet non esisteva ancora ma c’era già il pensiero critico, Nusquam est qui ubique est  (“chi è dappertutto non è da nessuna parte”), sicché chi si dedica a molte attività – o a molti strumenti interattivi simultaneamente, ch’è quanto avviene oggi tra un messaggio su Whatsapp, un post su Facebook, una foto su Instagram e una sessione a Candy Crush sul tablet – non ne fa bene alcuna, anzi: stricto sensu, non fa alcuna attività.

E come dimostrano studi recenti non si tratta di una questione di distrazione, cioè di parcellizzazione superficiale di concentrazione, ma di un più sottile e profondo cambiamento di percezione: la digitalizzazione ci illude che la cultura sia una semplice somma di informazioni e di nozioni, e in un contesto in cui l’informazione ci giunge ridotta all’essenziale (si pensi ai caratteri limitati di Twitter, ma anche alle notizie brevi dei giornali on line) esauriamo il nostro fabbisogno culturale personale attraverso una lettura sincopata, a singhiozzo, numericamente notevole ma del tutto acritica, dimentichi che il valore dell’apprendimento risieda nel beneficio che comporta e non nell’abbondanza di informazioni che fornisce. Ma non solo: non compiamo più neanche lo sforzo di memorizzare ciò che leggiamo, deleghiamo psicologicamente il compito di mettere a fuoco e conservare un contenuto alla tecnologia, affidandoci spassionatamente a quella che in un interessante esperimento della Columbia University pubblicato su Science è stata definita “memoria transattiva”. Nei mondi provvisori del virtuale crediamo di poter prendere possesso di ogni cosa in ogni momento e in un momento solo, crediamo di poter trovare tutto cercandolo appena, e così tutto sembra appartenerci pur senza appartenerci affatto e mentre a nessuna cosa sappiamo più appartenere.

Illustrazione di Marco Cossu

Arriviamo alla terza causa. Ci sarebbe da scrivere un saggio diviso in tomi sull’inefficacia e sull’assenza di politiche culturali degne di nota in Italia. Non è questa la sede di un approfondimento sul tema, ma vorremmo almeno segnalare due problematiche: l’inesistenza di una campagna a sostegno della lettura degli adulti, presente invece sia per i bambini (“Nati per leggere” ne è un chiaro esempio), sia per ragazzi; la fallacia del metodo scolastico-educativo nella stimolazione del ragazzo a un approccio appassionato e curioso al testo, specialmente letterario.

Si punta sulla fascia dei bambini fino ai 14 anni ma non su quella degli adulti, sebbene questi costituiscano la maggioranza della popolazione e quel vergognoso 60% che non legge nemmeno un libro all’anno. Com’è possibile che nessuna istituzione si adoperi per avvicinare una fetta preponderante della nostra società alla cultura? Com’è possibile che mentre in Europa si insiste sull’equazione cultura= progresso, in Italia non si promuovano né la cultura né il progresso?

Purtroppo sono domande a cui non possiamo offrire risposte diverse da un sospiro di rassegnazione. E lo stesso vale per le scuole italiane, in cui si impara a leggere ma non si impara la lettura come attività piacevole, come abitudine quotidiana, come utile strumento di rielaborazione, visualizzazione e creatività.

In Svezia le scuole incentivano i bambini a leggere: per i primi anni scolastici si dà ai bambini un unico compito per casa: leggere brani a voce alta insieme ai genitori; si concede uno spazio temporale quotidiano alla lettura, che può variare da mezz’ora a un’ora, durante le ore scolastiche; si lanciano sfide di lettura che non creano alcuna competizione ma sostengono in maniera sana e partecipata l’approccio ai testi; non si decidono i titoli dei testi da far leggere ai bambini durante le vacanze ma sono loro stessi a sceglierli in base ai propri interessi e nella quantità prestabilita dall’insegnante e valida per tutti.

Pierre Auguste Renoir, Les deux soeurs

In Italia le iniziative scolastiche sono scarse, poco condivise, deboli in partenza, odiosamente accademiche. Nelle scuole elementari i libri vengono suggeriti, spesso vi sono delle vere e proprie biblioteche di classe da cui si possono liberamente prendere in prestito dei libri, ma le maestre non spronano molto i bambini a usarle, e i compiti che lasciano sono sempre diversificati ma non contemplano quasi mai un impegno quotidiano nella lettura di piacere. I ragazzi delle medie sono statisticamente quelli che leggono di più (11-14 anni), ma non dubitate: non è per merito della scuola. Alle superiori la questione si esaspera: le professoresse si ostinano ad assegnare per le vacanze la lettura di classici piuttosto ostici ad adolescenti interessati a tutto meno che a quel tipo di testi, e cosa dovrebbe divenire il quindicenne che ha subito e detestato la costrizione a leggere I Promessi Sposi, se non l’adulto che non legge, che rifugge i classici come la peste – per restare in tema – e che ha una considerazione nulla della lettura perché non ha avuto il vantaggio di carpirne la meraviglia, lo straordinario potere che consegna alla coscienza individuale?

La lettura non è un obbligo formativo, è un’opportunità di crescita. E come tale deve essere fornita, presentata, sostenuta dalle istituzioni, dalle famiglie, da noi stessi. Come per il verbo amare, non esiste un imperativo del verbo Leggere, ma esiste – deve esistere – un tenace congiuntivo esortativo valido per tutti, perché la lettura è uno strumento di cultura, di conoscenza, di civiltà e di coscienza su cui poggiano le basi di un futuro e di un’umanità migliori.

Si legga!

La meraviglia della lettura

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