La leggenda di Aracne dipinta da Velázquez

Nota anche come Las Hilanderas (Le filatrici), La leggenda di Aracne è un dipinto a carattere mitologico di Diego Velázquez, realizzato tra il 1644 e il 1648. In quel periodo (e per grande parte della propria vita, in effetti) era pittore di corte presso Filippo IV, ma l’opera gli fu commissionata questa volta da un privato. Il mito scelto è quello raccontato da Ovidio nel sesto libro delle Metamorfosi, anche se la figura di Aracne sembra avere una fortuna che risale ancora alla mitologia greca − sebbene non se ne conservi traccia sicura. Si tratta di un racconto eziologico che, oltre a giustificare l’abilità dei ragni nel tessere, spiega anche il genere del sostantivo “ragno” in latino (aranea è infatti femminile e indica, per estensione, anche la ragnatela) e motiva, a posteriori per noi, il nome scientifico della specie.

Aracne appartiene a una famiglia di umili origini ed è una grande lavoratrice: il padre è tintore di stoffe e lei ha imparato a filare così bene da non avere rivali.

Per vedere i suoi meravigliosi lavori, spesso le ninfe del Timòlo lasciarono i loro vigneti, le ninfe del Pactòlo lasciarono le loro acque. E non soltanto meritava vedere i tessuti finiti, ma anche assistere a quando li faceva, poiché era un vero spettacolo. Sia che agglomerasse la lana greggia nelle prime matasse, sia che lavorasse di dita e sfilacciasse uno dopo l’altro con lungo gesto i fiocchi simili a nuvolette, sia che con l’agile pollice facesse girare il liscio fuso, sia che ricamasse, si capiva che la sua maestria veniva da Pallade.∗

Per ammirazione, i suoi connazionali (Aracne è originaria della Lidia), infatti, diffondono la voce che la ragazza abbia imparato il mestiere addirittura da Atena in persona, pensando di farle il più grande complimento possibile.

Ma Aracne sosteneva di no, e, invece di essere fiera di una così grande maestra, diceva impermalita: «Che gareggi con me! Se mi vince, potrà fare di me quello che vorrà».∗

Ora, tornando al quadro: la rappresentazione di Velázquez si stende su innumerevoli piani. Direttamente sotto gli occhi dell’osservatore, cinque filatrici sono intente nel loro lavoro, mentre a terra, tra i bioccoli, un gattino è particolarmente interessato a giocare.  La luce naturale entra da sinistra e, esattamente come farebbe un occhio di bue, mette in risalto alcuni particolari della scena: la gamba della donna sulla sinistra (il cui viso in penombra ci aveva fatto pensare a una vecchia filatrice, ma la gamba nuda, illuminata, accentua la sensualità che i vestiti nascondono) e la tessitrice sulla destra, la cui camicietta bianca risplende sotto la luce.

Sullo sfondo, invece, si apre una stanza più piccola, separata da quella in primo piano da due gradini: tre donne vestite elegantemente danno le spalle alla scena di lavoro, e forse ci aiutano a collocare l’ambientazione nell’arazzeria di Santa Isabella, dove venivano eseguite le opere per Filippo IV. Una di loro, quella più a destra, sembra essersi accorta della nostra presenza e ha distolto per un attimo gli occhi dall’opera a a cui le altre stanno ancora prestando attenzione. Ci sono infatti due donne tra loro, dipinte a colori soffusi − fanno forse parte dell’arazzo appeso alla parete di fondo? Una, infatti, indossa un elmo: è ovviamente Atena, che con il  braccio alzato sembra minacciare la figura che occupa il centro del dipinto e che sta di fronte a lei, che ormai, per la scena di tessitura che occupa il primo piano del quadro e per la raffigurazione dell’arazzo (si tratta infatti del Ratto di Europa di Tiziano, artista che Velázquez ammirava e opera che apparteneva effettivamente alla collezione di Filippo IV − nonché uno dei soggetti, ci racconta Ovidio, che la sfidante di Atena scelse di rappresentare nella loro gara di filatura), possiamo positivamente identificare con Aracne.

la leggenda di aracne

Il mito così continua: Aracne deve capire che non sta bene sfidare gli dei e che bisogna sempre essere riconoscenti per i doni che si hanno. Non è lei brava a filare, non sono il duro apprendistato e la continua pratica che l’hanno resa la migliore, ma le è stato concesso, da un potere superiore, di poter esercitare quell’arte. La sfida tra le due tessitrici inizia, i lavori vengono portati avanti in parallelo, ma l’esito (come sempre quando ci si mette in mezzo l’hybris) non sembra profilarsi felice.

Neppure Pallade, neppure la Gelosia poteva trovare qualcosa da criticare in quell’opera [di Aracne], ma la bionda dea guerriera ci rimane malissimo e fece a brandelli la tela che illustrava a colori le colpe degli dei, e trovandosi in mano la spola di legno del Citoro, tre e quattro volte colpì con quella sulla fronte Aracne, figlia di Idmone. La poveretta non lo tollerò, e corse impavida a infilare il collo in un cappio. Vedendola pendere, Pallade ne ebbe compassione e la sorresse, dicendo così: «Vivi pure, ma penzola, malvagia, e perché tu non stia tranquilla per il futuro, la stessa pena sia comminata alla tua stirpe e a tutti i tuoi discendenti!»
Detto questo, prima di andarsene la spruzzò di succhi di erbe infernali, e subito al contatto del terribile filtro i capelli scivolarono via, e con esso il naso a gli orecchi; e la testa diventa piccolissima, e tutto il corpo d’altronde s’impicciolisce. Ai fianchi rimangono attaccate esili dita che fanno da zampe. Tutto il resto è pancia − ma da questa Aracne riemette del filo e torna a rifare, ragno , le tele come una volta.∗

Un quadro a palcoscenico che contiene, se non proprio una mise en abime, almeno la volontà, abbastanza esplicita, di Velázquez di rivolgersi direttamente ai propri detrattori, che spesso lo vedevano più come figura di corte che come pittore, non riconoscendogli la grandezza che ha fatto invece, a posteriori, la sua fortuna. Qualsiasi tipo di arte, che consista nel filare una tela o nel dipingerla, non può essere solamente un dono piovuto dal cielo (che sia pieno o meno di dei): necessita di esercizio continuo, di dedizione, di duro lavoro, di sacrificio.

∗ La traduzione delle Metamorfosi di Ovidio qui riportata è di Pietro Bernardini Marzolla. 

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