La ragazza selvaggia – Intervista a Laura Pugno

La fotografia è di Elio Mazzacane.

Lo scorso autunno ho letto La ragazza selvaggia, il romanzo di Laura Pugno pubblicato nel 2016 da Marsilio Editori. Scrittrice di poesia e di narrativa e direttrice dell’Istituto di Cultura Italiana di Madrid, ho avuto il piacere di sentirla parlare a Viterbo qualche anno fa, durante un incontro sul potere femminile, soprattutto in arte e in letteratura. In quell’occasione, Laura ha parlato del suo primo romanzo, Sirene (2007), in cui queste creature a metà tra l’umano e l’animale vengono sfruttate per motivi commerciali. La femminilità che coincide con la natura e la visione distopica dell’ambiente colonizzato dall’uomo tornano anche ne La ragazza selvaggia,  ma in modo (per me) inaspettato.

Prima di tutto, si tratta di un romanzo quasi corale, in cui il narratore sembra fare un passo indietro, mettendosi allo stesso livello di conoscenza dei suoi personaggi, le cui storie si intrecciano per analogia (ma mai coincidenza), rimanendo sempre saldamente legate a un luogo, la riserva naturale di Stellaria. Sullo sfondo, lontana geograficamente e nel tempo, ma con ripercussioni centrali per la storia che viene raccontata, c’è Chernobyl, a cui la natura che si è riappropriata di se stessa di Stellaria fa da contraltare. Da questa emerge, un giorno, Dasha, la ragazza selvaggia, scomparsa anni prima e data ormai per morta.

ragazza-selvaggia-libro2-390x545La prima parola che incontriamo in questo romanzo è anche il nome di uno dei personaggi principali, cioè Tessa, che è biologa, che ha i capelli corti, che dorme in un container, che si prende cura di Dasha, ferita e malata, che si ritrova a tenere i fili delle storie di questo romanzo. È l’ultima abitante di quella zona ed è la nipote dell’ultima strega del paese, zia Sagitta, ormai morta, che aveva operato su Tessa la magia suprema, quella della parola: «Era stata lei a cambiarle il nome in Tessa, dicendo così che il dolore non l’avrebbe più trovata».

Ed è il linguaggio, mi sembra, uno dei nodi di questo romanzo. Se il tema del bambino abbandonato nella natura non è nuovo − sto pensando a Mowgli e a Tarzan, ma anche al caso di Aveyron, in cui il bambino viene ricivilizzato e l’unica cosa che non riesce a padroneggiare bene è il linguaggio (casi di cui si trova traccia, nella letteratura italiana recente, ne L’armata dei sonnambuli dei Wu Ming) o, dall’altra parte, degli esperimenti (più o meno davvero condotti) dei bambini cresciuti in solitudine, perché parlino il linguaggio puro e incontaminato (di cui si parla, per esempio, anche in un libro che ho appena terminato, The New York Trilogy di Paul Auster), qui succede qualcosa di ancora diverso. In un certo senso, Dasha, cioè la ragazza selvaggia del titolo, non prende mai la parola. Non solo perché non è in grado di parlare, ma perché è come se la telecamera non puntasse mai veramente su di lei − e nemmeno su Nina, la sua gemella, che, al momento della storia, è in coma. Entrambe sarebbero le protagoniste della storia, ma ne sono precluse perché davvero chiuse in loro stesse: è loro negata la prerogativa del romanzo − la parola. Non raccontano, non agiscono, ma sono raccontate e agite. E poi c’è Sagitta, la strega, della quale conosciamo un unico incantesimo: tradisce la regola cardine del linguaggio di biblica memoria (Adamo che dà a ogni cosa il suo nome), truccando le carte e mettendo in atto la magia delle parole: cambiando il nome della bambina il dolore non sarà più in grado di trovarla.
Avanti e indietro nella geografia e nel tempo, Laura Pugno ci permette di affacciarci sulla storia − ma senza mai davvero  permetterci di addentrarci in quello che è successo, rimaniamo ai margini come Tessa rimane al limitare di Stellaria.

«Tessa non aveva idea di quale fosse ora la capacità mentale di Dasha, se avesse davvero sofferto di danni cerebrali sin dall’inizio, come avevano detto, o se la vita isolata del bosco avesse prodotto in lei dei cambiamenti. La sua idea era che Dasha non fosse affatto una bambina ritardata che si era smarrita nel bosco, ma di questo non aveva mai parlato con nessuno. Dasha Held aveva dodici anni quando era scomparsa, e Tessa credeva che avesse desiderato esattamente questo, scomparire.» (p. 25)

In certi punti, La ragazza selvaggia  sembra prendere una piega da giallo: sono molti gli enigmi che lo costellano e che si incontrano più si procede nella lettura, e che, secondo la logica dei polizieschi, dovrebbero logicamente concatenarsi e magari svelarsi a vicenda. I misteri di questo libro, però, non vengono mai completamente disciolti, forse anche perché gli indizi non vengono scientificamente trovati e dedotti, ma ricordati. «Ricordò» è probabilmente il verbo che ricorre più spesso: il passato affiora all’improvviso nella mente dei personaggi e condiziona inequivocabilmente tutto il presente del romanzo, eppure sembra quasi impossibile da afferrare − nel senso di conquistare e capire. Abbiamo parlato di questo e dei suoi personaggi con l’autrice.

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Non solo i personaggi, ma anche noi lettori siamo tenuti a distanza dallo svelamento completo del passato. Quello emerge deve per forza sprofondare di nuovo, proprio come la casa della zia Sagitta? L’unica cosa che possiamo fare, con questo passato che non possediamo mai completamente, è evocarlo?
Da qualche anno mi interrogo, spesso, sulla memoria, e sul dato − ormai largamente scientifico − che i nostri ricordi sono sempre, inevitabilmente, delle ricostruzioni. Non solo vengono riscritti continuamente e cambiano di segno nel corso della vita, cosa di cui tutti siamo più o meno consapevoli e che finiamo con l’accettare, ma sono in realtà, in gran parte, una costruzione dell’immaginario.
In questo senso il passato, e con lui la nostra identità, è caratterizzato da un’intermittenza, o da un bagliore di stella, che apre anche la possibilità di diventare, di tanto in tanto, qualcun altro, al di fuori o all’interno di quello che chiamiamo il nostro io. Accade così all’io quello che con la quantistica è già accaduto al mondo. Evochiamo quindi il passato e noi stessi, ma allo stesso tempo, lo reinventiamo. Diventiamo altri, e la nostra storia con noi. Anche La ragazza selvaggia ha, fino alla fine − nell’ambiguità di un finale aperto − la possibilità di diventare una storia diversa da quella che è.
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A dispetto del titolo, che è singolare, questo romanzo è in realtà pieno di donne selvagge. Dasha lo è nel modo più totale, Tessa in buona parte, con la sua decisione di vivere nel container a Stellaria, rimanendo isolata, e di portare i capelli cortissimi, così come la zia Sagitta, con il suo ruolo di strega locale legata alla natura. Anche le altre figure femminili lo sono, nel loro sfuggire alle regole e ai ruoli sociali, in particolare quello materno e familiare: Sandra, Agnese, la madre di Alice con la sua malattia mentale, la madre statunitense di Cecilia… Oppure Dasha rimane l’unica autentica, perché non ha nemmeno la parola?
Mi fa piacere che questo aspetto venga notato. Se Dasha è in un certo senso la ragazza selvaggia “ufficiale” del romanzo, tutti gli altri personaggi femminili − ma non perdiamo di vista quelli maschili, per esempio Giorgio Held − possono fregiarsi di questo titolo, rispetto alle varie forme del selvaggio e del selvatico.
In una società costruita sulla dualità, e una dualità asimmetrica, nessuno dei due termini di un’opposizione o una dicotomia è neutro, lo sappiamo. Esiste la possibilità di ritornare ad uno stato di unità, di integrità? (Certo non può essere il lavoro di un solo individuo, piuttosto è il lavoro del mondo, ma anche ogni individuo, ogni personaggio, ognuno di noi deve rispondere, per sé e la sua vita, a questa domanda.) Per Dasha, no, o forse il suo cammino è già compiuto, nelle forme in cui la sua integrità è possibile, forse da sempre. Per Dasha (e per Nicola), me lo auguro.
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laura-pugno-intervista-124205_LCi sono molte coppie in questo romanzo: la più ovvia è quella formata da Nina/Dasha, ma si profilano presto anche la contrapposizione Stellaria/Stellanova e quella Tessa/Nicola. Non si tratta però, mi sembra, di un’opposizione bene/male come troviamo di solito in letteratura: sono piuttosto forze doppie che arrivano quasi ad annullarsi. Non si esce vivi (o almeno interi) dal confronto con l’altro?
Io la vedo diversamente, il rapporto con l’altro può distruggere ma anche guarire. Nina abbandona Dasha, ma forse (alla fine della storia? E in modo misterioso) la salva. Tessa e Nicola entrano a fare parte del racconto l’uno dell’altra, nella possibilità che l’uno e l’altra hanno di immaginare se stessi e gli altri.
Non è un caso che la parte centrale del romanzo, che narra l’origine della ragazza selvaggia e la storia della famiglia Held, sia racchiusa, come la perla in un’ostrica, in un lungo racconto che Nicola − personaggio fino ad allora schivo, fuggitivo, quasi ostile − fa a Tessa, nel momento in cui, attraversata la pioggia, approdano a una sorta di rifugio, la casa di Cecilia. A partire da quel racconto Nicola cambia, e anche Tessa, a poco a poco, e cambia in direzione dell’interezza, dell’integrità − anche se questa resta forse un asintoto.
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Ci è sembrato che ciò che conduce davvero il romanzo sia l’impossibilità della normalità, anche quando Dasha è finalmente ritrovata. È per dare spazio a questa sensazione che si tratta di una storia di confini, oppure sono i confini minacciosi o minacciati che ce lo fanno percepire?
Che cosa è normale, che cosa, quindi, non lo è −e quindi è selvaggio, o selvatico, fuori del contesto umano?. Nel Settecento sarebbe stato possibile immaginare, scrivere, la storia di un ritorno dalla natura. È la vicenda di Victor de l’Aveyron, di cui apprendiamo dai diari di Jean Itard, il medico che lo ebbe in cura e che cercò di insegnargli a parlare, senza riuscirvi. Adesso sappiamo che non si può ritornare, dalla natura, e anche che non si può tornare alla natura. (Ammesso che si tratti di un ritorno). La storia di Dasha termina col suo rientrare nell’unica normalità che per lei è ancora possibile, e che non cessa per questo di essere spietata. Quello con cui finisce, invece, è un gesto di pietà.

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