Jorge Semprún: scrivere per (non) morire

Di guerra si è sempre parlato molto in letteratura. Narrare, raccontare, scrivere per non lasciar cadere nell’oblio quello che si vorrebbe, ma non si dovrebbe e non è possibile dimenticare. In una realtà come quella della guerra, che non conosce distinzioni, il semplice operaio si ritrova narratore di una storia “mondiale” e lo scrittore, al contrario, perde spesso la sua identità. Scrivere diventa al contempo il mezzo per non dimenticare e quello per liberarsi talvolta da unpeso opprimente: l’essere sopravvissuti.

Jorge Semprún nasce a Madrid il 10 dicembre del 1923 da una famiglia dell’alta borghesia spagnola, che all’alba dello scoppio della guerra civile del 1936 si trova costretta a fuggire dapprima in Francia e poi in Olanda. Nel 1943, Semprún viene arrestato dalla Gestapo e viene mandato l’anno seguente nel campo di concentramento di Buchenwald. All’uscita dal campo vive per alcuni anni a Parigi fino al rientro in Spagna nel 1953 dove si reca per coordinare le attività clandestine di resistenza al regime franchista: esperienza che lo costringerà a vivere sotto falsa identità per dieci anni. A seguito dell’espulsione dal partito nel 1964, decide di dedicarsi interamente al lavoro di scrittore e sceneggiatore riprendendo e sviluppando alcuni tra i personaggi a cui aveva già accennato nei lavori precedenti.

La scrittura o la vita non racconta l’esperienza all’interno del campo di concentramento ma, al contrario, affronta la questione della difficile scelta di chi, tornato dal campo, è consumato dal dilemma di testimoniare o dimenticare. Ma siamo davvero sicuri che narrare, scrivere di questa esperienza, sia un modo per ricordarla? O forse è proprio la scrittura che può diventare l’unico mezzo per permetterne l’oblio? La soluzione al problema si trova, forse, proprio nella citazione di Maurice Blanchot posta prima del romanzo: “Chi vuol ricordare deve affidarsi all’oblio, a quel rischio che è https://www.google.it/search?q=buchenwald&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ei=TDrLVMKsHsbfaPrCgfgG&ved=0CAkQ_AUoAg&biw=1302&bih=671#tbm=isch&q=buchenwald+campo+di+concentramento&revid=1666879869&imgdii=_&imgrc=wbSaPNPKsrM78M%253A%3B28linSPP0vpJYM%3Bhttp%253A%252F%252Fwww.icpersiceto.it%252Fjoomla%252Falunni%252Fmemoria%252F3g%252Fimmagini%252Fbuchenwald%252Fbuchenwald.jpg%3Bhttp%253A%252F%252Fwww.icpersiceto.it%252Fjoomla%252Falunni%252Fmemoria%252F3g%252Fconcentramento_prigioni%252Fbuchenwald.htm%3B458%3B264l’oblio assoluto e a quel felice caso che diventa allora il ricordo.” L’oblio, dunque, o ancora meglio il diritto all’oblio, è uno dei nuclei tematici che compongono il testo e che lo attraversano fino ad arrivare al problema ultimo che è quello della testimonianza. Percepito e descritto come il contrario della memoria è, al tempo stesso, necessità di dimenticare la morte e difficoltà nel riuscire a farlo. Il conflitto che ne deriva, allora, è quello dell’autore con la propria storia e non con quella “mondiale” degli altri detenuti o di tutti coloro che hanno vissuto l’orrore della guerra. Se riguardo alla morte Semprùn dice, “Noi l’abbiamo vissuta… Noi non siamo dei superstiti, siamo degli spettri”, solo poche righe dopo continua sostenendo che ” la nostra vicenda non è credibile, non è condivisibile, è appena comprensibile, perché per il pensiero razionale la morte è l’unico avvenimento di cui non si potrà mai fare un’esperienza individuale”. Capiamo, allora, quale sia il vero problema: non si tratta di descrivere l’orrore del campo o la disumana esperienza della guerra ma, al contrario, di dover dire la morte. È una questione che non riguarda la forma di un racconto possibile, ma la sua sostanza.
Eppure, sembra che l’autore ci fornisca una risposta fin dalle prime pagine, sostenendo che “soltanto coloro che sapranno fare della loro testimonianza un oggetto artistico riusciranno a raggiungere questa sostanza, questa densità trasparente”. Sembra quasi che Semprún voglia dirci di aver già trovato una risposta ma, in realtà, non fa altro che presentarci quello che è il punto di partenza di tutta la questione. È proprio da questa apparente convinzione che bisogna partire e che l’autore in prima persona parte, per mettere in discussione la scrittura, le sue forme e la memoria che attraverso di essa viene fuori.

Costruito su una costante tensione che mira come fine ultimo alla scioglimento del dilemma scrittura-vita, il https://www.google.it/search?q=la+scrittura+o+la+vita&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ei=zDnLVInDNpLfata6gqgP&ved=0CAgQ_AUoAQ&biw=1302&bih=671#tbm=isch&q=semprun+la+scrittura+o+la+vita&imgdii=_&imgrc=J-pXPPD8H1qecM%253A%3BcC68aQEeZ56rxM%3Bhttp%253A%252F%252Fi.ebayimg.com%252F00%252Fs%252FODAwWDYwMA%253D%253D%252Fz%252FvbEAAOSwPe1UI~HO%252F%2524_1.JPG%253Fset_id%253D880000500F%3Bhttp%253A%252F%252Fwww.illibraio.net%252Fautori%252Fsemprun-jorge.html%3B300%3B400romanzo sembra giungere a una soluzione poco dopo la metà del libro quando il protagonista afferma che “grazie a Lorène che non ne sapeva nulla, che non ne ha mai saputo nulla, avevo fatto ritorno alla vita. Cioè nell’oblio: il prezzo della vita. […] Dovevo scegliere tra la scrittura e la vita, e avevo scelto quest’ultima. Avevo scelto una lunga cura di afasia, di deliberata amnesia, per sopravvivere”. Ma questa soluzione è solo apparente. Quindici anni e poche pagine dopo, infatti, la memoria lo costringerà a tornare sui suoi passi e ad apprendere quella che sembrerebbe essere una nuova verità: “tutto mi sembrava chiaro, ormai. Sapevo come scrivere il libro che avevo dovuto abbandonare quindici anni prima. O meglio: sapevo che adesso potevo scriverlo. Poiché avevo sempre saputo come scriverlo: mi era solo mancato il coraggio. il coraggio di affrontare la morte attraverso la scrittura.” Ancora una volta, però, la soluzione al problema è intravista, sfiorata, quasi raggiunta, ma nuovamente mancata ed è questo, probabilmente, l’elemento che rende il romanzo di Semprùn unico e ben distinto dagli altri dello stesso filone.

Non si tratta di un testo sulla guerra e non può essere definito esattamente una testimonianza. Ciò che lo rende unico è la capacità dell’autore di conferirgli una forma che potremmo definire mobile, come mobile è la memoria dell’esperienza della guerra e la vita stessa. Attraverso un finale che è un vero colpo di scena, Semprùn dimostra come sia impossibile rispondere in modo fermo e deciso al dilemma scrittura-vita in quanto quest’ultima è una forma in continuo cambiamento e la prima altro non è che una lunga interminabile ascesi, un modo di separarsi da sé vigilando su se stessi: diventando se stessi perché si è riconosciuto, messo al mondo l’altro che sempre siamo.

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