José Saramago e le cartoline da Bologna: Santa Maria della Vita

Un libro di Saramago di cui non ho ancora parlato è certamente Manuale di pittura e calligrafia. È piuttosto difficile definire di che genere si tratti: diciamo un terzo di diario, un terzo di riflessioni metaletterarie,  un terzo di romanzo. Tutto in prima persona, fatto abbastanza raro per il Saramago che ci è noto, ma dobbiamo tenere in conto che, cronologicamente e stilisticamente parlando, si tratta anche del primo libro scritto con piena consapevolezza. Siamo nel 1977 (per il suo arrivo in Italia dobbiamo attendere una ventina d’anni, il che non la rende la prima opera di Saramago a giungere al pubblico italiano), trent’anni dopo il suo primo effettivo romanzo, Terra do pecado, scritto in uno stile neorealistico richiesto, in gran parte dell’Europa, dal momento storico e politico. Una modalità di esecuzione a un tema a lui caro da cui Saramago si sentirà poi sempre lontano, fino a un mezzo rinnegamento, proprio come accadde per Calvino con Il sentiero dei nidi di ragno, di cui disse, nella seconda prefazione: «Il primo libro bisognerebbe non averlo mai scritto».
Con il secondo, quindi, Saramago tenta il ribaltamento del tavolo: la struttura unitaria data dal genere crolla, la trama narrativa segue fedele e cede, la prima persona e la sua interiorità invadono lo spazio letterario e dirigono il gioco. In questo senso, non posso non pensare al primo libro che io abbia letto di Georges Perec, ovvero W o il ricordo d’infanzia. Il disorientamento ha fatto da padrone per la prima metà della lettura: ero quasi insofferente all’ostilità letteraria che Perec stava mettendo in campo con quel libro. Metà romanzo distopico (uno dei migliori che abbia mai letto), metà diario autobiografico che tenta di recuperare un passato solo fotografato. Entrambe le metà puntano il dito contro/verso l’Olocausto. Né Perec né Saramago, però (e qui sta l’ostilità di cui parlavo), dividono i loro due libri in spazi o zone perfettamente riconoscibili. Le tematiche non si intrecciano ma rimangono parallele, non occupando tuttavia sezioni del libro distinte: a un capitolo su W ne possono seguire tre sull’infanzia, a due di romanzo ne possono seguire uno di diario, quattro di riflessioni, poi ancora diario e poi di nuovo romanzo.

Nel terzo di libro dedicato all’autobiografia, Saramago (o chi per lui) racconta le tappe del suo viaggio italiano: Milano per prima, poi Venezia, un poco a Padova, poi Ferrara e infine arriva a Bologna − per poi proseguire per gran parte della Toscana, certo, ma è a Bologna che vogliamo fermarci oggi.

Città dai quattro appellativi − “dotta”, “turrita”, “città dei portici”, “grassa” −, Bologna è seducente, femminile, soffice. ¹

Tra tutte le meraviglie artistiche che colpiscono Saramago durante il suo soggiorno, ce n’è una che lo impressiona particolarmente. A Bologna, è allo stesso tempo un gioiello di cui si va molto orgogliosi e, come ogni cosa preziosa, viene tenuta al sicuro, nascosta. Trovarla è difficile, nonostante sia nel centro (e non è un modo di dire) della città, ma se avete qualcuno che ve ne parla o vi ci porta, allora per favore portateci qualcuno anche voi. Si comincia sempre così. Perché «nella Chiesa di Santa Maria della Vita, c’è uno dei più drammatici gruppi scultorei di terracotta che abbia mai visto. È la Lamentazione sul Cristo morto di Nicolò dell’Arca, modellato dopo il 1485. Queste donne che si prodigano sul corpo disteso, urlano il loro dolore tutto umano sopra un cadavere che non è Dio: lì nessuno si aspetta che la carne resusciti»¹.
Se frequentate Saramago, avrete sicuramente pensato anche voi a Il vangelo secondo Gesù Cristo. Dubito sia stato questo il preciso momento che ha portato in lui il pensiero di un romanzo sulla divinità, ma è una suggestione troppo affascinante e coerente per non essere colta. Per ora, però, proviamo ad andare con ordine.

L’autore del Compianto, di cui si sa molto poco (si firma in questa stessa opera come provieniente dall’Apulia), è ben noto a Bologna. L’appellativo “dell’Arca” gli deriva, infatti, dall’arca di san Domenico Guzman che realizzò per la chiesa cittadina che ospita le spoglie del santo. E se avete camminato anche una sola volta in Piazza Maggiore con un poco di attenzione ai palazzi che la incorniciano, avrete notato la sua Madonna col bambino che decora Palazzo d’Accursio. Ma è il Compianto a donare a Niccolò la fama che merita: nonostante non abbia poi avuto grande seguito nella produzione artistica emiliana, il rilievo che ha sempre avuto in città e la consapevolezza del valore artistico dell’opera parlano per lui.

 L’Italia dovrebbe essere (mi si perdoni l’esagerazione, se in essa non ho compagni) il premio per essere venuti a questo mondo. ¹

Il gruppo scultoreo è conservato in una delle chiese più esteriormente discrete e invece sorprendenti di Bologna: Santa Maria della Vita è infatti considerata il capolavoro del barocco bolognese. La facciata tutto sommato piana degli inizi del Novecento e la posizione, incastrata tra i tanti palazzi del centro, la rendono infatti poco accattivante per chi passa di fretta. Entrando, però, è impossibile rimanere indifferenti alla piccola pianta ellittica che viene compensata, a fine Settecento, dall’altissima cupola mantenuta bianca, per aumentare l’effetto di altezza ariosa all’interno e allo stesso tempo renderla all’esterno uno dei simboli della città, parte irrinunciabile degli skyline, come questo o questo.
La chiesa fa parte di un complesso monumentale che comprende il santuario, l’ospedale e l’oratorio. Voluto alla fine del 1200 da parte di Riniero Barcobini Fasani,  doveva ospitare l’operato della Confraternita dei Battuti, ordine fondato da Riniero stesso, che si dedicava soprattutto all’assistenza dei malati. Con questo scopo, fondò nel 1275 assieme a un frate e una suora bolognesi e altri ventimila (si racconta) seguaci arrivati con lui da Perugia, un ospedale dedicato a i pellegrini che sostavano a Bologna nel loro cammino verso la Santa sede.  Il nome, a quanto pare, ha origine da una chiesetta dedicata a San Vito che faceva parte del complesso, ma, ben presto, grazie alla fama dei medici e delle guarigioni al limite del miracoloso, venne ribattezzata “della Vita”. Una settantina di anni dopo, a Bologna viene fondato anche l’Ospedale di Santa Maria della Morte, che inizialmente offriva assistenza ai condannati al boia o alla forca. Occupava gran parte dell’edificio che oggi ospita il Museo Archeologico (ma ne è rimasta traccia nel Teatro anatomico dell’Archiginnasio) e il portico, detto appunto “della Morte”, che si affaccia su via dei Musei e sta esattamente di fronte a Santa Maria della Vita. A cui ora torniamo.

le due Marie, sulla destra del gruppo scultoreoEntrando nella chiesa, tenendo la destra e arrivando  fino all’altare, si può avere un primo assaggio del Compianto, che rimane in una piccola ala appena rialzata e separata dal corpo della chiesa. Sette figure in totale, a grandezza naturale, con un’accertata policromia originaria. Al centro, disteso, sta il Cristo non velato con le labbra ancora dischiuse. La disposizione delle altre figure è stata ricostruita ma non è certa, quindi attualmente possiamo vedere, da sinistra, Giuseppe d’Arimatea che impugna il martello, Maria Salomè che si tiene le cosce in segno di dolore, Maria Vergine con il viso già segnato dalle rughe, Giovanni apostolo che si regge il mento con la mano, mentre da destra arriva il vero capolavoro di Niccolò dell’Arca. Maria di Cleofa e Maria Maddalena irrompono sulla scena scatenate, completamente libere nel loro sfogare il dolore e la sorpresa. Se gli altri personaggi sembrano più sbigottiti, le due donne sono assolutamente incredule. Le bocche
sono spalancate, la pelle è tirata, le mani completamente aperte, le loro, a differenza degli altri, che esprimono anche più dei volti. Maria di Cleofa le para davanti a sé, come a difendersi dal troppo dolore, come a voler dire No, è troppo, non voglio vedere, rimani lì così non dovrò affrontarti. Quelle della Maddalena sono sospese, sempre rivolte verso il Cristo ma con le dita incredule, ancora indecise, se sarà un gesto di battersi il petto o di abbracciare il corpo senza vita. L’esecuzione dei panneggi è magistrale: dopo secoli di compostezza ieratica delle figure sacre, non solo nel viso ma anche nell’abito, dritto e sicuro come una colonna, torna il pathos dell’arte alessandrina, unito alla sapienza dei panneggi bagnati. La Maddalena ci fa pensare alla Nike e Maria di Cleofa all’Iride del Partenone.

Oggi, come ogni prima domenica del mese, i musei a Bologna sono gratuiti. Se non avete ancora visto il Compianto sul Cristo morto, potete approfittarne e includerlo nella vostra giornata culturale. Oppure, ancora meglio, vi consiglio di capitarci quasi per caso (fate finta di non ricordarvi che si trovi lì) in un orario insolito, tipo un giovedì mattina molto presto, quando ci sarete solo voi, un nonnino nerovestito in preghiera (o forse addormentato, perché in mezz’ora non si è mai mosso) e un’inglese cinquantenne con lo zainetto blu. Avrete un capolavoro tutto per voi.

Mi accingo a lasciare la città e, mentre prendo commiato, mi dico: “È qui che dovrei vivere”. Ed è un omaggio.¹

 

¹ José Saramago, Manuale di pittura e calligrafia, traduzione di Rita Desti, UE Feltrinelli, 2011

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