Il coraggio di affrontare l’ignoto: Leonor Fini

“Oh cara Leonor mio bel gufo incantato, dove ti posi l’aria diventa un nido d’oro”
(Elsa Morante, 1953)

L’Italienne de Paris, la Greta Garbo dell’arte, la “Divina” del surrealismo, Lolò, la donna gatto, Leonor Fini (Buenos Aires, 30 agosto 1907 – Parigi, 18 gennaio 1996) fu una delle migliori artiste a tutto tondo ma anche emblema delle lacerazioni e delle inquietudine che hanno caratterizzato il 900. Talento e tecnica non le mancavano, né in arte figurativa che in teatro. A soli 17 anni debutta come pittrice alla mostra II Esposizione del Sindacato fascista di belle arti a Trieste con tutta la sue preponderante e vivace personalità artistica. Divenne persino coinquilina di Salvador Dalì durante la seconda guerra mondiale. I suoi quadri mostrano scene spesso inspiegabili, enigmatiche, stupefacenti: le donne-gatto, donne-uccello e donne-fiore sono diffuse, personali visioni del tema La Belle Dame sans Merci. La loro stranezza appartiene esclusivamente all’artista per la coniugazione di elementi disparati, razionalmente inconciliabili, scelti proprio in funzione del loro grado di contraddizione: madre/mostro, terra/inferno, vita/morte.

Leonor-Fini-1913Nata a Buenos Aires da madre italiana e padre argentino, giunge a Trieste quando ha un anno perché la madre ha deciso di fuggire dal padre, un uomo infido, bigotto e dispotico. Leonor cresce con la famiglia materna che appartiene alla borghesia intellettuale di origine ebraica. Un’infanzia solitaria in un ambiente di soli adulti e caratterizzata da camuffamenti – doveva infatti girare per strada vestita da bambino per sfuggire alle grinfie del padre che aveva tentato più volte di rapirla – stimola la sua creatività con una scatola di colori e con una “compagnia teatrale” fatta di giocattoli. Si racconta anche da dodicenne trascorreva ore all’obitorio di Trieste, incuriosita dai morti “sontuosamente vestiti”.

«Lei, da italiana…»

«Non sono italiana, sono di Trieste»

(dirà durante un’intervista “con una scintilla d’ira negli occhi “)

Comincia la sua avventura di pittrice appena adolescente, dipingendo con uno stile naturalistico-descrittivo. È Milano che le offre delle vere opportunità, ma Parigi le apre definitivamente le porte nel 1931 e avviene una svolta inconfondibile di stampo surrealista nella sua cifra stilistica. Non vuole piegarsi però a dogmi o scuole stilistiche, rimarrà sempre autonoma nel suo simbolismo a volte oscuro a volte indagatore del suo subconscio: ricorrenti i temi come le sfingi, le maschere, esseri e oggetti simbolo del suo realismo magico.

"Autoritratto con scorpione" (1938)

“Autoritratto con scorpione” (1938)

"La pastorella delle sfingi" (1941)

“La pastorella delle sfingi” (1941)

Nella sua vita da artista si dedicò anche alle arti arti applicate creando costumi teatrali e per il cinema, ad esempio suoi i costumi del film di Castellani “Romeo e Giulietta” e per la messa in scena teatrale di “Les Demoiselles de la nuit” con un giovanissimo Roland Petito oppure alla creazione del flacone che ideò per un profumo creato da Elsa Schiapparelli. Si prestò anche come soggetto per artisti in cerca di affermazione (come anche a grandi maestri: Man Ray, Henri Cartier Bresson, Cecil Beaton, Arturo Ghergo, André Ostier), allo stesso tempo firmò ritratti memorabili: Jean Genet, Anna Magnani, Jacques Audiberti ed Alida Valli.

Gli anni Quaranta segnano una parentesi romana nella dolce vita. Qui frequentò Moravia, Fellini, Mario Praz, Elsa Morante, con cui intrecciò una sincera amicizia e stima reciproca insieme alla passione per i gatti. Anni in cui la sua fede surrealista segna audaci traguardi con sfingi, misteri naturali, trionfo della bellezza e dell’energia femminile come in “La pastorella delle sfingi” (1941) appartenente alla Collezione Guggenheim di Venezia. Il periodo del secondo conflitto mondiale è considerato uno dei periodi più straordinari della produzione dell’artista. Arriva ad affrontare temi nuovi e complessi con molti spunti autobiografici e un linguaggio sempre più personale. Si interroga anche su temi universali, sul rapporto tra la vita e la morte come sulle metamorfosi della natura, seguendo un flusso di pensieri che affiorano dal suo passato.

L'artista mentre dipinge "Autoritratto con Kot e Sergio" (1955)

L’artista mentre dipinge “Autoritratto con Kot e Sergio” (1955)

Nel 1963 Leonor disegna per l'amico regista Fellini i costumi di una scena di "Otto e mezzo" senza però comparire nei crediti del film.

Nel 1963 Leonor disegna per l’amico regista Fellini i costumi di una scena di “Otto e mezzo” senza però comparire nei crediti del film.

Dal secondo dopoguerra in poi, rientrata a Parigi, la sua pittura, ambigua e misteriosa, si esibisce su più fronti, tra pittura, illustrazione, scenografie e costumi teatrali per Balanchine, Camus, Genet e Giorgio Strehler.

«C’è stato quel periodo chiamato dagli altri “periodo minerale”, dove io ho voluto cercare  di muovere, rovesciare, tormentare questa materia ordinata. Fu una tentazione dettata dal “tachisme” (stile pittorico di arte astratta iniziato in Francia negli anni quaranta)? Io non credo, perché ero già quasi passata di là, gettando sulla carta o la tela posta per terra della pittura liquida e camminandoci sopra. Questi graffi striature guizzi, a me non sembravano “minerali”, ma quasi le impronte nascoste del periodo precedente»

le-bout-du-monde-1949Di surrealismo non esiste solo un punto di vista, ma molteplici, proprio come ognuno di noi produce sogni differenti gli uni dagli altri.

«(…) vedevo più la mia differenza che l’eventuale affinità con la tendenza surrealista. Essi erano avidi di nuovi giovani per farne dei “devoti”. Anche se i surrealisti hanno aperto e abbattuto delle porte, adolescente, io avevo abbattuto le stesse porte e altre ancora. Essi amavano fare dei “processi”, comunicare, condannare, stilare delle liste di libri che non bisognava leggere, erigere tribunali»

"La guardiana delle fonti" (1967)

“La guardiana delle fonti” (1967)

Gli anni Settanta riportano luce e colore sulla tela, forse influenzata dalla Pop Art.

"Le carrefour d'Hécate"(1977/78)

“Le carrefour d’Hécate”(1977/78)

Nell’impossibilità di giungere all’autentico, la costruzione di una maschera (di una sfinge, di un gatto, di un gufo…) si rende necessaria e dona libertà. L’artista si mostra per mostrarsi e non per fingere di non mostrarsi. Non si nega, non si nasconde dietro la patina dell’umile ipocrisia, non scompare in quell’inclinazione narcisistica. L’eccesso è estremo, fastidioso e accentratore, ma così vertiginosamente corroborante.

"Dimanche apres-midi" (1980)

“Dimanche apres-midi” (1980)

 

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