“Croce e l’ansia di un’altra città”, intervista a Francesco Postorino

Non si può di certo non riconoscere che Benedetto Croce (Pescasseroli, 1866 – Napoli, 1952) è il filosofo di maggior rilievo nella vita culturale italiana del primo Novecento. Ha avuto molti critici, anche violenti, tacciandolo di avere un pensiero arretrato addirittura reazionario. La fondazione filosofica che fa della libertà è una pietra miliare della storia del liberalismo e del pensiero liberale stesso. Impareggiabile è il contributo dell’indagine del filosofo sulla libertà, sulla giustizia e sull’uguaglianza.  È il giovane ricercatore Francesco Postorino che quest’anno con Croce e l’ansia di un’altra città (pref. di Raimondo Cubeddu, Mimesis, 2017) approfondisce le sue ricerche su Croce, vi proponiamo una sua intervista sui principali temi crociani.

postorinoPostorino, laureato in giurisprudenza e con Ph.D. in filosofia politica e morale, ha approfondito le sue ricerche tra Roma, Messina e Parigi. Attualmente collabora con riviste scientifiche italiane e straniere. Collabora inoltre con l’Espressoil Manifesto, l’Unità, Micromega, cura un blog filosofico su Linkiesta, scrive saggi di cultura politica su Mondoperaio, Il Ponte e altro. Si occupa soprattutto di neoidealismo italiano ed europeo, di socialismo liberale, di esistenzialismo e pensiero liberale. Tra le sue pubblicazioni recenti: Bobbio et le marxismeDroit&Philosophie»); De Ruggiero e Antoni: tra la rinascita del Sollen e la riabilitazione dell’individuoStoria e Politica»), la voce Democrazia (Lessico crociano. Un breviario filosoficopolitico per il futuro, a cura di Rosalia Peluso e con la supervisione di Renata Viti Cavaliere). Ha pubblicato lo scorso anno Carlo Antoni. Un filosofo liberista”, pref. di Serge Audier (Rubbettino, 2016). Per Mimesis è in corso di stampa la sua traduzione dell’opera Socialisme Libéral di Serge Audier.

Ecco le domande che gli abbiamo posto sul suo ultimo libro:

Nel tuo ultimo volume, Croce e l’ansia di un’altra città, attraversi l’intera filosofia dell’“intellettuale europeo” per eccellenza, Benedetto Croce, e della cultura azionista (Norberto Bobbio, Piero Calamandrei, Aldo Capitini, Carlo Rosselli, Guido de Ruggiero ecc.). Cubeddu, il prefatore, è dell’idea che il liberalismo di Croce tenda a identificare il liberismo con l’utilitarismo, finendo per dar vita a un pensiero liberale che oggi andrebbe interpretato come un «glorioso residuo del passato». Condividi questa tesi?
Contrariamente ad alcuni studiosi e avversari dell’universo crociano, io credo che il suo pensiero sia vivo. Nel bene e nel male. Nel bene, perché qualche sognatore è ancora fra noi; colui che, ad esempio, vede nell’estetica una preziosa categoria dello spirito, restia alle orge consumistiche adesso in voga; o chi, più in generale, non si addormenta nell’ultimo sputo della scienza e prova a interrogarsi, a cercare quell’interiorità che ignora numeri, sentieri tracciati, rigide spiegazioni e vacue formalità. Nel male, in quanto lo storicismo di Croce, nel suo complesso, non si limita a sconfiggere la vecchia metafisica o le pigre astrazioni riabilitando il senso del concreto; la sua filosofia va oltre e intende conquistare l’essenza, distruggere una volta per tutte il noumeno, i richiami a singhiozzo della trascendenza. La stessa natura dell’eterno, Croce la ritrova in fieri nell’immanenza, cioè nell’istante manovrato dal rumore fascista, dall’ipocrisia borghese e da ogni narrazione dominante. In altri termini, il suo storicismo assoluto prova a squarciare il velo dell’incontrovertibile, muovendosi in modo peculiare nel solco dell’hegelismo.

Foto libro PostorinoE perché sarebbe «attuale» questo storicismo?
Lungi da me attribuirgli la responsabilità circa i destini del postmoderno e della morte di dio. Nondimeno, il suo approccio speculativo credo abbia offerto spunti importanti ai nuovi campioni del cinismo. L’intuizione crociana secondo cui «la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia» viene colpevolmente sperimentata da chi ha smesso di credere nell’altrove, nel possibile. L’«ultimo uomo», profetizzato da Nietzsche, è infatti il prodotto involontario della filosofia della crisi e della corrente storicista. Una scimmia perniciosa che abita nell’«eterno presente» voltando le spalle ai motivi del sublime. Si tratta di una figura «innocente» che uccide dio in nome del mercato o della forza-più. Ripeto: Croce non c’entra! Eppure lo storicismo, se indisciplinato, regala un’arma inquietante ai sacerdoti del niente.

Croce, però, seppe non scivolare nell’autoritarismo e si oppose in modo attivo al liberalismo conservatore (prima) e al fascismo (dopo). Il confronto con la realtà e il suo tempo è un elemento fondamentale in lui. Cosa direbbe oggi del nostro mondo?
Penso che avrebbe continuato a denunciare i seguaci dell’a priori. Di sicuro non avrebbe amato i reduci della compagine azionista, ma probabilmente neppure i vecchi azionisti avrebbero stimato i rispettivi nipoti.

Che intendi dire?
Come ho già detto in altre sedi, sono dell’avviso che la nuova categoria del liberal sia un qualcosa di estraneo rispetto alle previe tradizioni laiche e progressiste. Coloro che attualmente balbettano i propositi dell’azionismo, in realtà seguono le correnti decadentistiche. Non sono credenti. Non anelano a un mondo migliore e più precisamente all’umanizzazione dell’umanità. In breve, il nuovo soggetto progressista è un nichilista immischiato nei circuiti del potere e al servizio del «si dice» heideggeriano, fan del pensiero liquido. Attenzione! La mia non è una critica dal respiro marxista, quella che boccia la proficua direzione liberal. Non è l’idea di un mondo più giusto o più illuminista che andrebbe eliminata. Diciamo che la mia è una sollecitazione progressista nei confronti di un liberal che ha trasformato la prospettiva dell’eguaglianza in un formalismo appariscente.

Mi ha colpito questa tua frase: «(…) l’individuo, in Croce, non è il centro morale par excellence. Deve lavorare pel Tutto. Non è lui la Storia ma contribuisce a realizzarla, e non ridefinisce se stesso nel suo darsi, si limita solo a produrre le opere e configura di volta in volta il nome dello spirito universale» (pag.65). Così anche i diritti, per Croce, sono “variabili storicamente”. Vale sempre la subordinazione della giustizia alla libertà, che è essenza stessa della storia, della continua lotta che si produce tra l’affermazione di sempre nuovi diritti e la negazione che di quei nuovi diritti si compie nel quotidiano. Bobbio, per esempio, riteneva che quei diritti dovessero essere protetti sul piano giuridico. Puoi spiegarci meglio la visione di Croce nel merito?
Croce è il filosofo delle distinzioni. Dal suo punto di vista, la filosofia costituisce la forma più alta della conoscenza, la comprensione «sintetica» del perenne svolgimento della storia, l’adempimento razionale e provvisorio di un divenire inesauribile. Inoltre, sia la logica (la filosofia in senso stretto) sia l’estetica, così come l’utile e la morale costituiscono le quattro sfere spirituali, parallele alle attività scientifiche. Egli, infatti, relegava la scienza nei luoghi «finti» dell’empiria.

Una svalutazione?
Diciamo una sacrosanta reazione al furore positivista. La libertà, per Croce, sfugge al quadro empirico disegnato dagli scienziati della politica. Non si arrende alle ambizioni o alle puntuali «chiusure» dei vecchi e nuovi ingegneri o architetti del sapere giuridico. Si tratta di una libertà religiosa e metapolitica; una libertà moderna, risorgimentale, attenta in modo laico alle tradizioni. Una libertà severa, che disprezza quella asservita al paternalismo dell’a priori, e parimenti denuncia, come dicevo, il vizio matematizzante. Insomma, una libertà storicistica e spirituale che accetta e rinnova con sguardo inedito la formula hegeliana secondo cui «il reale è razionale e il razionale è reale».

Per quanto riguarda Bobbio, egli era un filosofo analitico senz’altro sensibile al crocianesimo; ma la sua cultura empirica lo costringeva a dare preminenza al diritto positivo e all’esteriorizzazione del dato. Secondo il filosofo torinese, nelle dittature non può aver luogo la libertà, proprio perché un sistema tiranneggiante presenta codici e imperativi che annullano la dignità individuale; per Croce, al contrario, la libertà esiste a prescindere, in quanto la storia è ineliminabile, e per il filosofo napoletano vige l’equazione libertà/storia. Che poi i diritti concreti dell’uomo debbano essere protetti e custoditi all’interno di una società civile, Croce di certo non lo metteva in dubbio. Non era, in proposito, «superficiale» come magari si è mostrato durante il triste ventennio italiano il suo amico/nemico Giovanni Gentile. Il punto è che le libertà positive, nell’itinerario crociano, possono essere modificate, integrate, respinte, confermate entro una situazione tecnica o a-spirituale; mentre il liberalismo puro, quello da lui rivendicato in chiave anti-positivista, assume un connotato imperituro (la storia) e cammina a testa alta anche nelle strade inquinate dal don Rodrigo di turno.        

benedetto-croceAttraverso la ripresa dell’eredità hegeliana, Croce intende affermare una concezione dialettica del liberalismo. La sua teoria idealistica della realtà è liberale proprio perché dialettica, ossia in quanto riconosce l’aperto conflitto tra movimenti, gruppi politici e più in generale fra tutto ciò che accade nell’immanenza. La verità è l’operare umano nel corso della storia. La soluzione delle contraddizioni è sempre «provvisoria», in quanto sta nel vedere in esse il continuo approfondimento dell’universale, cioè dello spirito e della libertà umana. Che differenza c’è tra questo approccio e la visione teorico-politica dell’azionismo?
L’emancipazione dall’hegelismo ad opera della cultura azionista. Croce, che notoriamente vi ha colto pregi e difetti, è pur sempre rimasto imbrigliato nelle maglie dell’idealismo hegeliano. In particolare, ha rifiutato la cornice della verità precostituita, del Sollen, di quel noumeno osannato da Kant e poi cancellato con rigore speculativo dal suo autorevole erede. L’abbiamo detto finora: Croce, al pari di Hegel, è un pensatore storicista e dialettico. Il suo liberalismo attinge al registro speculativo di cui sopra.

La differenza cruciale tra la cultura liberale di stampo crociano e il pensiero politico azionista affonda le radici nella filosofia. Il tema del rapporto tra Croce e azionisti è stato ripetutamente esaminato dai critici. Si è detto tutto e il contrario di tutto. Ma sempre con sguardo storiografico, e quasi mai con una certa attenzione teoretica. Ora, lo storicismo crociano è stato denunciato con intelligenza ermeneutica da alcuni interpreti della scuola azionista. L’idea che tutto sia storia, che ogni cosa deve firmare un patto esclusivo con il tempo, la cancellazione del distacco speciale tra l’immanenza e la trascendenza, tra i mutamenti e la permanenza, tra le offerte della vita e il suono della persuasione, tutto questo viene osteggiato da chi, già a partire dalla dittatura fascista, inizia a rivedere i parametri del neoidealismo italiano di prima generazione. Calogero, Capitini e de Ruggiero rimangono idealisti senza sposare ad oltranza lo storicismo assoluto. Nel mio libro, in verità, cerco di accostarli al più grande filosofo italiano del Novecento. Nel senso che anche loro non hanno perso il contatto con il senso del concreto. Erano, infatti, storicisti ma in modo ragionevole, prudente, rispettoso delle alternative alla storia spregiudicata dell’accadimento. La filosofia azionista cerca di scappare dal carcere dell’istante e preannuncia il bisogno di introdurre l’eterno a piccoli passi. Riconosce che il razionale non è reale. Il suo liberalsocialismo è la naturale conseguenza di un idealismo diverso, che vuole interloquire con l’essenza.

Non sto parlando di sciocchi filosofi al servizio di una metafisica fallimentare. Capitini, ad esempio, intende «dualizzare» l’immanenza, ovvero la capacità spirituale di balbettare persino l’impossibile nelle regioni del disincanto; Calogero vuole trasformare l’immagine anonima del «lui» (i clandestini dei giorni nostri, gli esclusi, i perseguitati) in un «tu» pieno di soggettività. Persino il de Ruggiero maturo non si accontenta dello storicismo liberale e auspica una revisione in chiave neo-illuminista, cioè tenendo conto dell’Infinito ritoccato dal vangelo dell’89. In conclusione, il liberalismo crociano rischia di annegare nella vita, dato che non accetta l’immensamente altro; il liberalsocialismo dal respiro azionista gioca al confine tra l’eterno e il tempo focalizzando l’attenzione sull’individuo, sull’ultimo individuo, quello che non ha voce, e che in parte viene trascurato nei quattro volumi della filosofia dello spirito.

In Politica in nuce (1924), Croce abbraccia una concezione dello Stato come istituzione capace di incorporare i valori del progresso morale. Puoi spiegarmi meglio questo avvicinamento tra morale e politica?
Anzitutto occorre ricordare che Croce, formatosi alla scuola di Machiavelli, ha tenuto a distanza lo Stato, le istituzioni politiche e sociali dalla morale. A differenza del fondatore della scienza politica moderna, l’autore della Storia d’Europa ha in effetti avvicinato le due sfere, ma sempre in modo dialettico e io aggiungerei controverso, come peraltro ha scritto Giovanni Sartori. La politica, per Croce, ha le sue leggi, il suo comandamento, le sue inclinazioni, e non può essere vilipesa da qualche giacobino. Ed è a-morale, che non significa immorale. L’etica, invece, si nutre della politica, della forza decisionale, anche se accoglie tutte le opere dello spirito, siano esse estetiche, logiche o economiche in senso lato. Egli ha lottato contro i riduzionismi dai mille volti; per lui era inaccettabile che la politica usurpasse i contenuti dell’etica, non era ammissibile che la filosofia delegittimasse l’agire pratico. Quindi la politica da un lato e la morale dall’altro. Solo che, per Croce, le categorie sono vicendevolmente connesse. Invocano indipendenza, eppure si relazionano.

Perché?
Perché per Croce la vita è complessa, la storia è un circolo che non ha né un inizio né una fine. Il suo sistema è un inno al potere muscolare della storia, il quale annienta per definizione gli schematismi o le pigre classificazioni. La sua morale, tuttavia, non è paragonabile alla morale azionista. Quella di Croce è più vicina, con lieve paradosso, al sentimento poetico di un Nietzsche. E consiste nel dire Sì alla storia, e nel confermare la verità edificata da un divenire impazzito. È la voce dell’accadimento, come per Nietzsche la giustizia non è altro che la piena giustificazione della vita. Una morale che, ancora una volta, deride il linguaggio del Sollen e si intrufola fin troppo presto negli intimi caratteri dell’immanenza. Per gli azionisti non è così!

Qual è la loro opinione a riguardo?
Gli azionisti vedono nella morale la tensione, il brivido, quel bisogno di infinito che trascende il divenire e richiama l’a priori. La politica è un’azione irrinunciabile (penso a Calogero), ma la morale è quel tu devi che ripristina i semi di dio e ci dice che un’altra storia è possibile. La dialettica crociana fra politica e morale è già incastrata nel qui, mentre quella azionista è forse più attendibile perché chiama in causa l’eterno. Nel secolo della morte di dio e dei cuori nichilisti esposti nelle vetrine del non senso, dovremmo recuperare l’«ansia di un’altra città».

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