Juste la fin du monde – Il mancato dramma di Xavier Dolan

Niente più virtuosismi pop. In Juste la fin du monde, trasposizione cinematografica dell’omonima pièce, il giovane regista québécois si attiene infatti al soggetto originale, modellando il suo linguaggio su quello del più sobrio Jean-Luc Lagarce, drammaturgo tra i più amati in Francia. I tempi tendono dunque a dilatarsi, la scenografia a ridursi, e la gestualità, costretta a un minuscolo palcoscenico di provincia, si amplifica fino quasi a infrangerlo. Lo stesso poteva però già dirsi, del resto, anche di Tom à la ferme – morbosa storia di una passione omofoba – che dell’ultimo film potrebbe, paradossalmente, costituire un ideale sequel.dolanhome

Anche nella pellicola ora in sala si parla infatti di un ragazzo in lutto – Louis (Gaspard Ulliel) – e del suo ultimo ritorno a casa. Dopo dodici anni di volontaria assenza, su cui il regista giustamente tace, il giovane scrittore decide infine di visitare la propria famiglia e annunciare, a questi sconosciuti, la propria morte imminente. Una volta qui, e contro ogni sua aspettativa, verrà invece sopraffatto dalla vita altrui. Dovrà infatti fare i conti con la frustrazione della sorella Suzanne (Léa Seydoux), con la rabbia del fratello maggiore Antoine (il sempre cattivissimo Vincent Cassel) e con l’amarezza della di lui moglie, l’impacciata ma sensibile Catherine (Marion Cotillard). Non poteva poi mancare, come d’abitudine, la pittoresca figura della mommy – Martine (Nathalie Baye) – che vediamo prima asciugarsi lo smalto con un phone, poi muoversi goffamente sulle note di Dragostea din tei e infine compiacersi, tra l’imbarazzo generale, di aneddoti ormai vecchi quanto lei.

Nonostante l’esuberanza di quest’ultima, lo sguardo di tutti resta, però, puntato sul secondogenito. Se la sua presenza provoca curiosità, spavento e disagio, sarà tuttavia la sua partenza a scatenare la fine del mondo, ovvero – molto più realisticamente – la sua relativa prosecuzione. E quindi altre promesse a vuoto, le ennesime – seppur amorevoli – incomprensioni e, ancora, i soliti pudori mascherati da snobismo. Esprimersi, anche per un artista come Louis, non è infatti semplice e talvolta, per fortuna, nemmeno necessario. Tra fratelli, si sa, il silenzio è eloquente, e sarà proprio il burbero Antoine l’unico, tra tutti, a capirne le intenzioni e salvare, rovinandolo, il loro ultimo incontro. La storia si riduce così a un dramma senza drammi, a una recitazione basata sul non detto, che, proprio per questo, risulta, se possibile, ancora più intensa: l’ombra dell’AIDS resta infatti tale e la morte di Louis – così come quella del padre – non viene, in fin dei conti, nemmeno menzionata. Simili reticenze potrebbero poi riguardare la sessualità dello stesso Antoine, relegato alla triste sicurezza della vita matrimoniale e, pertanto, profondamente invidioso della libertà del fratello. Ma questo non è Mine vaganti. E non è neppure l’antefatto del già citato Tom à la ferme, sebbene non sarebbe improbabile vedere il compagno di Louis – unica voce fuori campo del film – ripercorrerne le tracce e soccombere, suo malgrado, all’animalesco fascino del cognato.

dolan-afficheQueste sono, tuttavia, nient’altro che personali elucubrazioni. Juste la fin du monde è infatti un film a sé stante, certamente riconducibile alla filmografia di Xavier Dolan ma senza, per questo, dovervi essere per forza inscritto. È ben vero che la colonna sonora, sin troppo calzante, ha come sempre un ruolo imprescindibile, che i temi di cui qui si parla sono, allo stesso modo, quelli già cari al regista: solitudine e abbandono. Eppure è innegabile che, forse a causa dell’importanza che riveste la sceneggiatura, gli altri aspetti le siano stati in qualche modo sacrificati, e che dunque la regia risulti, inevitabilmente, meno esuberante del solito. Se si eccettuano i rari inserti allegorici – le mani del bambino Louis, l’inesorabile oscillare del pendolo e l’uccellino che da lì tenta di evadere – le riprese sono infatti più che mai essenziali. Ed è meglio così. Si direbbe anzi che già i pochi simbolismi, invece che servire alla narrazione, finiscano quasi per indebolirla, rischiando appunto di ancorarla a metafore perlopiù grossolane. Per il resto, comunque, il giovane canadese dimostra un’estrema versatilità, rinunciando ai suoi soliti eccessi per dar vita ad un’opera di sicuro diversa, certo più misurata ma non per questo più modesta. Nell’adattare il testo di Lagarce, Dolan ha infatti saputo rispettarne la visione e, cosa ancora più difficile, farla combaciare con la propria. Ora, questa scelta può piacere o no, deludere o meno, ma resta il fatto che, a nemmeno ventotto anni, l’enfant prodige del cinema canadese abbia non solo maturato una propria poetica ma sia, soprattutto, già in grado di discostarsene.

Insomma, questo film non è certo la fine del mondo. È casomai l’inizio di una nuova fase narrativa.

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