L’invenzione della madre – Il dolore in tutte le sue sfumature

Vi sarà di certo capitato, camminando, di imbattervi in una curiosa copertina azzurro chiaro esposta in una delle tante librerie della città o di sentire alla radio o in televisione quale sia il romanzo che ha scalato le classifiche e che già la scorsa settimana è arrivato alla quarta ristampa, sebbene sia stato pubblicato a febbraio 2015. Si parla de L’invenzione della madre scritto da Marco Peano e edito dalla casa editrice Minimum Fax. È il primo romanzo dell’autore ed è stato definito da Marcello Fois «un’opera prima tanto matura e vitale».

Marco Peano è nato a Torino nel 1979 e si occupa di narrativa italiana per la casa editrice Einaudi. Il 10 marzo 2015 ha presentato il suo romanzo alle Librerie Coop Ambasciatori di Bologna con Marcello Fois e Andrea Tarabbia. Durante la presentazione del libro, Peano riferisce agli uditori in sala che la stesura del romanzo è durata parecchi anni: è difficile, infatti, scrivere se il tuo lavoro ti mette in contatto con svariati manoscritti. Ma è anche difficile scrivere una storia del genere se in qualche modo ti riguarda: lo scrittore – durante l’intervista – ha affermato di essere orfano di madre proprio come Mattia, il protagonista del suo romanzo.11139692_10206230299614607_2067111992_n

L’invenzione della madre è stato dunque difficile da scrivere, ma è anche difficile da leggere per quello che infonde ad ogni pagina. Quando si finisce di leggere un libro – un libro ben scritto e capace di rilasciare emozioni forti – sentiamo che qualcosa in noi cambia e matura. Così può essere definito L’invenzione della madre: un romanzo che incarna il dolore e che lo rende vivo, quasi come se il lettore potesse percepire ogni dettagliata sensazione descritta, come se fosse il protagonista.

Il nucleo centrale è: come può un figlio accettare la morte di un genitore?
“Un figlio che muore, per un genitore è come un film che hai visto dall’inizio e del quale sei certo di sapere tutto. Un genitore che muore, per un figlio è come un film che hai visto da metà e del quale sei certo di ignorare molto.”

Il libro è diviso in tre parti: Mattia (l’anno prima), Mentre (alcune notti di gennaio), Madre (l’anno dopo). Una madre – quella di Mattia – torna a casa per morire. È affetta, come un’alta percentuale di popolazione, da un cancro che si è generato più volte fino a raggiungere la metastasi. Il padre e Mattia hanno creato un luogo in cui la madre potrà stare, una dépendance che verrà chiamata di là come se fosse un luogo che accoglie e racchiude il dolore. Il luogo in cui la madre di Mattia esalerà l’ultimo respiro un 21 gennaio 2005. Nella prima parte del libro assistiamo – come spettatori di un film al cinema (e la passione per il cinema di Mattia si delineerà in tutto il libro) – al disfacimento del corpo della madre e, al tempo stesso, alla rabbia e all’impotenza che un figlio prova quando sa che la morte ha bussato troppo presto alle porte di casa sua.

“Mattia si accorge senza sorprendersi che sua madre è diventata una lumaca. Una chiocciola, per essere più precisi, di quelle col guscio a spirale. Il corpo che la contiene sembra ogni giorno di più un guscio bellissimo che tende al vuoto: dentro di lei ci sono tunnel profondi in cui gli organi interni e il sangue e le ossa si consumano – un incendio segreto sta divampando in quella carne, un incendio doloso come quello di chi brucia alberi per ricavare terreno coltivabile”.

Mattia sa che non c’è tempo per sperare che la madre guarisca, del poco tempo a disposizione bisogna farne tesoro in modo tale da non sprecarne nemmeno un minuto, ma non è facile perché lasciarsi trasportare dall’immaginazione può, talvolta, prendere il sopravvento. La speranza che la madre possa continuare a vivere impregna la prima parte del romanzo perché toccare il fondo è semplice solo a parole, mai reale.11075056_10206230304414727_442712412_n

“Ogni giorno, col pensiero, Mattia inventa per sua madre nuove vite: lui che da lei è nato, lui che da lei è stato inventato, la fa costantemente rinascere perché possa continuare a esistere, almeno nell’invenzione. Perché sa bene che quando anche il padre non ci sarà più. E quando Mattia stesso non ci sarà più, nessuno potrà ricordare ciò che lei è stata”.

Dopo la morte della madre a Mattia toccherà fare i conti con l’organizzazione e l’elaborazione del lutto. Non soltanto a livello personale e privato, ma anche sociale: dovrà avvertire i familiari e gli amici che la madre è morta, dovrà scegliere con il padre la bara, i fiori, i biglietti di ringraziamento e tenterà di continuare ad avere un legame – quasi ossessivo – che si riscontra, per esempio, nella scena in cui decide quali oggetti inserire nella bara per non separarsi mai dalla madre. La domanda che lo tormenta è: come la ricorderanno gli altri? Riusciranno a ricordarla come la ricorda lui?

“Ma se la memoria è fatta di cataloghi e di elenchi, Mattia vorrebbe ricordare a tutti – e forse per primo a se stesso – che sua madre è stata anche altro, qualcosa in più e qualcosa in meno di quella signora gentile che lavorava all’ufficio postale ricordata dal prete. […] Era una persona, non un personaggio.”

E soprattutto lui riuscirà a ricordarla?

“Si domanda se riuscirà a ricordarsela tutta intera, a rievocare i suoi lineamenti precisi (qualcosa che va oltre la fotografia, qualcosa dove dietro c’è il sangue), l’intonazione e della voce (qualcosa che va oltre la voce registrata ,qualcosa dove intorno c’è l’aria), il colore dei capelli, il modo di socchiudere gli occhi, la morbidezza della pelle. Il profumo. Tutte cose che hanno bisogno di un mondo tridimensionale per accadere davvero, non di un supporto che simula la vita.”

Dopo la conclusione del funerale, quando tutti saranno tornati a casa, Mattia rimarrà solo nella sua stanza: la solitudine gli permetterà di creare un contatto con la madre, un’invenzione che non gliela faccia dimenticare. Dovrà accettare non soltanto la fine della malattia, quindi la morte, ma anche la sua condizione di orfano.

“Orfano è una parola che stringe nelle spire delle o in apertura e in chiusura di chi la indossa: due catene circolari che ammanettano a un infinito presente. Eppure è così facile da pronunciare, un suono che ricorda le fusa dei gatti, un soffio morbido che arriva da dentro e getta fuori l’aria: orfano”.

Durante la sua elaborazione del lutto, Mattia sarà messo di fronte a scelte e a situazioni difficili come una storia d’amore ormai in via d’estinzione e la chiusura della videoteca in cui lavora che lo porterà a dovere finalmente voltare pagina per decidere cosa fare del proprio futuro, senza mai dimenticare colei che gli ha dato la vita.

“Non c’è altro da fare se non provare quel che c’è da provare, e lo spazio per i sogni, per il dolore e per le lacrime – tutte queste cose arriveranno”.

L’invenzione della madre è una storia d’amore e di morte, un romanzo in cui Eros e Thanatos si abbracciano visceralmente, senza staccarsi mai. Scrive Erich Fromm in Psicoanalisi della società contemporanea che «il rapporto tra madre e figlio è paradossale e, per un senso, tragico. Richiede il più intenso amore da parte della madre, e tuttavia questo stesso amore deve aiutare il figlio a staccarsi dalla madre e a diventare indipendente». Ma è davvero possibile riuscire a staccarsi da colei che ti dona la vita? È così facile come tagliare il cordone ombelicale?

Peano riesce a calibrare la tensione senza scadere nel banale e nella troppa immaginazione. Sono sensazioni che possono essere (state) provate davvero, sebbene la storia sia inventata, se ne può apprezzare l’autenticità. L’universo di Mattia ruota intorno alle parole grazie alle quali è possibile percepire quel preciso momento di dolore perfetto: “Il figlio immagina le frasi da lui pronunciate riempirle il corpo. Toccarsi fra di loro, urtarsi – le lettere che s’agganciano, che formano organi di sintassi, intestini grammaticali. Le parole si infrangono e ricombinano come solo le onde. Mescolandosi, danno origine a termini nuovi. Una seconda circolazione sanguigna che percorre il corpo della madre e lo rigenera”. Come se le parole potessero far rinascere all’interno della madre nuove cellule, sane.

Ma questo non avviene ed è così che il processo di elaborazione comincia: attraverso ricordi di episodi passati fino a quando Mattia si rende conto che la realtà non sta nelle immagini, come ha sempre creduto, ma nelle parole, anzi, in una lettera: “Ma emme – e Mattia non ci aveva mai pensato prima, davvero buffo notarlo ora – è anche la prima lettera dell’ultima fra le cose. E all’improvviso, quel tempo immobile sembra finalmente acquistare un significato. Perché disponendo le tre parole in ordine alfabetico – mettendo le cose in fila si annulla il caos – si sente protetto, perfettamente a suo agio in mezzo a madre e morte”.

Alla fine del romanzo potremo dire che sono due i veri protagonisti del romanzo: Mattia e la madre. Il resto rimane sullo sfondo, come in un quadro. L’unica arma per combattere la morte è l’alfabeto, è il dialogo o meglio un soliloquio, un monologo: “Perché sua madre è lì con lui, è viva, e se loro possono parlarsi una salvezza è ancora possibile”.

L’invenzione della madre non è un libro che può essere letto velocemente e non perché sia noioso o illeggibile. L’invenzione della madre è un romanzo che deve essere letto lentamente perché permette di toccare (con gli occhi) il dolore in tutte le sue fasi, passando dalla negazione all’accettazione. Un romanzo che aiuta a conservare un’immagine – in questo caso, quella della madre – e a scampare dalla morte morale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.