Knight of Cups e due parole su sogno, memoria e realtà

Questo non è l’unico film di natura inclusiva e pervasiva, direi totale del minuziosissimo Terrence Malick – sono otto i lungometraggi dal 1973 a oggi, anche se la frequenza aumenta negli ultimi anni. Come non è l’unico film che comincia con visuali dal cosmo prendendo in oggetto la sfera celeste (penso a The Tree of Life): è una premessa ambiziosa, ci sta dicendo che l’intenzione è quella di parlare di tutto. E in effetti sono molte le questioni: famiglia, amore (serio, effimero), sesso, morte, crisi d’identità, mondanità e ascetismo, ambizioni, lavoro, magia e superstizione, religione, ricchezza e povertà. Se stanno così le cose prendere in considerazione un elemento particolare è certamente restrittivo, ma queste sono le mie considerazioni su alcune insistenze che ho riscontrato.

Si tratta di un film sul sogno e sulla memoria, su ciò che avviene nel sogno e nella memoria. Ma andiamo con ordine. Estremamente ricorrente è l’immobilità del protagonista in ogni scena, che lo rende puro osservatore di ciò che lo circonda. In realtà spesso capita che il protagonista abbia una parte attiva in relazione alle circostanze, quando per esempio lotta scherzando con due ragazze mezze nude nella camera d’albergo. Ma ciò che vorrei prendere in considerazione sono le moltissime scene in cui il protagonista è ridotto a uno sguardo: la donna importante della sua vita (interpretata da Cate Blanchett) strilla, gli si rivolge con rabbia, ma lui resta una figura immobile, in osservazione. Ricordo anche varie scene con il fratello, che lo invita alla lotta, lo spinge e gli intima di reagire, ma lui resta immobile. Gli viene versata dell’acqua in testa e non reagisce; alcuni sceneggiatori gli parlano di finanziamenti per un film, gli consigliano una condotta e lui non interviene – e, cosa molto importante, questo non intervenire non provoca nessuna reazione in chi gli sta parlando.

Tutto questo potrebbe far pensare genericamente a un sentimento di durezza e estraneità verso il mondo e le persone, ma vorrei restringere il campo e interpretare questa tecnica con maggiore precisione. Infatti ora tento un’affermazione di carattere filosofico: i sogni e i ricordi sono privi di realismo. Gli elementi che si svolgono in queste due attività non hanno la logica razionale che vediamo svilupparsi nel mondo, dove ad A consegue una logica conseguenza B: se due persone litigano e uno si scaglia contro l’altro, quest’ultimo si spaventa e si ritrae. Nei sogni e nei ricordi ogni elemento è in risalto e non ha relazioni perché nel momento del suo apparire il resto non è presente (circostanze, ambiente, sottofondo). Nel caso – anti-realistico o anti-mimetico – sopracitato dunque il ruolo di Cate Blanchett rappresenta la donna in lite del ricordo o del sogno e questo ci viene segnalato dalle immagini del protagonista immobile, che rappresentano il soggetto che la sogna o la ricorda.

Per tornare alle considerazioni sulla immaginazione, non siamo in grado di considerare la compresenza di due elementi agenti in contemporanea. Ricordiamo e sogniamo in maniera spezzata: un gesto, una frase, una risata, uno sguardo. Lo svolgersi, il succedersi degli elementi non ha una logica evidente e sostengo che il film sia costruito per rappresentare esattamente questo, e che lo faccia con maestria. È diviso in otto parti, il nome di ognuna di queste è quello di alcune carte dei tarocchi (Luna, Morte, Giudizio…), ma sostenere che le scene all’interno di ogni parte abbiano una relazione stringente con l’argomento è ipotesi a dir poco peregrina.

In una scena il padre, ormai vecchio, del protagonista è muto (e in una stanza vuota si lava le mani con del sangue), ma sentiamo la sua voce. In un’altra il padre e il fratello litigano furiosamente ma i loro discorsi non sono udibili, sentiamo invece altre voci e una musica monotona e insistente. In questo articolo si parla di una critica di Jessica Klang in riferimento ai troppi monologhi o dialoghi i cui attori non sono inquadrati; pare sostenga anche che ci siano troppo spesso discorsi diversi che si sovrappongono, per di più mescolati con la musica. Tutto ciò è certo anticonvenzionale, sperimentale, ma non può irritare perché l’intento del film è di rappresentare la natura frammentaria, spezzata, anti-relazionale e non coincidente del sogno e del ricordo contingente e non organizzato, controllato. È un film che riesce a liberarsi dell’imperversante razionalismo, dell’ordine, del senso più comunemente diffuso, dei ragionamenti e sillogismi che hanno già nelle loro premesse lo svolgimento e dove quindi niente di nuovo si dice e il risultato è una gran noia.


Per una divergenza di punti di vista, ecco l’articolo di Massimo Mordini: The Knight of Cups. Note su un poema didascalico

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