Io non mi chiamo Miriam, edito da Iperborea, è il più bel romanzo del 2016

C’è una piccola-media casa editrice, qui a Milano, circondata da un’aura leggendaria: Iperborea. Fondata nel 1987 da Emilia Lodigiani col nobile intento di portare in Italia la letteratura scandinava (ma sarebbe più corretto dire nord-europea, a questo punto), Iperborea ha pubblicato negli ultimi trent’anni trecento libri, e tutti di ottima qualità. Tra questi, i libri di grandi scrittori come Arto Paasilinna, Björn Larsson, Halldór Laxness, Thor Vilhjálmsson, Cees Nooteboom.

L’aura leggendaria di Iperborea è dovuta principalmente a tre fattori:

Emilia Lodigiani fotografata nel suo studio da Alessandro Tosatto.

Emilia Lodigiani fotografata nel suo studio da Alessandro Tosatto.

a) la fondatrice. Emilia Lodigiani è una figura mitica, ai miei occhi. Innanzitutto perché tutti gli addetti al settore editoriale ne parlano con ammirazione e quasi commozione, e chi è dell’ambiente sa che si tratta di un fenomeno più unico che raro. E poi perché a vederla è una donna incredibilmente piccola, magra e minuta, ma trasmette quell’idea di serietà, di credibilità e forza che accomuna tutte le donne coriacee, di forte personalità.
È sua l’idea, etica ed epica insieme, di portare la magia del vento del Nord qui in Italia verso la fine degli anni Ottanta, quando gli italiani sanno appena dove si trovino i paesi scandinavi. È lei a selezionare con cura i titoli da pubblicare anno per anno, ad adeguare l’offerta della casa editrice ai tempi, a guidare Iperborea verso il futuro con scelte ragionate e anti-convenzionali. Ma, soprattutto, è lei a leggere – e spesso a riscrivere – per ultima, prima dell’imprimatur, le traduzioni dei romanzi e dei saggi. Anche se il suo apporto alla casa editrice è diminuito negli ultimi anni, con la direzione editoriale di Cristina Gerosa e la presenza costante di Pietro Biancardi.

b) la strana vita dei suoi libri. Siamo nell’era dei best-seller, dei libri che scompaiono dagli scaffali dopo due settimane, dei grandi titoli a due euro al Libraccio, del marketing che pompa le vendite con i banner, i tour di presentazioni dei libri, le bandelle laterali che millantano sedicesime edizioni senza mai specificare le tirature delle quindici precedenti.
Iperborea è estranea a tutto questo: affida il successo dei libri ai soli libri, lascia che se la cavino da soli e da soli si facciano spazio. Un po’ come i cuccioli di tartaruga che, appena nati, corrono soli verso il mare, senza l’aiuto e il supporto di nessuno.
I libri di Iperborea hanno in comune con le tartarughe anche la lentezza e la longevità: diventano quasi tutti long-seller, cioè libri che fanno grandi numeri in tempi lunghi, ma anche libri che non scompaiono dalle librerie (indipendenti, s’intende).
Basti pensare che negli ultimi anni il numero delle ristampe di Iperborea ha superato quello delle novità. È un dato che ci dice almeno due cose: che i libri non rispondono alle stesse logiche delle merendine, anche se vengono trattati allo stesso modo; che una visione lungimirante offre garanzie migliori e più solide di una rivolta al profitto con scadenza 31 dicembre dell’anno corrente.

Alcuni libri di Iperborea nel nuovo formato.

Alcuni libri di Iperborea nel nuovo formato.

c) la bellezza estetica dell’oggetto libro. Non so se abbiate in mente la nuova edizione degli Oscar Mondadori, ma per farvi un’idea vi basterà entrare in una qualunque libreria e cercare l’edizione più brutta in commercio, quella con la copertina senza un angolo per intenderci (che a me ricordano con orrore i libri per i docenti degli anni Novanta: senza il tagliando e con copertine decisamente kitsch). Per farvi un’idea dell’edizione Iperborea, invece, vi basterà cercare quella più strana ed elegante.
Nel 1987 il formato di un libro di Iperborea era esattamente quello di un mattone di cotto: 10×20 cm. Sul dorso era riportato, oltre al titolo, i colori e il numero della collana, e sulle copertine le immagini erano al vivo, tutte incredibili novità per l’epoca. L’anno scorso, dopo 28 anni, il restyling: cambiano la carta, la grafica, i font, l’impaginazione, e perfino il logo.
Il cambiamento più forte riguarda la sovraccoperta, per la quale viene scelta una carta pregiata e resistente (si chiama Fedrigoni Imitlin tela) che somiglia molto a un tessuto e rende bene lo spirito di Iperborea. Rimangono immutate la strana bellezza del formato alto e stretto (anche se, fortunatamente, s’è allargato) e la riconoscibilità del marchio, ch’è un merito in un mercato che tende a confondere e mescolare in maniera incosciente. Può sembrare banale, come fattore, ma rimanere originali per trent’anni è difficile, e il fatto che sia potuto accadere è indicativo di almeno due fenomeni: di come invecchino male molte case editrici; di come si possa invecchiare bene se si ha un carattere definito e forte che distolga l’attenzione dalle rughe.

Senza contare che puntare all’esperienza tattile del lettore, offrendogli un libro che sembra coperto di tela, mentre tutti attorno cercano di smaterializzare il libro con versioni digitali impalpabili è un atto rivoluzionario e direi toccante.

Majgull Axelsson.

Majgull Axelsson.

Rivoluzionario e toccante come uno degli ultimi libri nato in casa Iperborea, scritto dalla giornalista svedese Majgull Axelsson: Io non mi chiamo Miriam.

Per riassumere la storia narrata – e la complessità della storia narrata – mi pare utile presentare i tre tempi narrativi che si sovrappongono e incrociano di continuo nel romanzo: il presente, il passato remoto, il trapassato remoto.

Il presente comincia il 21 giugno 2013: Miriam Goldberg sta festeggiando il suo ottantacinquesimo compleanno quando, dopo aver ricevuto un bracciale «di artigianato zingaro» su cui è inciso il suo nome, sussurra con le lacrime agli occhi «io non mi chiamo Miriam». Nessuno dei presenti la prende sul serio, eccetto la nipote Camilla che, poco dopo, la interroga sul senso di quella dichiarazione.

Il trapassato remoto comincia nel 1944, su un treno di sole donne partito dal campo di concentramento di Auschwitz e diretto a quello di Ravensbrück. Tra le altre prigioniere, due diciassettenni: Malika, una rom rimasta sola al mondo, e Miriam, un’ebrea di buona famiglia. Durante il viaggio, una ceca scorge Malika a mangiare, e grida: «Dieb! Quella lurida zingara mi ha rubato il pane!». Scoppia una rissa, Malika viene selvaggiamente picchiata e i suoi vestiti strappati, sviene e, appena sveglia, le SS. danno ordine di scendere dal treno. Presa dal terrore d’essere ammazzata (i nazisti fucilavano i prigionieri con i vestiti a brandelli), Malika sostituisce in fretta il suo vestito con quello di Miriam, morta di stenti durante il viaggio. Da quel momento in poi, Malika è Miriam. È Miriam nel campo di Ravensbrück, a cui miracolosamente sopravvive, ed è Miriam anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Il passato remoto comincia in Svezia nel 1948, dove Miriam si è trasferita insieme ad Hanna ed Else. Siamo a Jönköping, la più tranquilla delle città della Svezia meridionale. Ci sono violenti tafferugli contro i tattare, la minoranza rom che abita la città, e un migliaio di persone si raccoglie in Östra Torget per assistere allo spettacolo della pulizia etnica dei tattare da parte degli svedesi. Miriam sta passeggiando quando un gruppo di giovani uomini la aggredisce e la pesta a sangue per il solo fatto di avere i capelli neri.

Su questi tre fili narrativi di cui ho riassunto gli inizi si dipana la storia di Malika che vive la vita di Miriam e confessa solo molto dopo (dopo la morte della maggior parte degli ebrei e dei rom deportati, dopo la morte del marito Olaf, dopo quella delle persone che le erano state più vicine) la sua vera identità. È una storia verosimile, ben costruita e, in certi punti, straziante. Perché racconta il dolore di convivere con un segreto inconfessabile e di dover soppesare qualunque cosa si dica; racconta il peso della finzione e del silenzio, ma fa affiorare per contrasto i temi della sincerità, della fiducia, dell’empatia, della condivisione. È un romanzo su che cosa possa significare essere soli al mondo, in un senso assoluto e profondissimo.

La copertina della prima edizione del romanzo, 2016.

La copertina della prima edizione del romanzo, 2016.

Tutta la vita di Malika/Miriam è narrata in terza persona, una scelta che replica il distacco tra Malika e la persona di cui racconta, e il testo è coinvolgente e scorrevole, abbonda di coordinate e di interrogative indirette. Nelle parti ambientate nei campi di concentramento ci sono molti termini tedeschi, molte onomatopee e molte ripetizioni, che nel complesso rendono bene il senso di estraneità del personaggio, l’angoscia legata a specifici rumori e, soprattutto, la difficoltà di costruire un pensiero organico, in generale il senso di frattura della vita all’interno del campo e durante i viaggi da un campo all’altro. È un romanzo scritto bene, dettagliato ma non pedante, serio ma non pesante, a tratti persino divertente.

Il vero motivo per cui questo romanzo mi pare di straordinaria importanza, però, è un altro. E cioè che scardina alcuni tabù e alcuni stereotipi in maniera evidente ma non sfacciata e, soprattutto, non provocatoria.
Majgull Axelsson ci dice, innanzitutto, che durante la Shoah non sono morti solo gli ebrei, e che se gli ebrei erano odiati dai nazisti, i rom erano odiati da tutti, compresi gli ebrei. Che forse è una cosa che sapevamo già, ma che sicuramente non abbiamo mai letto in un romanzo.

Le frasi che Malika sente pronunciare agli ebrei di Ravensbrück, dopo essersi appropriata dell’identità di Miriam, sono le stesse che pronunciano i nazisti. Ma soprattutto, sono le stesse che circolano in tutta Europa anche dopo la Seconda guerra mondiale.

Björn Larsson ha scritto a tal proposito, nella postfazione al romanzo:

[…] l’Olocausto ha in parte reso più facile dopo la guerra essere ebreo; l’antisemitismo è costretto a ritirarsi nelle cantine razziste in cui era germogliato. I rom, invece, [come gli omosessuali] non godono dello status di vittime dei nazisti riconosciuto agli ebrei e continuano nella maggior parte dei casi a essere considerati feccia e rifiuti della società.

È per questo che Malika, sopravvissuta al genocidio, continua a fingersi Miriam: il mondo mostra solidarietà agli ebrei, ma continua a ripudiare i rom. E di questo mondo fa parte anche la civilissima Svezia, denuncia per la prima volta Axelsson. Il paese che spesso ergiamo a esempio di integrazione e di tolleranza è lo stesso che dietro un’apparente neutralità storica si è reso complice e responsabile di un crimine contro l’umanità. Rimasta indifferente davanti allo scempio della Seconda guerra mondiale e all’orrore dei campi di concentramento, nella seconda metà degli anni Quaranta la Svezia ha accolto con calore i rifugiati ebrei e quasi contemporaneamente ha tentato la mostruosa, totale rimozione della numerosa minoranza rom presente sul territorio da quattro secoli, quella dei tattare. E senza percepire alcuna contraddizione tra le due cose.

Ma il messaggio più importante che Majgull Axelsson ci consegna riguarda la natura della letteratura e il rapporto con la Storia, perché ci dice che a patto che sia intensa e verosimile, si può scrivere un’opera di finzione sulla più grande tragedia nella storia dell’umanità. A patto che sia verosimile si può compiere quell’operazione che fino a un decennio fa sarebbe sembrata impossibile e anzi blasfema. La ragione la riassume la stessa Axelsson in una lettera a Larsson:

[…] come ho trovato il coraggio di descrivere la vita all’interno del lager, devo dire che era una paura già superata prima di cominciare la stesura del romanzo. Molti anni fa scrissi un libro-documentario su una bambina filippina che aveva avuto la sfortuna di incontrare un turista sessuale austriaco, e già allora avevo molto dibattuto con me stessa: com’era possibile che io, donna svedese di mezza età, avessi la presunzione di descrivere la vita di una bambina di strada asiatica? Alla fine smisi di arrovellarmici sopra e cominciai semplicemente a scrivere perché quello che avevo da raccontare doveva essere raccontato. La stessa cosa si è verificata con questo libro. Doveva essere scritto e basta. […] Tuttavia non avrei mai scritto questo romanzo quindici anni fa. Come la maggior parte delle persone a quell’epoca ritenevo che spettasse ai sopravvissuti raccontare. Oggi però quelli rimasti in vita sono pochi, e ciò non può comportare che si smetta di scrivere di questo crimine contro l’umanità.

In questo modo è decaduto un tabù che il mito e la tragedia avevano progressivamente creato. Si pensi alle parole di Adorno sulla poesia dopo Auschwitz o a quelle di Blanchot sull’impossibilità di parlare dei lager in forma narrativa. È decaduto un tabù nel modo più semplice, spontaneo ed efficace possibile: con un ottimo romanzo.

E allora lunga vita a Majgull Axelsson, alla letteratura scandinava e a Iperborea, che ci ha reso possibile la conoscenza di questo magnifico romanzo, il più bello del 2016.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.