Knight of Cups – Note a un poema didascalico

Il penultimo film di Terrence Malick è uscito anche nelle sale italiane e ha diviso il pubblico, così come è avvenuto per alcuni di noi della Redazione di Tropismi. Marco Gadaleta ha portato uno sguardo convinto sulla qualità della pellicola, ma possono essere mosse alcune critiche da parte di chi è rimasto deluso dall’opera.

I trailer di Malick si fanno piacere. D’altronde, è bene dirlo, si fa anche presto a lasciarsi impressionare: tre minuti di immagini abbaglianti e musica azzeccata, quando ben montati, bastano infatti ad attirare gente al cinema. I promo sono del resto pubblicità, servono appunto a invogliare all’acquisto. Ma il film invece a che serve? Di cosa e a chi parla?

Non ci si qui dilungherà sul contenuto, e certo non per evitare spoiler. Non succede infatti alcunché. Del resto, ahinoi, siamo ormai abituati a registi che, spacciandosi per moderni Flaubert, ci propinano opere sul nulla o, come in realtà succede, opere che non sono nulla. Nel caso in questione c’è un protagonista (Nick, Christian Bale), presunto sceneggiatore, che pare sia in lite con il padre e con la moglie (Nancy, Cate Blanchett), con la quale condivide, come spesso accade, una vita coniugale non troppo felice. Non fa infatti che sfrecciare, verso dove non si sa, a bordo di costose auto, sempre accompagnato da modelle tutt’altro che bruttine. Certo ha anche lui i suoi slanci spirituali: corse sulle bagnasciuga e escursioni tra le agavi. Ogni tanto alza gli occhi al cielo, segue il volo di un elicottero, si perde con lo sguardo tra svettanti grattacieli. Prima è a Las Vegas, poi dentro la cupola del Reichstag. Consulta persino i tarocchi, ma senza quella disperazione, patetica ma sincera, con cui li legge, ad esempio, la Cléo di Agnès Varda. Nemmeno un terremoto riesce infatti a scuoterlo, dei ladri gli entrano in casa e lui neppure si spaventa. Se l’intento era filmare l’apatia, l’obiettivo è stato dunque raggiunto. Le immagini sono sempre mosse, sfocate nel loro nitore: sembra, come in effetti è, di trovarsi nella mente nebulosa di un uomo dedito all’alcool.

Al pari del pescatore di perle, di cui parla la parabola con cui si apre il film, anche il nostro cavaliere di coppe è infatti finito per perdersi, per dimenticare, insomma, la sua vera missione; invece di pozioni beve ottimo whiskey, ma sappiamo tutti che l’effetto più o meno è quello. Quale che sia il motivo, reale o immaginario, anche il protagonista non ricorda quindi chi è, né da dove viene e, tantomeno, dove va. Tutta la pellicola ruota infatti attorno a questo, alla ricerca dell’inafferrabile, a un cane che – come si vede in una delle tante, esasperanti, scene subacquee – tenta invano di addentare una pallina. Ciò che stona non è dunque il montaggio, nemmeno troppo criptico, né l’abuso del grandangolo per riprendere una realtà che, agli occhi di chi la guarda, può in effetti apparire deformata. Quello che infastidisce, al contrario, è la tendenza a ridurre tutto a schema. Di onirico, in questo film, non c’è infatti che la patina: si procede per episodi più che mai didascalici, dove al sesso si oppongono gli affetti, all’edonismo la meditazione. Ci viene insomma detto che Malibù, al contrario del Tibet, è un luogo di perdizione, che la promiscuità non fa che allontanarci da noi stessi, impedendoci così, anziché favorirla, una vera comunione spirituale. Tutto, divertendoci, ci distrae. Questo, a dire il vero, già l’aveva capito Pascal, identificando la grandezza dell’uomo nella coscienza del suo proprio squallore.

La remota nostalgia dell’originale, presunta, perfezione è spiegata nei Pensées con un’altra storiella biblica, quella adamitica, ma sempre di peccato si tratta. L’apologeta cristiano aveva intuito, però, che per sedurre e convertire i libertini non bastano prediche o visioni miracolose. Ci vuole una scommessa. In Malick, invece, non c’è alcuna posta in gioco. Certo è un cineasta, non un matematico, il suo linguaggio è quello visuale e, bisogna dirlo, con le immagini ci sa fare sin troppo. Il risultato è infatti un catalogo modaiolo, di quelli che il regista stesso sembra prendere di mira, accattivante nella sua vuotezza, come, del resto, lo era già The Tree of Life.

Di nuovo si intravede, e questa volta letteralmente, una luce in fondo al tunnel, ma mancano indicazioni che ci portino sino a lì. Si sentono, è vero, bisbigli che ci dicono di liberarci, di amare, di ricominciare ma, se non fosse per la convinzione con cui vengono pronunciati, parrebbe quasi di assistere a una parodia di qualche guru new age. L’ironia è però qui totalmente assente. Siamo infatti agli antipodi di The wolf of Wall Street, che pure ha ben altri difetti, o anche solo del più modesto Bling Ring, dove di redenzione proprio non si parla, se non in maniera grottesca. Quello che manca in Knight of Cups è appunto la lucidità di Scorsese o della Coppola, la capacità di descrivere il mondo come è e non come dovrebbe essere. Passino pure le riprese appannate, gli enigmatici inserti documentaristici, ma qui pure l’intento manca di chiarezza. Di nuovo, di cosa e a chi parla questo film? Vuole forse ammonirci della vanità del mondo, insegnarci a fuggirla e a ritrovare l’armonia? Ben venga, se ci riesce.

Altrimenti sarebbe più onesto lasciare lo spettatore al buio, se non si sa come illuminarlo.

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