La solitudine nella letteratura

Morire, dormire. Dormire, per ventura sognare. Anche all’uomo che dorme di Georges Perec, scrollatosi di dosso la spirale mortale per morire in vita, non è concesso il lusso di sognare. Diserta gli impegni e lascia suonare la sveglia, restando a casa. Gli altri si domandano che fine abbia fatto, nei giorni a venire, e lo vengono a cercare ma lui finge di non esserci. Quella specie di romanzo che è il libro di Perec è un tentativo di esaurimento del concetto di solitudine. E di sogni non si parla, quanto meno di quelli consueti e antropomorfi, ma soltanto immagini ipnagogiche, tra la veglia e il sonno, riempiono le pagine, composte di lunghe e accurate descrizioni della fase rem. Questo perché si è sbarazzato degli altri, della compagnia. Non sogna dunque nell’accezione che la parola ha in riferimento al futuro, alle speranze e alle ambizioni che si hanno in società. Non ha più aspettative e fa di tutto per assomigliare a una cosa, un animale o un albero. Perciò non gli basta porre fine alle relazioni con gli esseri umani: «Non puoi vivere di fronte a un cane, perché il cane, in ogni momento, ti chiederà di farlo vivere […]. L’albero invece non ti chiede niente […]. Potrai solo a tua volta voler essere albero». Ecco perché gli resta solamente un surrogato, macabro, del sogno: «Talvolta, sogni che il sonno è una morte che si impadronisce di te lentamente».

Tutto al contrario si può essere condannati a restare svegli per una insanabile insonnia. E anche questo è un modo che ci aliena dagli altri e dal mondo, incatenandoci alla nostra solitudine. Dice Cioran: «Dopo una notte insonne i passanti hanno l’aria di automi. Pare che nessuno respiri, o cammini. Sembrano tutti mossi da una molla: niente di spontaneo, sorrisi meccanici, gesticolazioni da spettri. Spettro tu stesso come potresti negli altri vedere dei vivi?». Restar senza sonno per le angosce, le paure e gli impegni che incombono, per troppa attività cerebrale ma anche perché si è troppo stanchi. Curiosamente, Peter Handke in un libro a metà tra il saggio e il racconto, Saggio sulla stanchezza, propone questa condizione come foriera di una profonda comunione con gli altri. Perché non si è più coinvolti nell’ansia di primeggiare, nella competizione e nell’affermazione di sé; convincere, imporsi, far valere la propria opinione sono attività oziose alla lunga. E allora si può solo mettere da parte le diverse volontà, che sono destinate a scontrarsi: «La mia stanchezza là pareva collaborare al momento di pace […] disarmando ogni volta già sul nascere con lo sguardo i gesti di violenza, di rissa o anche soltanto di scortesia». Qui però c’è il rovescio della medaglia: la stanchezza, d’accordo, allontanandoci da una parte ci accosta al mondo secondariamente, ma quando non siamo desti per accorgercene e la realtà sfugge, su di noi non lascia segni. O forse soltanto, banalmente, perché attorno a noi vige una frenesia costante: «Sebbene me ne andassi in una stanchezza desta, senza sonnolenza, senza stare rinchiuso in me stesso, mi sentivo escluso dalla società e questo era un momento tremendo; io solo procedevo nella direzione opposta a tutti gli altri, verso uno stato di smarrimento».

Ma, per tornare al libro di Perec, che vuole esaurire la solitudine nei suoi aspetti, quello lirico è forse il principale, ma spesso è sorprendentemente comico. «A volte somigli a una mucca. Gli occhi globulosi non manifestano nessun interesse per quello che incontrano. […] Quel riflesso bovino nello specchio […] sembra che non abbia nessuna simpatia nei tuoi confronti». Un piccolo particolare che non emerge in traduzione: tu mesures calmement l’étendue de ton malheur (misuri con calma l’estensione della tua infelicità) spiega Perec in un’intervista: «In collegio faire un malheur designava il risultato dei nostri maneggi notturni». Ugo Cornia in uno splendido racconto parla delle fantasticazioni prima del sonno che, dice, sono generalmente di ordine erotico. Ma una volta gli è saltata in mente l’idea di avere in casa un «cubo d’oro massiccio di un metro esatto di lato» e di calcolare rapidamente che l’oro pesa molto più dell’acqua e che se un grammo d’oro vale ventimila lire, sono venti milioni al chilo e quindi… una ricchezza spropositata. Ma più che altro gli viene in mente che è stupido pensare a un cubo d’oro al secondo piano di una casa, dove abita, perché «c’è il rischio abbastanza serio che il pavimento si sfondi» e quindi ha molto più senso che un cubo d’oro si trovi al piano terra, e gli dispiace di dover pensare al suo cubo in garage perché avere un cubo d’oro come oggetto d’arredamento era una bella idea.

Dunque, la solitudine può essere anche comica. «Se mi vedono sono un mostro delle solitudini» dice Beckett e anche in questa frase c’è del ridicolo, un’autoironia cruda per la propria condizione. Questo abbastanza naturalmente ci porta a Kafka, che più di tutti ci soccorre sull’argomento. Ogni pagina della raccolta di racconti Contemplazioni ci dice qualcosa sulla solitudine e c’è, potenzialmente, un arsenale di citazioni da fare. Cerco di limitarle il più possibile: «Se qualcuno dalla finestra mi chiedeva qualcosa, io lo guardavo come se contemplassi le montagne»; «non ho fatto niente di male a nessuno, nessuno mi ha fatto niente di male, ma nessuno vuole aiutarmi. […] Come si accalcano questi nessuno […]. Tutti sono in frac, si capisce. Ce ne andiamo così in giro». Nell’ultimo racconto della raccolta, Infelicità, il protagonista grida nella sua stanza, così, tanto per sentire una voce. Immagina poi di esser visitato dal fantasma di un bambino con cui litiga. Poi esce di casa e sulle scale incontra un inquilino con cui si intrattiene in una discussione accurata sui fantasmi e la loro natura (direi che l’inquilino è un altro fantasma). Infine, risale in casa e va a dormire. Si ride con amarezza, che è esattamente ciò che avviene con La metamorfosi.

Come continuare? È possibile una conclusione risolutrice? Io non ne sono capace, in fondo concedere l’ultima parola a Cioran non mi sembra così male: «Sopprimevo dal mio vocabolario una parola dopo l’altra. Finito il massacro, una sola superstite: solitudine. Mi risvegliai appagato».


L’immagine di copertina è stata presa da questo sito

Le parti degli autori citati sono prese da L’inconveniente di essere natiOperette ipoteticheComment c’est.

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