Controllo e prigione sociali dal Panopticon a oggi

Nel XVIII secolo ebbe luogo in Europa una profonda riflessione politica, filosofica e umana riguardo al sistema penitenziario nel suo complesso – dai metodi punitivi alle finalità della carcerazione – che comportò una revisione radicale dello stesso. Iniziato da Cesare Beccaria con il suo celeberrimo opuscolo Dei delitti e delle pene, il dibattito si prolungò fino alla fine del secolo e assunse un’importanza tale da rendere necessaria una riorganizzazione dei meccanismi teorici ed esecutivi penali. La concezione platonica che le pene dovessero correggere piuttosto che punire iniziava a diffondersi tra gli intellettuali insieme con la sensazione che il trattamento riservato ai rei fosse illegittimo, tirannico e nocivo per la società si diffusero velocemente e assunsero diverse sfumature, a seconda delle situazioni specifiche e dei regimi vigenti nei singoli Stati.

Panopticon, progetto Benthaniano

Il testo di Cesare Beccaria ebbe un successo continentale e instillò sia in ambiente letterario e filosofico che in ambiente giuridico il dubbio – e infine la certezza – che una pena detentiva fosse migliore di quella capitale, ben più spesso applicata, e che il Sovrano non dovesse godere del diritto innaturale alla privazione della vita, nemmeno nel nome del quieto vivere civile. In molti, contribuendo al dibattito, cercarono di stabilire quali potessero essere le esigenze primarie dei carcerati; alcuni si concentrarono sull’aspetto umano della loro condizione; altri realizzarono progetti architettonici carcerari di vario tipo e genere, in linea con la personale interpretazione della funzione della pena. Tra questi ultimi il più famoso è il Panopticon, ideato nel 1786 da Jeremy Bentham, un filosofo e giurista inglese.

In Inghilterra, nella seconda metà del ‘700, il numero dei reati commessi aveva subìto un vertiginoso aumento, che i governi tentarono di contrastare attraverso una feroce e puntuale applicazione della pena capitale, delle marchiature o della deportazione nelle colonie inglesi, a dispetto della pena detentiva, sebbene essa comportasse la morte dei prigionieri nella maggior parte dei casi, tale era il malsano e crudele trattamento a loro destinato. Nel 1777 John Howard, dopo un’attenta inchiesta sulle condizioni delle carceri, aveva condannato nel suo State of Prison la crudeltà e l’insensatezza del sistema penitenziario inglese contemporaneo, condannando lo stato di umiliante e dolorosa disumanità in cui versavano i prigionieri – che peraltro subivano in quasi tutti i casi abusi di diverse forme e medesima brutalità – e proponendo una riforma carceraria che prevedesse l’impiego dei carcerati, utile oltre che alle casse dello Stato alla loro eventuale riabilitazione in società; l’introduzione degli insegnamenti religiosi, volti all’orientamento etico-morale dei prigionieri; una disciplina rigida ma non gratuitamente dolorosa; un ferreo isolamento che inducesse alla riflessione favorendo il pentimento e l’espiazione. Proprio quest’ultimo punto, condiviso laicamente da Bentham, costituì la base del Panopticon.

Apparentemente Beccariano, accanito sostenitore del reato quale espressione di malattia piuttosto che di deviazione e detrattore della deportazione sia perché priva di esemplarità che perché costosa per lo Stato, Bentham elaborò il progetto di un edificio a pianta circolare in cui ogni detenuto potesse essere costantemente osservato ed ogni cella fosse equidistante da una guardia posta al punto fisso di tale circonferenza. La progettazione di luoghi mirati alla correzione dei detenuti attraverso l’isolamento e un basso impiego di guardie carcerarie, fu l’ovvia conseguenza dell’acquisita consapevolezza di un’esigenza di cambiamento-miglioramento nel sistema e nelle strutture penitenziari, rafforzata dalla necessità di arginare la diffusione pandemica della febbre tifoide che mieteva numerose vittime tra detenuti, guardie e giudici.

Già quest’ultima motivazione dimostra tracce di utilitarismo nella riforma penitenziaria, ma fu proprio Bentham a fare dell’utilitarismo una dottrina filosofica di natura etica, dandone per primo una definizione, successivamente approfondita nella metà del secolo successivo da John Stuart Mill. L’utilitarismo Benthiano proponeva un’ideale di giustizia consequenzialistica per cui l’atto dovesse essere giudicato non in sé ma nelle sue conseguenze effettive, nel suo risultato. Nel testo che pubblicò a Londra nel 1789, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, scrisse infatti che “non esiste qualcosa come un tipo di movente che sia in se stesso cattivo”.

Dunque un’azione è morale e “giusta” se produce un saldo di conseguenze positive per se stessi e la comunità superiore a quelle di ogni altra azione possibile, a prescindere dagli strumenti utilizzati per compierla, dalle cause, dalle contingenze e dal responsabile di essa. E per lo stesso criterio anche la legge è giusta se pur commutando delle pene riesce a comportare attraverso la sua applicazione un saldo di conseguenze positive superiore a quelle dei possibili reati. Tuttavia le pene devono essere direttamente proporzionali alla gravità del reato commesso, sicure e prevedibili, poiché sia nel caso in cui siano esageratamente afflittive che nel caso in cui lo siano troppo poco risulteranno inefficaci.

A questo sistema filosofico, Bentham affiancò una notevole attenzione ai fattori economici, sia sostenendo l’idea che i cittadini – che fossero detenuti o meno – dovessero contribuire alle spese dello Stato proporzionalmente alle proprie possibilità, sia proponendo misure che permettessero un impiego più basso di lavoratori all’interno delle strutture pubbliche quali per esempio quelle carcerarie. La sintesi tra la politica economica e la dottrina filosofica da lui elaborate e promosse come funzionali, si racchiuse interamente nel singolare e geniale progetto del Panopticon, che presentò per la prima volta nel 1791, quando a Dublino pubblicò un opuscolo dal titolo Panopticon o la Casa d’Ispezione.

In verità il testo ebbe una scarsa diffusione, confessata dall’autore stesso, ma non il concetto al suo interno, che rese Bentham noto nell’ambiente intellettuale dell’epoca, sebbene molti non avessero ben chiaro il panottico così come era concepito e sebbene infine, per realizzarlo, dovette utilizzare – non trovando nessun’istituzione o ente disposto a sovvenzionarne la costruzione – i suoi stessi risparmi, che gli verranno rimborsati solo poco prima della sua morte, avvenuta nel 1832.

Il Panopticon si prefigura come una costruzione a corpo unico di forma circolare, privo di uscite e articolazioni e illuminato da un’unica cupola conica che funge da tetto dell’edificio. Le celle sono poste lungo il muro perimetrale in ordine sovrapposto, e risultano di dimensioni piuttosto ridotte. Ogni cella ha due aperture: il cancello che conduce al ballatoio interno e forma un diametro con la cella dal lato opposto e passando per la torre di guardia; una finestra che dà sull’esterno e per la quale il detenuto è costantemente esposto all’occhio della guardia carceraria. Al centro dell’edificio è posta una torre di guardia molto simile ad un faro e riservata ad un solo individuo, la cui posizione strategica permette il controllo di tutte le celle contemporaneamente. Per usare le parole di Michele Foucault in Sorvegliare e Punire1 si tratta dunque di “tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individuabile e costantemente visibile”.

Le caratteristiche più importanti del Panopticon, ovvero quelle che ne costituiscono l’utilità permettendo una totale riabilitazione del reo sono sostanzialmente due: la prima è che le persiane della torre di guardia sono schermate, un fattore che rende impossibile al detenuto stabilire se sia controllato o meno durante il lavoro o le normali attività quotidiane; la seconda è la conformazione delle celle, che costringono ogni detenuto all’assoluto isolamento. Secondo Bentham, infatti, sono proprio questi due aspetti a garantire l’espiazione del reato contratto e la redenzione di chi l’ha compiuto: la percezione di un’inevitabile e superiore onniscienza provocata dall’invisibilità della guardia, induce i detenuti a rispettare integralmente la disciplina; l’isolamento favorisce il pentimento, la futura sicurezza civile, l’integrità morale dei detenuti e l’interiorizzazione dell’aderenza totale a suddetta disciplina, al punto da farla divenire automatismo, in un processo straordinariamente descritto da Foucault nel saggio succitato:

Ciascuno […] è visto, ma non vede; oggetto di una informazione, mai soggetto di una comunicazione. Se i detenuti sono dei condannati, nessun pericolo di complotto o tentativo di evasione collettiva, o progetti di nuovi crimini per l’avvenire, o perniciose influenze reciproche […]. La folla, massa compatta, luogo di molteplici scambi, individualità che si fondono, effetto collettivo, è abolita in favore di una collezione di individualità separate. Dal punto di vista del guardiano, essa viene sostituita da una molteplicità numerabile e controllabile; dal punto di vista dei detenuti, da una solitudine sequestrata e scrutata.

Il sistema del Panottico, sapiente quanto crudele, dunque, comporta “un assoggettamento reale [che] nasce meccanicamente da una relazione fittizia”. E non servono più catene, violenza, forza o brutalità, poiché saranno gli stessi detenuti a sviluppare un principio di adeguamento-assoggettamento interiorizzando il rapporto di potere con l’entità “visibile e inverificabile”.

Il Panopticon non è unicamente una prigione ideale, dunque, ma “il diagramma di un meccanismo di potere ricondotto alla sua forma ideale”; “un tipo di inserimento dei corpi nello spazio, di distribuzione degli individui gli uni in rapporto agli altri, di organizzazione gerarchica, di disposizione dei centri e dei canali di potere, di definizione dei suoi strumenti e dei suoi modi di intervento” che, in definitiva, “permette di perfezionare l’esercizio del potere”, se perfezionamento possono definirsi “la torsione del potere codificato di punire in potere disciplinare di sorvegliare” e lo spostamento dell’esercizio del potere da un piano effettivo, fisico e visibile, ad uno sotterraneo, psicologico e indimostrabile.

Bentham lo sapeva bene, tanto che, dopo una fase iniziale di inserimento del Panopticon nel solo ambito penitenziario, acquistata la certezza che il suo progetto fosse “ un grande e nuovo strumento di governo”2, allargò le sue possibili applicazioni a strutture amministrative diverse quali manicomi, fabbriche, scuole e ospedali, in una polivalenza ben espressa nel suo Panopticon, IV :

[Il Panoptismo sa] riformare la morale, preservare la salute, rinvigorire l’industria, diffondere l’istruzione, alleggerire le cariche pubbliche, stabilizzare l’economia come sulla roccia, sciogliere, invece di tagliare, il nodo gordiano delle leggi sui poveri. […] Sia che si tratti di punire i criminali incalliti, sorvegliare i pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli oziosi, mantenere gli indigenti, guarire i malati, addestrare quelli che vogliono entrare nell’industria, o fornire l’istruzione alle future generazioni […] [è applicabile] a tutti gli stabilimenti in cui, nei limiti di uno spazio che non sia troppo esteso, è necessario mantenere sotto sorveglianza un certo numero di persone.

In quest’ottica, è impossibile liquidare il Panopticon come la strabiliante e stramba invenzione di un filosofo di fine ‘700, in primis perché si tratta chiaramente di una vera e propria procedura di disciplinamento di base psicologica3 applicata al sistema penitenziario e applicabile a molti altri sistemi; in secundis perché il meccanismo di potere intrinseco al Panopticon, ben compreso e illustrato da Bentham, si dimostrerà non solo potenzialmente realizzabile, come nel caso del romanzo distopico di Orwell che approfondiremo tra poco, ma effettivamente realizzato – ben oltre l’aspetto architettonico – nei rapporti contemporanei tra virtuale e reale, tra media e spettatore, tra mercato e consumatore; in tertiis perché il progetto del Panopticon nella sua integrità – implicazioni comprese – è la testimonianza storica e consapevole del processo di transizione dal potere “classico” a quello contemporaneo, che ad oggi può considerarsi compiuto.

Proprio questo processo di trasformazione dell’esercizio del potere, colto già da Bentham, rappresenta il nucleo del capolavoro di George Orwell: 1984. Qualcuno ha voluto sostenere che la distopia Orwelliana fosse una vera e propria trasposizione letteraria dell’applicazione del Panoptismo Benthiano, ma ritengo che tale teoria sia forzata e inverosimile, sebbene i punti di tangenza tra il regime esplicato da Orwell e quello teorizzato da Bentham siano numerosi il più notevole e centrale aspetto del secondo – il sorvegliante – sia posto nella figura altrettanto centrale del “Big Brother”.

Fotogramma del film del 1984 “1984”, per la regia di Michael Radford

Orwell intendeva denunciare e condannare gli orrori provocati dai totalitarismi, attraverso il suo romanzo, e anche se la sua opera illustra l’incubo dell’orchestrazione del controllo sociale attraverso la sorveglianza e “l’idea del controllo a circuito chiuso che si svilupperà nelle fabbriche nelle carceri, nei locali pubblici, nei supermarket, nei condomini fortificati della borghesia affluente”4 , non è da ritenere consequenziale, ma casualmente assimilabile all’anatomia biopolitica del panoptismo teorizzato da Bentham. E del resto Orwell, diversamente da Bentham, non guarda all’eventuale applicazione del Panoptismo come ad una risorsa: la considera una minaccia, l’esatta fine della dignità umana, della solidarietà e dei principi positivi di cui era impregnato il suo socialismo democratico. Al di là di ciò 1984 merita di essere posto sul podio delle migliori metafore del modello di sorveglianza panoptico per aver introdotto in esso un elemento che in Bentham – per motivi puramente storici – era del tutto assente o presente solo in forma embrionale: il ruolo dell’informazione e della tecnologia nel processo di disciplinamento sociale, nonché le divisioni sociali da esso create.

Ovviamente Orwell non poteva prevedere quale importanza il consumismo avrebbe assunto di lì a un cinquantennio, né avrebbe potuto immaginare come la violenza tipica dei totalitarismi che aveva magistralmente rappresentato potesse volgere a un tipo di violenza tacita, inevitabile vellutata e impossibile da identificare qual è quella esercitata dai nuovi meccanismi di sorveglianza e induzione psico-sociologici che i processi di globalizzazione capitalistica e perfezionamento amministrativo locale hanno accentuato e che si manifesta attraverso un’indefinita e tuttavia definibile manipolazione degli ambiti della vita sociale. Ma ciò non toglie che ne avesse la percezione e che la sua opera, anticipando il futuro di un mondo che fosse “un immenso Panopticon”5, avesse un’inquietante – e purtroppo effettivo – carattere profetico.

Ad oggi le riflessioni sul panoptismo si concentrano più in ambito sociologico che in ambito puramente teorico (filosofico, economico, letterario e storico). Lo spostamento, avvenuto negli ultimi due decenni, è stato naturale quanto inevitabile, poiché l’impero elaborato da Bentham ha trovato luogo nella contemporaneità e si è insinuato nella politica, nell’economia, nei media e nella collettività tutta – da intendersi sia come massa che come compresenza di soggettività distinte. David Lyon, sociologo e professore alla Queen’s University di Kingston, ha segnalato meglio e più di altri, riprendendo tutti gli aspetti del Panopticon6, come all’evoluzione dei concetti di sorveglianza e privacy sia seguito un processo di “spettacolarizzazione del privato”, connesso a sua volta ad un meccanismo di spersonalizzazione del soggetto che la compie. Per quanto riguarda la trasformazione della sorveglianza e della privacy, lungamente trattata nel saggio The Electronic Eye: The Rise of Surveillance Society del 1994 e riassunta in un’intervista di qualche anno dopo, Lyon spiega:

In passato, la sorveglianza era l’oggetto su cui concentravano il loro interesse solo e soltanto poche istituzioni. Mi riferisco essenzialmente alla forze di polizia. Ora, tutte le istituzioni, dalla polizia alle imprese, dagli operatori di marketing alla scuola e alla sanità, svolgono una continua opera di monitoraggio sui comportamenti quotidiani, dal consumo al lavoro, dalle scelte etiche o religiose alle preferenze sessuali. In altri termini, è la vita sociale e le forme di vita individuali che sono messe sotto controllo. Allo stesso tempo, anche il significato di privacy muta. E se storicamente la riservatezza era lo spazio al riparo dallo sguardo pubblico, cioè una zona di immunità dalle ingerenze della società nella propria vita privata, attualmente per privacy si intende la ripresa di controllo del flusso dei propri dati personali.7

Questa stretta sorveglianza collettiva è certamente favorita, promossa e moltiplicata nella sua portata dalle tecnologie digitali. Le videocamere permettono un controllo costante dei movimenti umani; le piattaforme virtuali permettono di ricostruire le attività sociali dei singoli, di metterli in comunicazione tra loro; i moduli statistici interattivi permettono una sorveglianza a basso costo e una ricostruzione sociologica del gusto, delle aspettative, delle tendenze; e poi ci sono i social network: così come i detenuti si adeguavano e assoggettavano alla disciplina al punto da introiettarla e seguirla per automatismo, sono le stesse microcellule dell’organismo sociale – le persone – a esporsi volontariamente e autonomamente alla monitoraggio, ad auto-schedarsi rendendo accessibili le informazioni sulle proprie attività, le proprie esperienze, le proprie ideologie, le proprie aspettative e persino le proprie emozioni.

Tuttavia, proprio a causa del monitoraggio, esattamente nello stesso modo in cui i detenuti sotto sorveglianza perdevano spontaneità, nonché la coscienza e perfino il pensiero di una personalità propria e distinta da quella che il monitoraggio rendeva necessaria, gli individui hanno ceduto alla lusinga del “divismo”, confuso l’espressione con l’imitazione, rinunciato alla naturalezza per l’artificio e alla realtà in virtù di un’ apparenza fittizia dove ognuno – come fosse attore di se stesso e mai se stesso – possa mettersi in scena nel modo migliore possibile e a prescindere da quanto inverosimile e poco aderente a se stessi sia. Questo atteggiamento di spettacolarizzazione individuale, emblematicamente e intelligentemente definito da Vanni Codeluppi “Vetrinizzazione sociale”8, ha comportato la spersonalizzazione del singolo, poiché l’obbligatorio adeguamento alla finzione e l’assoggettamento alla disciplina dell’artificialità negano il diritto alla propria natura e alla propria imperfezione, all’estrinsecazione e alla rivelazione vera di se stessi, affermando la rappresentazione come unica realtà possibile. Il fenomeno della spettacolarizzazione, del divismo ad ogni costo, porta con sé un’inquieta frustrazione senza voce, che trova spazio nell’incompatibilità irrisolvibile tra l’apparenza e la sostanza, tra l’oggetto di consumo che si finisce col diventare e il soggetto che si è, tra ciò che si potrebbe essere (e si finge d’essere) e ciò che realmente si è.

Si ricorre al fotoritocco tramite Photoshop et similia, o al ritocco effettivo tramite chirurgia plastica, per dare al corpo ciò che il corpo non possiede naturalmente, per piegare la natura all’artificio e camuffare imperfezioni che non sono più lecite né ammissibili, in una violenza che quanto più sembra rendere la vita sopportabile, tanto più la rende invivibile. La consapevolezza di essere imperfetti al di là di ogni possibile perfezionamento e quella di essere imperfetti pur avendo l’obbligo a non esserlo, alimenta un disagio esistenziale profondo, un senso di inadeguatezza rispetto all’altro da sé e rispetto a se stessi che falsa il nostro sguardo su noi stessi rendendolo deluso, umiliato, insoddisfatto.

Ci si trova ovunque: sulle foto dei siti di fotografia, nei messaggi postati su twitter, negli elenchi interattivi delle scuole, tra i propri commenti e sui moduli riguardanti il proprio percorso formativo e professionale; eppure non ci si incontra mai, eppure mai si ha la percezione di essere al cospetto della propria identità quanto dell’interpretazione che noi e gli altri ne facciamo. Incastrati in una condizione di prigionia perpetua, sorvegliati speciali sia dei pochi che dei molti, programmati alla realizzazione del possibile più che del reale, reinventiamo noi stessi nel divismo, nel protagonismo, nella vanità del possesso di qualità presunte che possano destare ammirazione in noi e negli altri e compiacerci. Reinventiamo le nostre facce, le nostre emozioni, i nostri atteggiamenti, le nostre peculiarità e le nostre vite perché ci risultino migliori o almeno lo sembrino, e nel farlo radiamo al suolo – falsandole, sfigurandole – le nostre facce, le nostre emozioni, i nostri atteggiamenti, le nostre peculiarità e le nostre vite. In definitiva, la nostra identità.

Alla luce di un processo mondiale di brutale manipolazione psico-sociologica e biopolitica, per quanto io non sia una sociologa né un’antropologa e di certo non abbia la cultura sufficiente per poterlo ragionevolmente affermare senza dubitarne io stessa, temo che finiremo tutti come Madame Bovary, la celebre protagonista del romanzo omonimo firmato Gustave Flaubert e datato 1857. Tutto quanto Emma commise, dal tradimento al suicidio, fu indotto non tanto dalla sua natura quanto dalla lettura infantile di numerosi romanzi, che crearono in lei la consapevolezza della possibilità di una vita meno imperfetta (romanzata appunto), la tensione ad una vita inimitabile, l’insofferenza ad un’esistenza borghese, reale, piatta. Ogni gesto di Emma trova la sua causa nel tentativo di adeguamento all’ideale che aveva assorbito dalle sue letture e da una profonda coscienza del “possibile” destinata a tiranneggiare9. La stessa funzione di allontanamento dal reale, in Emma svolta dalla letteratura, è oggi svolta dalla dimensione virtuale, dalle pubblicità, dai media tutti che costantemente propongono le eventualità di una vita, di un corpo, di occasioni migliori fino ad instillarle al nostro interno – disciplinandoci ad esse – e indurci ad approcciarci alla realtà come al fallimento di quel modello ideale; fino a creare in noi il dolore di quel fallimento e la tensione al raggiungimento di quel modello spacciato come perfetto e possibile ma in realtà irraggiungibile pragmaticamente e innaturale.

Una schizofrenia sottile, nell’incapacità di distinguere il reale dal fittizio e nella tendenza –indotta dall’inverificabilità e dall’invisibilità del fittizio10 – a diluire il primo nel secondo, sta dilagando nella nostra più totale incoscienza, che ci crede responsabili di una libera scelta in verità obbligata. Quanto più le nuove tecnologie sapranno sprofondare nella nostra dimensione intima e coglierne i meccanismi attraverso la sorveglianza costante, tanto più il mercato, le imprese, le istituzioni acquisiranno il potere di educare, indirizzare e manipolare la condotta umana. Saremo ciò che vorranno pensando di poter scegliere ciò che siamo. Questa è la terribile ombra del futuro che ci spetta, questa è la programmata conseguenza del panoptismo Benthiano, che dopo oltre due secoli ha dimostrato di poter sussistere e creare un vero e proprio “impero interiore”.

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1 Tutte le citazioni riportate di qui alla fine del testo, quando non altrimenti specificato, sono tratte da questo saggio, nell’edizione Michele Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi Tascabili, Torino, 1993.

2 Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Pierrot, Venezia, Marsilio, 1983

3 Memorabile l’affermazione stessa di Bentham “Essere incessantemente sotto gli occhi di un Ispettore significa perdere la capacità di fare il male e finanche il pensiero di volerlo fare” .

4 U. Eco, Introduzione a George Orwell, 1984, Mondadori, Milano, 1984

5Ibid.

6 David Lyon non sostiene che la società contemporanea rispecchi totalmente il modello di Panopticon Benthiano. Nel testo L’occhio elettronico, usa il termine Synopticon per definire la condizione della società contemporanea, negando che potesse trattarsi di Panopticon; ad oggi utilizza il termine Comopticon, che riabilita l’esistenza del modello Benthiano nel mondo contemporaneo integrandolo a quello del Synopticon: “Non ci troviamo di fronte né al vecchio panopticon descritto dal filosofo e ingegnere inglese Jeremy Bentham, né a una sua superfetazione. Nel caso del modello proposto da Bentham eravamo di fronte a un potere esercitato da un oscuro osservatore. Nel panopticon, quindi i pochi osservano i molti. […] Ci troviamo di fronte a una situazione in cui i molti scrutano e controllano i pochi. Un mutamento nelle forme di controllo che ha delle ripercussioni profonde nel tessuto sociale. Quando scrissi quel libro, ho definito, assieme ad altri, questa dinamica di controllo sociale come synopticon.

Ora, [ritengo] […] che la società della sorveglianza prevede diverse modalità di controllo sociale, da quello tradizionale – l’oscuro osservatore che scruta i molti senza essere visto – a quello synopticon – i molti che scrutano i pochi.

7 David Lyon, dall’intervista di Benedetto Vecchi pubblicata sul quotidiano Il manifesto del 15 novembre 2002

8 Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, 2007

9 Si veda, a tal proposito, la teoria sociologica di Herminio Martins su quella che David Lyon definì felicemente “Tirannia del Possibile”.

10 Il sistema è lo stesso del Panopticon: la possibilità che vi sia un’entità invisibile e inverificabile garantisce sia l’imposizione di una disciplina che l’altrui adeguamento ad essa.

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