Kim Thuy. La scrittura e i sogni, malgrado tutto

patisserieLa verità è che ho scritto Ru per poter mangiare delle chouquettes. Ama l’allegria e la fine pâtisserie Kim Thuy e quando si presenta gioca sulla propria carriera di scrittrice. Francofona – perché vive in Canada – è di origine vietnamita, ma ha scritto il suo primo libro in francese e in occasione del Salone del Libro di Parigi ha scoperto il suo debole per le chouquettes che a Montréal non si trovano tanto facilmente. Poi torna seria e ammette che non avrebbe mai immaginato di essere pubblicata; la scrittura è nata in un momento di stallo, una chiave tanto spontanea quanto liberatoria per uscire dal solco del passato.

«Ho scritto questo libro perché avevo bisogno urgente di mettere la mia memoria nero su bianco.»

kim thuyStiamo parlando di Riva – in lingua originale, Ru. Tradotto edito in Italia da Nottetempo -, Ru in francese significa “piccolo ruscello” e in senso figurato “flusso, distesa” – di lacrime, sangue, soldi. In vietnamita significa culla ed indica anche l’azione del cullare. Un titolo vocazionale, denso di significati acquisiti dalla lingua madre e da quella adottiva. Parole di confine, lingue di sutura rispetto a una biografia complessa e che mette in scena il molteplice come molteplici sono le identità create per necessità, per salvarsi dalla brutalità, non cullate con dolcezza sul filo del tempo che passa. Allora la gestazione spetta alle parole. Dire addio a ciò che è stato.

Erano venticinque anni che portavo dentro questo libro. Poi quando ho compiuto quarant’anni mio marito mi ha fatto un bellissimo regalo. All’epoca avevo appena chiuso il mio ristorante, prima ancora ero avvocato e anche interprete; non la smettevo di cambiare occupazione. Così, mio marito ha stabilito che sarei dovuta rimenere in punizione per un mese senza accettare nessuna offerta di lavoro, per riflettere sul mio avvenire, perché si considera che a quarant’anni è tempo di decidersi. Allora, ho approfittato di quel mese per scrivere. Mi sono detta: “mi prenderò un mese solo per scrivere, per mettere su carta quello che ho nel ventre”.

Incoraggiata a proseguire la stesura della prima redazione, Kim Thuy ha finalmente deciso di concentrarsi su questo pro-getto autobiografico così intimamente connesso al processo di autoguarigione. E voilà un piccolo romanzo che è la storia del suo esilio e dell’estremo adattamento che ogni nuova situazione le ha sempre imposto, a partire dall’apprendimento di una nuova lingua sconosciuta che è, poi, diventata quella di espressione e libertà.

Un libro scritto in un anno e, al contempo, un libro che per venticinque anni si scriveva e si preparava nell’interiorità. Un libro su se stessa, ma anche sulle persone care che hanno condiviso la sua storia ed altre incontrate per caso, brevemente, che hanno lasciato una traccia perché il filo di una vita riuscisse a essere ripercorso a ritroso senza perdersi nei vuoti o nelle trappole del dolore, nel labirinto dell’impraticabile.

Una storia di esilio e d’emigrazione che troppo spesso associamo a povertà e tristezza tanto da prenderne le distanze astraendoci, scopriremo, invece, grazie alla poesia di queste pagine, la ricchezza “dell’essere in vita” che in questi tempi naufraghi va preservata e compresa per trovare un ponte di umanità. La lettura – questo potente antidoto per distillare la conoscenza senza le barriere che alziamo davanti alla diversità al fine di proteggerci – e la scrittura –  questo potente balsamo che prepara la rinascita…

Lo stile Ru è netto, sintetico, procede a segmenti, come aneddoti, altre volte riflessioni, altre ancora piccoli ritratti, immagini o discorsi incrociati e rimembrati nel loro suono anodino che solo con il passare del tempo possono essere veramente “appresi”, tali a enigmi che formano attorno a noi un salvagente invisibile e che riusciremo a riconoscere solo quando saremo arrivati sulla riva della salvezza e quando sarà passato altro tempo, quello della consapevolezza.

Tra spleen e gratitudine, la scrittura procede ancora analogica come la memoria e ogni pagina – che costituisce un piccolo capitolo a sé, a volte metà pagina soltanto – è densissima seppur apparentemente spoglia – spogliata del superfluo.

Ciò che pare tessere la trama silenziosa – dove le “interruzioni” rappresentano le smagliature che distendono e tengono insieme l’intrigo strutturato a mosaico – è il rapporto con la madre. Una maternità che come genealogia è una cordata femminile rivitalizzata.

Sono nata durante l’offensiva di Tet, ai primi giorni del nuovo anno della Scimmia (…).Ho visto il giorno a Saigon, là dove i resti dei petardi scoppiati in mille briciole coloravano il suolo rosso come petali di ciliegio, o come il sangue dei due milioni di soldati sparsi nelle città e nei villaggi di un Vietnam strappato in due. Sono nata all’ombra dei cieli ornati di fuochi d’artificio, decorati di ghirlande luminose (…). La mia nascita aveva la missione di sostituire le vite perdute. La mia vita portava il dovere di proseguire quella di mia madre. (…) Grazie all’esilio i miei figli non sono stati prolungamenti di me o della mia storia.

Pagina dopo pagina si ha l’impressione che la resilienza stia nella rivisitazione dell’abbandono della propria patria come un attraversamento, di acque, di colore azzurro, di cielo e di mare che a bordo di una barca in mezzo all’oceano sono un’unica profondità dove si perde la destinazione. Si sta andando verso il cielo o verso la terra? Paradiso e inferno, le speranze e le paure. La scommessa di un nuovo avvenire, la violenza della contingenza, il corpo della morte. Sapere che sarà impossibile comunicare la disperazione.

(…) paura dei pirati, paura di morire di fame, paura di intossicarci con i biscotti imbevuti di olio del motore, paura di morire di sete, paura di non riuscire a alzarci, paura di non riuscire a ricostruirci moralmente, paura di dover urinare nel vaso rosso che passava da una mano all’altra, paura che questa testa di bambino malato sia contagiosa, paura di non camminare mai più sulla terra ferma, paura di non rivedere mai più i volti dei familiari seduti da qualche parte in penombra nel mezzo di queste duecento persone. (…) La paura si è trasformata in un mostro dai mille volti.

Reminescenza di viaggio in parte, ma piuttosto trasposizione del vissuto in procedimento scrittorio: così come le paure lasciavano presagire un potenziale naufragio, così la scrittura restituisce ricordi disordinati come il mare riporta a galla relitti e sopravvissuti. L’urgenza. Il tumulto, il terrore, la vergogna, la necessità di farcela, la “colpa” di avercela fatta che vive la metamorfosi in responsabilità di ricordare le radici senza lasciarle avariarsi nell’oblio di ciò che è drammaticamente troppo tragico per la dignità. E l’emergenza di quello che conta.

I miei genitori ci ricordano spesso, ai miei fratelli e a me, che non avrenno dei soldi da lasciarci in eredità, ma credo che ci abbiano già trasmesso la ricchezza della loro memoria che ci permette di cogliere la bellezza di un grappolo di glicine, la fragilità di una parola, la forza del meravigliarsi. Più ancora, ci hanno fatto dei piedi per camminare fino ai nostri sogni, fino all’infinito. Forse è sufficiente come bagaglio per continuare il nostro viaggio da soli, contanto su noi stessi.

Un percorso che diventa paradossalmente più leggero, più libero perché non depassa i limiti del proprio corpo ed in questa misura umana supera i limiti della cose che ci ancorano e ci fissano con la loro greve pesantezza, imparare a non fuggire e a concentrare il proprio “peso” nella realizzazione della propria vita.

Un approdo identitario che talvolta prende in prestito i sogni collettivi fabbricati per rassicurare la società, come il sogno americano: arrivata in Canada tutto è difficile, nuovo, spesso ostico, ma l’accoglienza lascia spazio alla suggestione di un orizzonte in cui poter partecipare del benessere e dell’emancipazione; almeno di un po’ di serenità.

E così è stato, ma il desiderio di qualcun altro non basta all’anima e i propri sogni, modellati sulla propria differenza e unicità si risvegliano quando li si cerca e non ci si stanca di essergli fedeli. L’enciclopedia dei mantra possibili per far apparire la guida negli abissi della propria storia e dell’incoscio è proprio la scrittura.

Monsieur Minh (…) si preparava a diventare libraio con la stessa serietà e lo stesso ardore e lo stesso nervosismo dei tempi dei suoi studi di letteratura francese alla Sorbona. Lui, non dal cielo era stato salvato, dalla scrittura. (…) sempre sul solo e unico pezzo di carta che possedeva, una pagina sopra l’altra, un capitolo dopo l’altro, una storia senza seguito. Senza la scrittura non sentirebbe oggi la neve fondere, le foglie spingere e le nuvole incamminarsi. Non avrebbe nemmeno visto il cul-de-sac di un pensiero, la pelle spoglia di una stella o la tessitura dell’orlo di una virgola.

Ogni nascita è un naufragio, una rotta nella notte e nella nebbia, tra giornate di sole, torridi deserti, furiose tempeste, e venti che mettono in soggezione. Cosa ci ha insegnato il cammino?

pascalIdentità in marcia, all’ombra di sé stessi, la scrittura annoda nuove relazioni, relazioni di amicizia. Era il 2010 quando Kim Thuy intraprese il suo viaggio in Italia per la presentazione del suo libro. Bologna, e poi Roma. È nella capitale che per caso incrociò lo scrittore Pascal Janovjak. Non si conoscono nemmeno letterariamente, non hanno ancora letto nulla l’uno dell’altro, ma un premio letterario è complice del loro incontro: qualche ora tra parentesi rispetto alle migliaia di chilometri che li separa nella quotidianità vissuta a due capi dell’oceano, eppure Kim e Pascal riescono a conoscersi, conversano, si raccontano, e stringono una complicità rara. Quando Kim torna a Montréal e Pascal in Palestina iniziano a scriversi per continuare il discorso lasciato in sospeso, un discorso fatto delle piccole gioie e difficoltà domestiche come delle opinioni intellettuali e storiche più spinose, irrisolvibili, contenibili solo nello scambio narrativo sospendendo ogni giudizio, ridando all’incomprensibile la sua aura di fatalità.

Esilio, nomadismo, diventare genitori, infanzia che riemerge, scrittura che continua a chiedere di essere tracciata, intimità e universalismo, meditazione sulle ferite dell’esistenza che per quanto siano così spaventose da farci ritirare per non soffrire sono quelle esperienze scandalose e sconvolgenti, impudiche e maleducate che aprono al mondo. Il mondo non di rado riparte da una nascita. In A te – raccolta della corrispondenza tra i due scrittori – Kim si rivolge a Pascal che sta per vivere un cambiamento radicale: in procinto di diventare padre – tra emozione e fragilità – i vecchi demoni della paura si risvegliano, allora Kim che è già madre avvicina le sue emozioni.

Mi domando spesso con quale diritto sono testimone di tutta questa bellezza, quando non ho ancora abbastanza vissuto, abbastanza dato, abbastanza amato. Forse perché la vita che vivo non mi appartiene. Perciò mi sveglio, mi faccio avanti, amo con la fragilità di un impostore, nonostante io ora possieda una assicurazione sanitaria e un’assicurazione sociale. (…) Insomma, questa fragilità è forse la stessa, discreta, ma onnipresente.

Toccare il limite con un dito e ricostruirsi malgrado tutto.

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