Le Creature di Lygia Clark e i corpi che a volte non si toccano

L’arte della brasiliana Lygia Clark compie una parabola alquanto strana: nasce nelle fila del Costruttivismo sudamericano e arriva, alla fine della sua carriera, a confondersi con la psicoanalisi e a trasformarsi in art-therapy.     In mezzo a questi due esiti apparentemente lontanissimi, ci sono le Creature e i corpi che si toccano.

Lavorando ancora nell’ambito di un’arte che indagava le forme geometriche (nato in Russia, il Costruttivismo aveva senza dubbio subito il fascino del contemporaneo Suprematismo), Lygia Clark è particolarmente interessata ad esplorare la linea come limite − fino a scoprire il limite della linea: nelle serie degli Spazi Modulati (come questo, questoquestoquesto) la tela comincia ad abbandonare il ruolo canonico di supporto, la cornice viene dipinta come lo sfondo, il tratto che indica la separazione può essere inciso e non solo tracciato.

w_Lygia_Clark_copy_n500_1768Le Creature (Bichos) nascono così: quando LygiaClark comincia a intuire che la linea che vuole arrivare a trovare, in arte, e che nel periodo costruttivista era fondante, non è quella disegnata e bidimensionale che definisce i contorni e separa le figure, ma una linea «reale», di giuntura, che connette le cose, come quella «tra le piastrelle del pavimento, tra la porta e il muro»,  anche un cardine, quindi, che permette il movimento. Questa Scoperta della linea organica (1954) è ciò che dà vita alle prime opere tridimensionali: le Creature.

alcuni Bichos

alcuni Bichos

È l’avvento del Neoconcretismo: l’arte non è (più) un oggetto industriale costruibile e replicabile, c’è qualcosa che dalla geometria nasce ma che necessariamente la trascende e che deve essere scoperta − avvicinandosi, toccando, chiedendo, spostando. I Bichos sono sculture mobili in potenza: rimangono inermi e docili, quasi inspiegabili, fino a quando la mano del pubblico non dà inizio a qualcosa muovendone le parti − connesse tra loro tramite alcune «“allacciature” [che] mi ricordavano una spina dorsale». È con questo tipo di lavoro che comincia la riflessione della Clark sull’atto artistico e non solo sulla produzione dell’oggetto d’arte, sull’interazione e, ancora in nuce, sulla potenza performativa come momento−che−conta: non è lo spettatore a essere l’opera d’arte e non lo è nemmeno il risultato (ovvero il fatto che la scultura ora abbia un aspetto diverso): è invece «questo movimento, associato alla risposta della Creatura, [che] crea una nuova relazione − che è la vita della Creatura stessa».

bicho2222

È con Il dentro è il fuori (1963) che approda a una nuova dimensione del modificabile: la superficie dell’opera è elastica e completamente deformabile, è già un’evoluzione dei Bichos: quest’oggetto non si regge da solo, non ruota sui cardini: ha invece un buco, comprende un vuoto, ed è anche questo che gli permette di mutare di continuo. Se le Creature si reggevano da sole e occupavano lo spazio, ora «è la precarietà a darmi l’esperienza dell’assoluto, inteso come un vuoto pienissimo − dove tutto sta per accadere».

Arrivata a questo punto della propria ricerca artistica, la Clark sviluppa, praticamente in parallelo, due filoni: uno discende dalle Creature come oggetti e la impegna in una produzione di sculture o installazioni fatte con materiali morbidi, come stoffe o gomma;  l’altro, invece, sviluppa la possibilità e l’inatteso con la performance.
Camminando  (1963), di nuovo, non è che una potenzialità e un’esplorazione: cercare di tagliare un foglio senza mai allontanarsi dalla dimensione “foglio” provando ad applicare il nastro di Moebius, perché «rompe le nostre abitudini spaziali: destra−sinistra, fronte−retro. Ti forza a usare un tempo infinito e uno spazio continuo» in cui rimane una sola unità di misura: l’azione.

The artwork is your act itself.
Lygia Clark

Lentamente, l’indagine che conduce con la performance si sposta sulla percezione. Gli oggetti rimangono comunque fondamentali, nei lavori della Clark: sono intermediari che non rendono l’esperienza difficile ma semplicemente diversa − per questo straniante, anche. Non posso davvero afferrarti, eppure ti sono così vicino (Dialogo delle mani, 1966, foto a sinistra). Non è come vedo di solito (Dialogo degli occhi, 1968, foto al centro). Non ti ho mai toccato così (L’io e il tu, 1967 − le tute di plastica hanno ognuna sei tasche nascoste, che permettono alle mani di entrare − a patto di trovarle, a patto di esplorare tutto il corpo dell’altro).

mnjk

L’opera di Lygia Clark, quindi, non è stata altro che un continuo tentativo di ridefinire la relazione − con l’arte in quanto oggetto da galleria e come rapporto con il pubblico, con i sensi come metodo infallibile per conoscere e indagare la realtà. Se indosso dei guanti di pelle il mondo è per me uguale a quando indosso dei guanti di lana? E qual è la mia relazione con l’altro nella performance se non lo posso toccare, non lo posso guardare, non lo posso stringere?

Quella della Clark rimane un’arte vitale perché ha spinto fino ad arrivare (o a tornare?) all’organico, perché è fatta di persone che si muovono, legandosiesplorando, perché palpita e si muove con il respiro. La linea−giuntura è ora un filo che non s’interrompe, che è infinitamente elastico perché ora comporta anche dell’energia − quella di esplorare e accogliere l’imprevedibile.

Le citazioni tra virgolette sono estratte e tradotte dal sito ufficiale che cura le opere e gli archivi dell’artista Lygia Clark, a cui appartengono tutti i diritti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.