In viaggio con Alfieri

Wanderlust. No, non è l’ultimo album di un gruppo indie, e nemmeno una pietanza nordica, ma la parola tedesca che indica la «malattia del viaggio». È stata adottata dall’inglese solo nel 1902, nell’accezione che indica la predilezione tipica del Romanticismo tedesco per i viaggi culturali, e letteralmente significa «desiderio di camminare».

In italiano, a qualcosa di simile corrisponde  il termine dromomania, dal greco δρόμος,  «corsa», e μανία, «mania», «tendenza compulsiva».

Dunque il viaggio può diventare necessità, ossessione, e forse le implicazioni psicologiche che lo rendono tanto affascinante e imprescindibile andrebbero analizzate in maniera più puntuale di come posso fare qui. Una cosa però è certa: esso costituisce una costante nella storia dell’uomo, che da sempre ondeggia tra moti migratori, esplorazioni, visite di piacere, missioni diplomatiche e importazioni ed esportazioni commerciali. Perciò il viaggio esisteva prima dei voli low cost,  del bagaglio a mano e del check-in. Era un progetto lungo, che andava organizzato fin nei minimi dettagli, che durava giorni, se non mesi. Le condizioni erano quelle che erano, le strade e i mezzi, pure. L’Erasmus si chiamava Grand Tour e Roma ne era la meta ultima.

Prima che i legati potessero condividere post sui social, con foto, hashtag e localizzazione, stendevano lunghi resoconti dei loro spostamenti, che sono andati a confluire, insieme ad altri tipi di produzioni sempre legate al viaggio,  in quel genere multiforme che è appunto la Letteratura di viaggio. Genere letterario instabile[1] che si nutre di infinite sfumature, includendo in sé viaggi reali e immaginari, di piacere e diplomatici, resoconti, diari e romanzi. Così si ritrovano a convivere sotto l’egida dello stesso genere  l’Epopea di Gilgamesh e Le città invisibili di Calvino, il Sentimental Journey di Sterne e l’Odissea di Omero.

E in fondo, non è forse la nostra esistenza un viaggio di per sé? Non ha anch’essa una partenza, un tragitto e una fine? L’uomo non è forse egli stesso un pellegrino, che girovaga alla ricerca di risposte? La vita è viaggio e la letteratura è vita, e allora  «Tout récit est un récit de voyage» .[2]

Dunque, alla luce di tutte queste considerazioni, non deve stupire che io abbia deciso di trattare Alfieri come viaggiatore. Lui, drammaturgo, scrittore, poeta, attore e sì, wanderluster ante litteram.

Il nostro astigiano è uno che voleva, e voleva sempre e fortissimamente voleva viaggiare, fino a farsi cavare il sangue, come racconta in Vita, Epoca Terza.

A ogni costo voleva io assolutamente morire, ma non articolai però mai tal parola a nessuno; e fingendomi ammalato perché l’amico mio mi lasciasse, feci chiamare il chirurgo perché mi cavasse il sangue, venne e me lo cavò.

E di viaggi ne compì molti, sia con il cavallo che con la penna.

Se la prima opera che sorge alla mente pensando ad Alfieri e la sua dromomania  è Vita, non bisogna però escludere a prescindere l’analisi del resto della sua produzione, in quanto questa tematica è presente anche in alcune sequenze delle Rime e in alcuni sonetti.

Alfieri, dunque, oltre ad essere un noto drammaturgo ( e un po’ meno noto commediografo) italiano, è autore di una autobiografia, intitolata Vita scritta da esso, pubblicata postuma nel 1806. Quest’opera dalla prosa scorrevole e piana ma non scevra da calibrati picchi sentimentali e stilistici, deriva, come lui stesso afferma nell’Introduzione, dal molto amor di sé stesso. Non bisogna però ignorarne le finalità pratiche, e cioè l’obiettivo di Alfieri di avere controllo sulla sua immagine anche dopo la morte. Immagine che viene delineata con grande onestà intellettuale.

Vita è un’autobiografia, come s’è detto, e l’esistenza di Alfieri è stata un’esistenza in continuo movimento, capeggiata da un’ irrequietezza cronica che lo obbligava a muoversi, a produrre, a correre.

E dunque è un romanzo di viaggio e di viaggi, la testimonianza di un’esistenza geograficamente e psicologicamente instabile. È la vita di un Alfieri persona e personaggio, scrittore e viaggiatore, ossessivo ed equilibrato, testardo e sensibile,  odioso e amato. È un romanzo di contraddizioni e ossimori, di spinte e frenate, di impulsività e riflessione. È la storia di un viaggiatore alla continua ricerca di qualcosa, entusiasta di partire e deluso nell’arrivare. Per la maggior parte dei luoghi visitati non ha parole lusinghiere, ma solo amarezza, noia e disincanto.

Già prima di iniziare l’esplorazione frenetica e nervosa dell’Europa , il nostro bambino dai capelli rossi[3], negli anni dell’ineducazione, intraprende una serie di viaggi mentali, che lo trascinano lontano dall’Accademia Militare di Torino e lo tengono ostaggio delle pagine di Ariosto e Metastasio.

Dopo un primo viaggetto di dieci giorni a Genova nel 1765, dove la vista del mare mi rapì veramente l’anima, e non mi poteva mai saziare di contemplarlo, si apre per Alfieri la porta dei veri, nevrotici, vitali viaggi.

La Terza delle Quattro Epoche in cui si articola l’opera, si intitola Giovinezza e Abbraccia circa dieci anni di viaggi, e dissolutezze.

Alfieri parte per un primo viaggio tanto sospirato in Italia il 4 ottobre 1766, dopo aver tutta la notte farneticato in pazzi pensieri senza mai chiuder occhio. Si reca a Milano, poi Piacenza, Modena, Bologna, Firenze (dove invece di imparare l’italiano decide di prendere lezioni di inglese), Roma, Napoli e torna di nuovo indietro fino a Roma. Nessuna città è in grado di scalfire il suo cuore irrequieto e febbricitante, che dalle meraviglie italiane è amareggiato più che strabiliato.

Alfieri ama le donne, ma non si lega a nessuna, per l’ardentissima voglia ch’io sempre nutriva in me di viaggiare  oltre i monti. Perciò la disillusione non basta per affievolire la sua esigenza di correre e così,  concluso il primo viaggio in Italia, Alfieri decide di andare alla volta di Parigi, armato di cavallo e affamato d’Europa. La definisce una fetente cloaca, conosce Luigi XV e ne rimane deluso.

Nel gennaio 1768 giunge a Londra e afferma:

Quanto mi era spiaciuta Parigi al primo aspetto, tanto mi piacque subito e l’Inghilterra e Londra massimamente.

Alfieri sembra quindi aver finalmente trovato un luogo in cui riposare il suo animo affannato. Sembra, appunto, perché dopo poco riparte e arriva in Olanda, dove cade nel primo intoppo amoroso. Primo di una lunga serie, perché, come ribadito precedentemente, Alfieri, oltre alla passione per la scrittura e per i viaggi a cavallo, ha un altro grande debole: le donne.

Dopo il ritorno a Torino e la presa di possesso della sua cospicua eredità, il Nostro riparte a tutta dritta verso il nord. Tra il 1769 e il 1772 va a Vienna, che gli pare come una Torino in miniatura, Berlino (dove incontra lo spiacevole Federico II), Praga, attraversa la Svezia, la Finlandia e la Russia, sempre incalzato dalla smania dell’ andare. Rifiuta di incontrare Caterina II, in quanto avverso a ogni forma di dispotismo e si avvia di nuovo in Inghilterra, dove cade nel secondo fierissimo intoppo amoroso. La fortunata destinataria delle attenzioni del nostro astigiano è Penelope Pitt, moglie del visconte Eward Ligonier, che lo fa vivere in un continuo delirio. Dopo il disinganno orribile dato dalla delusione amorosa, il wanderluster  riprende il suo cammino, girovagando per l’ Olanda, la Francia, la Spagna, il Portogallo.

Per me l’andare era sempre il massimo dei piaceri; e lo stare, il massimo degli sforzi; così volendo la mia irrequieta indole.

Ritorna in patria, con una consapevolezza ed un bagaglio tutto nuovo:

Benché agli occhi dei più, ed anche ai miei, nessun buon frutto avessi riportato da quei cinque anni di viaggi, mi si erano con tutto ciò assai allargate le idee, e rettificato non poco il pensare.

Ed è lì, all’età di ventitré anni, che Alfieri cade nella terza rete amorosa. Un’ebrezza d’amore veramente sconcia. È Gabriella Falletti, moglie di Giovanni Antonio Turinetti, marchese di Priero. Lei sembra essere la prima donna in grado di trattenerlo fermo in un luogo. Ma le catene di questo amore unilaterale stringono troppo al collo dell’Alfieri, che come un cavallo imbizzarrito sente il bisogno di muoversi e galoppare alla scoperta del mondo.

Liberatosi dell’odiosamata signora, parte per il primo dei suoi viaggi letterari. Torna in Toscana, dove stavolta non si occupa dell’inglese ma della lingua toscana. Lui che non è più piemontese ma finalmente italiano, cosa che renderà ufficiale attraverso la “spiemontesizzazione” del ’78. Lui, che ha trovato la sua identità attraverso il viaggio, l’Italia attraverso l’Europa.

A Firenze incontra  il degno amore: Luisa di Stolberg-Gedern, contessa d’Albany, moglie di Carlo Edoardo Stuartpretendente giacobita al trono di Gran Bretagna. È per rivedere lei che Alfieri viaggia fino a Roma. Tuttavia, questo rimarrà un amore ferito dall’ostacolo della distanza fino a quando nell’aprile del 1784 la contessa d’Albany, per intercessione di Gustavo III di Svezia, ottiene la separazione legale dal marito e il permesso di lasciare Roma, per ricongiungersi all’Alfieri ad agosto, nel castello di Martinsbourg a Colmar.

Per la prima volta il nostro Filacrio Eratrastico[4] acquieta il suo animo. È fermo in un luogo, immune da quel magnete che lo trascinava furioso per tutto il continente. Calmo. Tranquillo.

Nel 1785 è, però, già tempo di ripartire, e i due amanti si trasferiscono a Parigi. I moti rivoluzionari dell’89 li costringono a fuggire per le Fiandre e la Germania, fino a rifugiarsi a Firenze.

Sarà questo l’ultimo viaggio di Alfieri, che morirà l’8 ottobre 1803 all’età di 54 anni, a causa forse di una malattia cardiovascolare. Viene sepolto nella basilica di Santa Croce. A sua memoria rimane lo splendido monumento funebre realizzato da Antonio Canova ed ultimato nel 1810.

Alfieri fu dunque prima di tutto un animo inquieto e affamato, che si muoveva in continuazione per trovare una stabilità. Fu un cavallo imbizzarrito, affetto della più bella malattia: il viaggio.

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[1] M. V. De Caprio, Un genere letterario instabile, Roma, 1996

[2] M. de Certeau, L’invention du quotidien, Parigi, 1980

[3] Alfieri rimarca in vari passaggi dell’opera che ha i capelli rossi.

[4] Con questo nome Vittorio Alfieri viene accolto nell’Accademia dell’Arcadia (1783)

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