Lo strano passo della storia. Conservazione, sintesi e progresso nella Gloriosa Rivoluzione

L’Inghilterra è per vasta storiografia la patria della democrazia moderna, la fucina degli attuali assetti istituzionali e del nostro modo di concepire il rapporto tra Stato e individuo. I grandi traguardi che, pionieristicamente, l’Inghilterra ha raggiunto nelle molteplici declinazioni della società sono sempre stati un faro, un punto di riferimento per gli altri Paesi; anche perché, quei traguardi, hanno sempre fruttato agli Inglesi un concreto primato negli scenari internazionali. Antropologicamente pragmatici ed avversi a qualsiasi sconvolgimento, gli Inglesi hanno sempre saputo assorbire qualsiasi spinta innovativa ed eversiva, tramutandola, nell’incontro con l’attaccamento conservativo alle proprie tradizioni, in fruttuoso e moderato progressismo. Vi sono molte prove di questa peculiarità nella storia del Regno Unito, ma sostengo che la Gloriosa Rivoluzione del 1688 sia la più esemplificativa e la più generosa di frutti che, maturando, hanno poi strutturato la società moderna e permesso il progresso civile, aprendo la strada ai nostri giorni. Ancor più interessante sarà condurre questa lettura in un confronto con la Rivoluzione Francese, anche attraverso l’analisi di Cristina Catanese, pubblicata qui su Tropismi per la sezione con(di)vergenze.

George Macaulay Trevelyan, nel suo celebre Storia d’Inghilterra, ha sostenuto che il mare, con tutte le attività ad esso legate, abbia avuto un ruolo centrale nella strutturazione della storia e cultura britanniche e, in definitiva, dell’identità del popolo inglese. La storia della Gran Bretagna, dunque, come storia di continua stratificazione e commistione di istanze culturali profondamente distanti. Storia di apertura, sì, ma anche di chiusura, come una trappola per pesci nella quale sia molto facile e appetibile entrare ma impossibile uscirne. Una volta approdati all’isola, le diverse conoscenze e i diversi spiriti entravano in contatto e instauravano, per forza di cose, una serrata dialettica. Dialettica estremamente fruttuosa e fortunata che, per dirla con Hegel, ad un momento negativo, di scontro, ha sempre fatto seguire il trionfo della sintesi: disposizione alle innovazioni, forte difesa di vecchi traguardi e antiche identità. Non tutte le regioni geografiche e le rispettive popolazioni sono riuscite in questo percorso virtuoso, nessuna con l’efficacia che ha contraddistinto i Britannici e le loro isole. La prima grande e più evidente conseguenza “caratteriale” è stata, di certo, il loro celebre pragmatismo e la tendenza a rifuggire la rigidità dell’ideologia. Questo atteggiamento fu fondamentale nelle dinamiche sviluppatisi nel corso del secolo XVII, specialmente nella Gloriosa Rivoluzione.

The execution of Charler I, dipinto anonimo dell'epoca.

The execution of Charles I, dipinto anonimo dell’epoca.

La maggior parte degli storici è concorde nel dichiarare l’inscindibilità della Gloriosa Rivoluzione del 1688 dai fatti della seconda metà del XVII secolo in Inghilterra, e dunque dal manifestarsi dei primi malcontenti nei confronti di Carlo I. Pareri e riflessioni circa la Gloriosa Rivoluzione sono stati altalenanti, nel corso della storia successiva. Nel suo nascere e nello svolgersi fu sicuramente atipica, tanto da poter discutere ampliamente circa la coerenza d’uso della parola “rivoluzione”. Evidentemente, la valutazione della Glorious Revolution fu molto diversa al di qua e al di là della Manica. Dell’esperienza del 1688 i Britannici hanno conservato una memoria alta e nobile e fino ad Ottocento inoltrato la valutazione di essa fu tanto incondizionatamente positiva da poter apparire acritica, anche perché “in Inghilterra, la rispettabilità della propria Gloriosa Rivoluzione nei confronti degli orrori dell’anarchia sanguinaria della soi-disant rivoluzione dei vicini francesi, non a caso seguita dal dispotismo bonapartista, restò un assioma persistente” (Vola, 1993) . Il confronto con la Rivoluzione Francese, in effetti, fu sempre evidente e inevitabile.

È interessante, ad esempio, sottolineare come un francese illustre come François Guizot, che fu nel proprio Paese più volte ministro e Presidente del Consiglio nei difficili anni intorno al 1848, soffermò la propria attenzione sullo studio delle vicende inglesi del 1640-60, piuttosto che sulla Gloriosa Rivoluzione. La mossa dell’anglofilo francese era chiara: istituire un antecedente virtuoso di quella barbarie sanguinosa che era stata la rivoluzione in Francia del 1789, proporre un modello. I recensori inglesi, però, criticarono la mossa di Guizot, poiché differente era il loro punto di vista. Per i britannici la Gloriosa Rivoluzione fu effettivamente il fulcro di tutto il secolo, il traguardo voluto di un percorso. Il francese, invece, interpretò i fatti del 1688 come l’ottima conseguenza del nodo fondamentale del 1640.

Una chiave interpretativa piuttosto ‘invadente’ fu quella offerta da Karl Marx, poiché condizionò pesantemente la critica storiografica successiva. Anche in questo caso, la sua lettura della Storia istituì un confronto inevitabile. Marx trascurò la Gloriosa Rivoluzione, concentrandosi piuttosto sulla Guerra Civile di metà secolo. Per il filosofo sia la Rivoluzione Inglese, quella iniziata nel 1640-42, sia la Rivoluzione Francese furono rivoluzioni borghesi. Fu la borghesia l’anima degli eventi, il motore che spinse il vento della storia. A cambiare fu l’assetto delle alleanze, forse, dato che in Inghilterra la middle-class si alleò con la più moderna e lucida aristocrazia, laddove in Francia si alleò con il popolo. Il nemico fu comune in entrambi i casi: la Chiesa, il re. Se dunque nessuna di questi appuntamenti della Storia fu dal suo punto di vista completo, data l’assenza del Popolo, per il tedesco la Gloriosa Rivoluzione, che non propose una sovversione violenta dell’ordine, non risultò nemmeno degna di nota. Sullo stesso solco, qualche anno dopo, Friedrich Engels considerò del tutto trascurabili gli avvenimenti del 1689, puntando il dito contro l’epiteto “gloriosa”, frutto della vanagloria della borghesia ottusa e della storiografia liberale. Lo scarsissimo entusiasmo per quegli eventi storici era trainato dalla convinzione che un movimento rivoluzionario compiuto dovesse essere essenzialmente di matrice popolare e, soprattutto, muoversi nella direzione della liberazione del popolo stesso. Niente di più lontano, dunque, dalle trasformazioni del Seicento inglese, durante il quale si innescò un processo di vastissimo progresso sociale e del diritto, che fu però concettualmente lontano dall’ideologia marxista.  A dimostrazione che gli uomini di teoria, spesso, antepongono l’ideologia ai fatti, ben altra valutazione venne dalla parte di Lenin che, da uomo pragmatico, affermò: “dopo la Grande Ribellione del 1905, la Gloriosa Rivoluzione del 1917!”. il riferimento era esplicitamente alla Gloriosa Rivoluzione inglese, che portava con sé il merito, differentemente da tutte le altre rivoluzioni precedenti, di aver avuto successo: elemento, questo, a quanto pare, considerato trascurabile da ampia parte della storiografia.

Ciò che ne conseguì

Ma quali furono, dunque, le conseguenze della Gloriosa Rivoluzione? Essa diede i propri frutti sia nell’isola, sia oltre la Manica. Innanzitutto l’ascesa di Guglielmo III e la firma del Bill of Right pose un punto di non ritorno nel raggiungimento dei moderni equilibri democratici. Dopo, in Inghilterra, nessun sovrano pensò mai di negare quei valori; In Europa e nel mondo, l’eco di quei traguardi innescò qualcosa di enorme portata. L’Inghilterra ne usciva solida e potente, forte delle vette raggiunte e del proprio ruolo di testimone e garante di quel progresso politico e civile anche negli equilibri internazionali. E infatti, la Gloriosa Rivoluzione fornì gli strumenti necessari affinché si producessero, nel secolo successivo, due eventi capitali e concatenati: la Rivoluzione Americana e la Rivoluzione Francese. Senza l’esempio del 1688 e il clima che esso inaugurò nel mondo, quegli obbiettivi e sogni democratici non sarebbero stati nemmeno pensabili. E ciò che sorprende, come vedremo, è che tutto, nella Gloriosa Rivoluzione, fu portato avanti con molta poca ideologia. Ma il contributo a quei grandi fatti storici da parte della Gloriosa Rivoluzione fu anche di natura più pratica. Quando Guglielmo partì alla volta dell’Inghilterra, fu chiaro in Europa che egli sarebbe stato il paladino di una nuova direzione della Storia, finalmente libera, magari, dalla dispotica egemonia del Re Sole. E infatti, non appena fu re, Guglielmo sancì l’ingresso dell’Inghilterra nella protestante Lega di Augusta, per contrastare Luigi XIV, e anche il Cattolicesimo, nell’ascesa al trono del Palatinato. Era il 1689, nasceva la Grande Alleanza e, nove anni dopo, con il trattato di Ryswick, il Re Sole era costretto ad abbandonare le proprie ambizioni. Senza l’intervento dell’Inghilterra, della nuova Inghilterra di Guglielmo d’Orange, la Storia sarebbe stata differente. Questo esito fu dato da ragioni prevalentemente economiche: il grande esercito francese, di certo più potente di quello inglese, rappresentava per la Francia una spesa inaffrontabile, costretto come era, Luigi XIV, a rimediare i fondi esclusivamente alla vecchia maniera, tassando il popolo. Le battaglie, di fatti, erano solitamente vinte dalla Francia, che nonostante tutto fu costretta ad arrendersi, per sfinimento economico. Guglielmo III non rappresentò per l’Europa soltanto un diverso modello di governo, antitetico a quello di Luigi, ma anche una nuova visione dell’economia. Egli poté sostenere i costi della guerra mediante la creazione di nuovi, affidabili strumenti finanziari: la Bank of England e il moderno sistema di Debito Pubblico. Erano due mondi, due modelli a confronto, dunque. La capitolazione di Luigi XIV fu il primo grande e profondo colpo inferto all’Ancien Régime, colpo che fu indispensabile a quelle tensioni di profondità che sfociarono, poi, nella Rivoluzione Francese. La Francia stava perdendo il proprio ruolo egemone, il mondo stava diventando anglosassone. Ma vi fu ancora un altro, fondamentale elemento: il decollo finanziario britannico non fu totalmente autoctono, ma giovò dell’inospitalità e dell’intolleranza francesi. All’indomani della Gloriosa Rivoluzione, infatti, nel gioioso clima di rinnovata tolleranza, moltissimi olandesi, ugonotti francesi ed ebrei partirono per insediarsi in Inghilterra, fuggendo dalle persecuzioni di Luigi. Fu linfa vitale ed economica che abbandonò la Francia a favore dell’Inghilterra. Fu, dunque, la vittoria del regime di tolleranza su quello di intolleranza francese. Imposta la propria supremazia, l’Inghilterra offrì al mondo l’esempio dei vantaggi del moderno sistema parlamentare e delle politiche di inclusione e integrazione. “Solo dopo quella dimostrazione di potenza furono possibili la critica spregiudicata dei philosophes dell’Ancien Régime, l’avvento della cultura dei lumières, l’inizio del cammino che nel tardo Settecento sboccò prima nella Rivoluzione Americana e poi in quella Francese” . Qualcosa stava definitivamente cambiando se, nel 1693, William Penn fece uscire il suo Assay towards the present and the future peace of Europe, by the establishment of an European dyet, parliament or estates, dove auspicava pionieristicamente e profeticamente un  Parlamento Europeo. Infine, solo grazie alla Gloriosa Rivoluzione fu possibile, nel 1707, sotto la regina Anna, la nascita del Regno Unito. E anche grazie all’autorevole presenza del Regno Unito, l’Italia vide riconosciuta la propria unità e indipendenza, a partire dal 1860. Le potenze europee, infatti, vissero uno stallo rispetto alla considerazione da dare alla nascita della nuova nazione: il nodo fu superato quando l’allora Ministro degli Esteri britannico, Lord Russel, dichiarò che, in virtù dello spirito inaugurato dalla Gloriosa Rivoluzione, il Regno Unito riconosceva completa legittimità al Regno d’Italia. Nessuna potenza ebbe, a quel punto, più dubbi.

Una gloriosa questione astronomica

Nella natura e nelle specificità della Gloriosa Rivoluzione risiedono i motivi della scarsa considerazione di molti pensatori, ma anche della sua originalità. La si confronti con l’immagine che tipicamente si ha di una rivoluzione. Al paragone, essa non fu violenta, innanzitutto.

William of Orange as he arrives in England, 1688.

William of Orange as he arrives in England, 1688.

Non fu del tutto priva di scontri, certo, ma complessivamente l’arrivo di Guglielmo non fu ostacolato e la sua incoronazione, in seguito alla fuga, anche essa senza lotta, di Giacomo, fu un processo quasi naturale. Non vi fu, poi, coinvolgimento attivo delle masse. Portò grande progresso sociale, è vero, ma non fu mossa dai moderni ideali socialisti che spinsero più recenti rivoluzioni. Fu rivoluzione borghese, innanzitutto, e aristocratica. Fu portata avanti da queste classi sociali con pragmatismo e cautela, senza strappi o colpi di mano. Proprio per questo fu incruenta, perché lontana dal coinvolgimento del popolo che, come nelle altre rivoluzioni, avrebbe con ogni probabilità lasciato esplodere l’odio, devastando città, terreni e proprietà, eventualità ben distante, giustappunto, dagli interessi delle classi che condussero la Gloriosa Rivoluzione. Per di più, Guglielmo fu visto sin da subito come uno straniero. Il popolo non volle assecondare l’ascesa di questo olandese, rimanendo comunque, nonostante le difficoltà, devoto al proprio re; molti leader politici si sorpresero della capitolazione delle cose e giurarono che mai avrebbero immaginato che si sarebbe arrivati alla deposizione del sovrano. Molti commentatori assicurarono che, se solo Giacomo II avesse preso in mano la situazione, tutto il popolo lo avrebbe appoggiato. Tutti i traguardi sociali che vennero raggiunti non furono frutti primari dei princìpi motori della Rivoluzione, ma conseguenze naturali del nuovo regime instaurato e dell’istituzione irrevocabile di quella che fu la moneta con la quale Guglielmo pagò la propria accettazione da parte dell’opinione pubblica inglese: il libero Parlamento.

Ma ciò che realmente la differenziò da qualsiasi altra rivoluzione fu la coscienza della stessa da parte di coloro che la fecero. Cosa voleva dire per quei rivoluzionari essere, nei fatti, appunto, rivoluzionari? L’odierna accezione di rivoluzione si strutturò in seno alla Rivoluzione francese, un secolo dopo quella inglese, includendo ora tutti gli avvenimenti rivoluzionari dal 1640 al 1688. Nel significato contemporaneo, dunque una rivoluzione è il sovvertimento di uno status delle cose, ancor meglio se violento e con il coinvolgimento di ampie fette di popolazione. Già nell’Inghilterra del XVII secolo, però, questo termine veniva utilizzato per descrivere gli avvenimenti di cui abbiamo parlato, ma con accezione totalmente differente. Gli Inglesi mutuarono il vocabolo dall’astronomia, nella quale esso va politicamente a coincidere, incredibilmente, con “restaurazione”. Infatti, astronomicamente rivoluzione indica il movimento circolare della terra intorno al Sole, per tornare al punto di partenza. Proprio questo rappresentò per il popolo britannico la seconda metà del XVII secolo: un lungo percorso circolare al fine di ristabilire l’ordine precedente ai soprusi di Carlo I. La politica prepotente e autarchica di quest’ultimo fu interpretata come una minaccia per gli equilibri politico-civili della società inglese e, come tale, fu combattuta. È questo il motivo per cui, fino all’ultimo, l’opinione pubblica mostrò disposizione alla mediazione e, successivamente, considerò l’esperienza repubblicana solo una parentesi: il cuore della questione era la salvaguardia dello stato delle cose.

Non vi era, d’altronde, alcuna base filosofica e culturale che potesse sostenere un atteggiamento rivoluzionario in senso moderno. In Inghilterra, la presenza della Chiesa Anglicana creava un legame strettissimo tra potere politico e religioso, tra senso sociale e spiritualità. Tutto faceva parte, dunque, di un’unica dimensione, tutto era concatenato in quella che all’epoca veniva teorizzata come la Grande Catena dell’Essere. Dio creò tutto e tutto, nel mondo fisico, è organizzato sul riflesso della gerarchia celeste. Ribellarsi all’ordine sociale voleva dire ribellarsi alla Natura. Se questa visione poneva il re sopra qualsiasi altra cosa al mondo, la sua figura subiva comunque uno scacco logico: se la legge del mondo è disposta da Dio, essa, appunto, appartiene a Dio e non al re, che ad essa, e solo ad essa, deve anch’egli sottostare. Un pensiero, questo, subdolamente delegittimante e minaccioso. Il re ha il dovere di garantire quell’ordine naturale: quella la sua missione. E’ questo che costernò, infatti, i tory, garanti dell’ordine costituito e leali al sovrano, che videro come un pazzo quel Carlo I che iniziò a minare, negli atti, l’equilibrio alla difesa del quale era stato posto direttamente da Dio. Un re che non rispondeva al proprio dovere poteva dunque essere avversato? Sì, forse, ma ovviamente in nessuna pratica attiva. Nel Seicento la rivolta aperta era considerata un abominio intollerabile, perché destabilizzava l’ordine, che era la primaria impronta di Dio sul mondo. Il popolo oppresso da un re impazzito poteva, piuttosto, opporre una resistenza passiva. Vale a dire, e qui mi ricollego al carattere di conservatività della Rivoluzione esposto in precedenza, esso poteva non collaborare ai cambiamenti imposti dal re colpevole, aggrappandosi con forza allo stato delle cose. Il maggior supporto intellettuale e teologico a questa pratica veniva da Lutero e Calvino, i quali avevano sostenuto che nessuna autorità è valida se contravviene all’ordine di Cristo e che il suddito deve la propria obbedienza a un superiore, non di per sé, ma in quanto la deve a Dio. Particolarmente tenuta in considerazione, del resto, la posizione di Calvino in merito, se le angherie di Carlo I furono rivolte soprattutto contro le sette protestanti, così come le simpatie cattoliche di Giacomo II minacciarono in particolar modo protestanti e anglicani. Ad un certo punto, però, la dottrina della resistenza si fece sempre più forte e ostinata. Soprattutto in seno al movimento puritano, intorno ai primi anni Quaranta, essa assunse toni di sempre maggiore attivismo. L’origine sociale dei puritani fu importante: essi erano borghesi, cresciuti nell’idea del merito e dell’impegno individuale per il conseguimento degli obbiettivi, alimentati da un fortissimo senso civico e di responsabilità, avversi a qualsiasi forma di esuberanza e devianza. Ben presto, dunque, essi avvertirono il dovere morale di riportare alla grazia di Dio le istituzioni che da essa si erano allontanate. Il passo per la Guerra Civile, a quel punto, fu breve. È chiaro, dunque, che in questo meccanismo, una volta epurati i vertici dalla presenza puritana, dopo la caduta di Cromwell, i partiti sentirono l’esigenza di restaurare l’ordine precedente a Carlo I, completando un opera che i puritani, invasati, avevano mancato. Fu uno spirito restauratore a spingerli, prima con la restaurazione monarchica, poi nel 1688. E bisognerà aggiungere ancora: l’istituzionalizzazione degli equilibri di potere, mediante il Bill of Right, che comunque non possedeva lo statuto rigido delle attuali costituzioni, fu dettata dal desiderio di tutelarsi dagli eccessi monarchici, non di certo da sogni di progressismo. Valga come esempio la dichiarazione di Enrico VIII, nel 1543: “mai la condizione della Nostra Regale Maestà è tanto alta quanto al tempo in cui è convocato il Parlamento” . È comprensibile, dunque, quanto dovettero pesare agli inglesi le continue soppressioni del Parlamento da parte dei sovrani del primo Seicento e quanto volessero semplicemente veder rispettato un gioco delle parti al quale erano stati da lungo temo abituati. E d’altronde, le ricerche più recenti mostrano quanto quella parlamentare fosse una pratica consolidatasi durante il XVI secolo, messa in crisi al principio di quello successivo.

James Thornhill, Triumph of Peace and Liberty over the forces of Tyranny.

James Thornhill, Triumph of Peace and Liberty over the forces of Tyranny.

In fondo, per questo motivo la Gloriosa Rivoluzione fu coronata da successo. Essa si poneva obbiettivi concreti e realizzabili, poiché questi erano realtà concretamente già esistite. Il pragmatismo britannico creò dinamiche vincenti, non vi furono, come nelle rivoluzioni successive, impianti ideologici che portassero a sperare in traguardi utopici. Fu poi vincente perché seppe tenere insieme diverse istanze, senza mai cadere nell’univocità del fondamentalismo. Non fu solo religiosa, non fu solo politica. Essa contemplò entrambe le nature, poiché religione e potere politico erano così pragmaticamente legati nella realtà inglese, pur lasciando spazio alle libertà individuali che, invece, da Carlo I a Giacomo II erano state sistematicamente attentate.

Di natura eminentemente pragmatica fu la partecipazione dei partiti e delle classi a quegli eventi. Due furono, in fondo, le matrici della spinta all’azione concreta e individuale: intolleranza ed egoismo. Di rado la Storia è compiuta dagli agenti per nobiltà d’animo, ciascuno contraddice i propri principi sull’onda dell’interesse. L’odio verso il Cattolicesimo e la brama, da parte dei componenti della classe dirigente riformata, di recuperare i ruoli dai quali Giacomo II li aveva esautorati: questi gli effettivi propulsori dei fatti. Questi individui, scopertisi rancorosi e senza più nulla da perdere, non nutrivano molte speranze di recuperare i propri incarichi fin quando il re fosse rimasto in vita. Era vecchio, sarebbe bastato portare pazienza. Questa è, essenzialmente, la ragione per la quale, quando la regina rimase incinta, gli eventi precipitarono e ci si rivolse a Guglielmo d’Orange: un erede al trono avrebbe significato che la corona non sarebbe passata alla protestante Maria, moglie di Guglielmo, ma sarebbe rimasta in capo a un cattolico. Forzare la mano sul re era dunque l’unica via per ristabilire l’ordine sociale. Gli stessi motivi personali, ad ogni modo, coinvolsero ugualmente burocrati, vescovi, professori, alti generali, nobili. E quando, sbarcato Guglielmo sull’isola, Giacomo II si affrettò a riconsegnare a ciascuno la propria carica estromettendo i cattolici, ormai era troppo tardi. Molti vescovi e ecclesiastici si dichiararono contrari a Guglielmo, ma ormai la situazione era irreversibile. Del resto, Guglielmo era arrivato con l’intenzione dichiarata di riportare l’ordine e la misura, non di cacciare il re. Con ogni probabilità, se Giacomo II avesse preso il controllo della situazione il popolo lo avrebbe appoggiato. Ma Giacomo fuggì e il trono si rese vacante.  Tra i partiti fu vero scompiglio. Anche i whig, cui teorie ponevano la legittimità della corona nel consenso popolare e non in Dio, si ritrovarono davanti a un risultato inaspettato.

Fuochi d'artificio a Londra per l'incoronazione di Guglielmo d'Orange e di Marie (21 aprile 1689). Acquaforte olandese del XVII secolo. Dettaglio: le effigi del papa, di Giacomo II e di suo figlio vengono bruciate

Fuochi d’artificio a Londra per l’incoronazione di Guglielmo d’Orange e di Marie (21 aprile 1689). Acquaforte olandese del XVII secolo.
Dettaglio: le effigi del papa, di Giacomo II e di suo figlio vengono bruciate

Si pensò dunque di proporre la corona alla figlia del re, Maria, giustificandosi con la spontaneità della fuga del sovrano. La corona passò dunque a Guglielmo solo per osmosi coniugale, per così dire. Perché il cuore della sovranità, soprattutto per il popolo e per i tory, molto meno per i whig, risiedeva nel legame di sangue. Il presupposto perché un individuo potesse essere incoronato e riconosciuto come legittimo sovrano era che appartenesse a quella dinastia che Dio aveva posto al comando del Paese. Ragione, questa, per cui Cromwell si avvicinò moltissimo alla corona ma, intelligentemente, fece uno spontaneo passo indietro, poiché il suo sarebbe stato un trono senza basi, instabile, privo dell’unico fondamento dell’autorità: la devozione sacrale degli Inglesi, riposta soltanto in chi condivideva quel sangue benedetto da Dio.

Rivoluzionari riluttanti

Gli Inglesi furono essenzialmente rivoluzionari riluttanti (Speck, 1988). Essi non furono mossi da progetti di rinnovamento o alte prospettive, ma molto più semplicemente dalla paura: la paura del nuovo, che qualcosa del loro ordine potesse mutare. Per questo motivo dovettero scendere a patti con sé stessi, pragmaticamente interpretando le situazioni, momento per momento; ce lo rivelano, del resto, le numerose testimonianze di sbigottimento per la piega che prendevano gli eventi, le continue titubanze. Non furono d’altronde nemmeno degli eroi, totalmente assente in loro era il fuoco della giustizia sociale, della virtù dei princìpi. Loro malgrado dovettero aprirsi alla novità, lottando per la restaurazione. Eppure, nessuna più nobile rivoluzione ottenne tanto, in termini di progresso civile, quanto la Gloriosa Rivoluzione. Soprattutto, nessuna rivoluzione prese parte così serenamente e durevolmente alla Storia nazionale e generale. Basti pensare a ciò che, immediatamente, fu il prodotto della Rivoluzione Francese: il Terrore prima, un secondo e autoritario governo monarchico, quello di Napoleone Bonaparte, poi, nonché un altro secolo ancora per raggiungere ciò che l’Inghilterra aveva ottenuto già nel 1688, con molto poco rumore. Ma soprattutto, alla violenza della Rivoluzione Francese dovette seguire, attraverso il passaggio napoleonico, la Restaurazione, a rallentare un naturale processo di progresso che già la follia ideologica e distruttrice dei rivoluzionari aveva fatto deragliare.

La riflessione sui fatti del 1688 può dunque dirci molto della natura della Storia e della Società, del potere talvolta distorcente della retorica politica. Perché è vero che vi furono sconvolgimento e innovazione, ma in seno a spinte conservative e a necessità concrete. Soprattutto, la Gloriosa Rivoluzione portò alla definizione di una serie di paletti, posti come garanzie di ordine, dietro ai quali non fu più possibile tornare e che valsero come esempio per tutta la civiltà occidentale. Il 1688 ci dice molto, ancora oggi, di quella forza progressista che la Storia possiede, autonomamente e nonostante tutto, e che spesso proprio le ideologie e le furie progressiste limitano e soffocano. Perché la Storia, appunto, è fatta dai piccoli fatti, dalle piccole e quotidiane dinamiche di azione e reazione, più che dai grandi progetti. Democrazia e giustizia, equilibrio e pace, che del resto sono le immagini concrete di quello che chiamiamo progresso, sono dunque i frutti della più etimologicamente autentica rivoluzione: del continuo voler tornare a sé della civiltà umana ad ogni suo livello, del voler agire innanzitutto per sé, per ritrovarsi inesorabilmente ormai già fuori da sé e, in questo movimento continuo e spontaneo, sempre un passo più avanti.

Per approfondire:

  • Trevelyan, George Macaulay, Storia d’Inghilterra, ed. Garzanti, 1962.
  • Vola, Giorgio (a cura di), Il potere e la gloria. La Gloriosa Rivoluzione del 1688, ed. Nistri-Lischi, 1993.
  • D’Avack, Lorenzo, Costituzione e rivoluzione. La controversia sulla sovranità legale nell’Inghilterra del ‘600, ed. Giuffrè, 2000.
  • O. Kenneth, Morgan, Storia dell’Inghilterra, da Cesare ai giorni nostri, Bompiani, 2001.
  • Guizot, François, Discorso sulla storia della Rivoluzione d’Inghilterra, ed. Rubbettino, 2012.

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