Lost in translation – Il giro del mondo in cinquanta parole

Ecco, a me pare che la nostra epoca sia caratterizzata proprio da questa contraddizione: da una parte abbiamo bisogno che tutto quel che viene detto sia immediatamente traducibile in altre lingue, dall’altra abbiamo la coscienza che ogni lingua è un sistema di pensiero a sé stante, intraducibile per definizione. Detto altrimenti, la lingua in quanto strumento di comunicazione deve essere traducibile, ma essa racchiude molto più del semplice senso che trapassa da una traduzione all’altra. (Tullio De Mauro – La lingua batte dove il dente duole)

Sul collo ho tatuato Sæglópur. È una parola islandese, titolo di una canzone dei Sigur Rós e in italiano significa «perso nel mare». Quando ho scoperto il significato, mi sono affezionata subito a quella parola, tanto da volermela tatuare perché trovo meraviglioso che una sola parola possa esprimere un concetto, una sensazione, quando in italiano – per tradurlo – abbiamo bisogno di tre parole. Pochi giorni fa sono tornata dalla Francia e, devo ammetterlo, tornare a sentire parlare italiano per strada è stato bello. Stavo già lavorando a questa recensione e mi sono ricordata di unling articolo di Anna Maria Testa (Il potere morbido della lingua italiana, pubblicato su Internazionale) in cui viene scritto che – secondo studi internazionali – l’italiano è la lingua più romantica e più attraente. Quando lessi quest’articolo, tempo fa, mi ricordai di un episodio capitatomi anni fa in Francia: il mio professore di francese stava imparando l’italiano e disse che l’italiano era la lingua più romantica del mondo, altro che il francese (come la maggior parte di noi aveva detto in classe perché tutti noi ritenevamo la lingua francese molto musicale, con tutte quelle liasons). Non so se l’italiano sia la lingua più bella del mondo, ma so per certo che le lingue e, con loro i dialetti, sono uno strumento meraviglioso di cui dobbiamo fare tesoro.

Lost in translation è il bellissimo e interessante progetto di Ella Frances Sanders, scrittrice e illustratrice statunitense. La Sanders ha deciso di raccogliere nel libro, tradotto in italiano da Ilaria Piperno e pubblicato dalla casa editrice Marcos y Marcos, «cinquanta parole intraducibili dal mondo», realizzando anche le illustrazioni.

«Nel nostro mondo ad alto grado di connessione e comunicazione, abbiamo moltissimi modi per esprimerci, raccontare agli altri come ci sentiamo e spiegare l’importanza o la banalità delle nostre giornate. La velocità e la frequenza dei nostri scambi, però, non elimina affatto le incomprensioni, anzi, forse oggi più che mai quello che vogliamo dire si perde nella traduzione. […] La lingua ci avvolge con i suoi significati e la sua punteggiatura, spingendoci a varcare i confini e aiutandoci a capire le domande infinitamente complicate che la vita ci pone senza sosta. Le lingue non sono immutabili, per quanto a volte possano trasmettere un apparente senso di stabilità. Le lingue evolvono e talvolta muoiono, ma, che conosciate soltanto poche parole di una lingua o mille parole di molte lingue, ci modellano: ci permettono di dar voce a un’idea, esprimere amore o delusione, far cambiare opinione a qualcun altro». Possiamo ammettere, dunque, che le lingue esercitano un potere enorme sull’essere umano. E che per tradurre una parola, spesso ne abbiamo bisogno di 18302399_10212469600153221_1203844036_ntante, vedasi la parola islandese di cui parlavo prima. Lost in translation mi ha permesso di scoprire tantissimi vocaboli che esprimono sensazioni, stati d’animo, modi di vivere. Per esempio, sapevate che la parola pålegg in norvegese significa «tutto ciò che si può mettere su una fetta di pane»? E che pisan zapra in malese è «il tempo necessario per mangiare una banana»?

Leggendo Lost in translation non ho solo imparato parole nuove. Ho imparato tanto sulle altre culture, soprattutto quelle orientali. Samar in arabo è la veglia prolungata fino a tardi, quando non ci si accorge che «la sera è scivolata nella notte» perché si è intenti a parlare. Ho scoperto dialetti che si stanno estinguendo come il wagiman, dialetto australiano quasi estinto da cui proviene il verbo murr-ma, traducibile con «cercare qualcosa nell’acqua usando solo i piedi».  Naz, in urdu, è la consapevolezza, mista a sicurezza, di essere amati incondizionatamente.

Ho anche segnato le parole che ho sentito più mie. Tra queste, meraki, verbo greco che significa «fare qualcosa con tutto te stesso: con passione, creatività e amore»; tsundoku, sostantivo giapponese che indica un libro comprato e non ancora letto, solitamente poggiato su una pila di altri libri acquistati e che attendono di essere letti; infine tretår, parola svedese che indica «un tris di caffè», l’equivalente di quello che bevo la mattina di solito.

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Il libro di Sanders fa viaggiare restando comodamente seduti sul divano, fa ipotizzare i luoghi e i loro abitanti. L’immaginazione è, di certo, stimolata dalle bellissime illustrazioni, dai colori, dalla scrittura corsiva ed elegante. Non lo consiglio soltanto agli esperti, a chi parla molte lingue, a chi studia le lingue. Lo consiglio anche alle persone curiose, a chi si reputa cosmopolita, a coloro che magari di lingua ne parlano una, ma vorrebbero impararne altre. Quando ho finito di leggere, ho provato una certa saudade.

Le fotografie sono state scattate dalla sottoscritta; l’immagine in cui appare la parola ciao in molte lingue è stata presa da www.shutterstock.com.

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