L’ultima onda di Virginia Woolf

È il 28 marzo 1941, Virginia Woolf è in piedi sulla riva del fiume Ouse, vicino alla sua Monk House:  si riempie di pietre le tasche del  cappotto e si lascia annegare. A casa, una lettera per il marito, scritta poco prima, una lettera di ringraziamento e d’amore: «Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi» è la confessione finale.
Senza voler rendere centrale il tema della malattia psichica, dato che la Woolf stessa non ne fa  stendardo da mostrare o paravento dietro cui nascondersi, voglio mettere in luce la centralità che giocano nella sua scrittura, privata e ufficiale, la sensibilità e la percezione caratteristiche della sua mente; in particolare, in un articolo intitolato Dell’essere malati, Virginia Woolf coglie le difficoltà di una mente sotto stress e di un corpo malato nel tentativo di esprimersi razionalmente. «Una ragazzina che vuol dare voce alle sue prime pene d’amore può rivolgersi ai sonetti di Shakespeare o all’eleganza di Donne, ma un uomo che cerca di spiegare al proprio medico i sintomi del suo mal di testa si trova di colpo senza mezzi: Il linguaggio d’improvviso si prosciuga. Non c’è niente di bell’e pronto. È forzato a coniare delle parole da solo, e prendendo il dolore in una mano, e un grumo di puro suono nell’altra (come forse gli abitanti di Babele all’inizio), a premerli l’uno sull’altro, perché una nuova parola alla fine ne esca» (in Voltando pagina, cit., p. 546). Questo deve essere messo in chiaro: non è solo la malattia a rendere difficile l’espressione, ma è il linguaggio stesso, quello inglese (la Woolf infatti ammira la capacità degli americani di inventare parole nuove), a non essere adatto all’impresa.

Virginia Woolf è però una scrittrice: nel privato, come testimoniano i suoi diari – il primo cominciato nel gennaio del 1897, l’ultimo concluso pochi giorni prima della morte – e la quasi giornaliera corrispondenza con familiari, amici, artisti e scrittori, così come nel pubblico, con la stesura di articoli, romanzi, saggi, racconti brevi e biografie. Il suo  incessante word instinct, la pulsione verbale che la guida nella vita e che la spinge a scrivere, la porta a considerare anche i più piccoli particolari come degni di nota, ogni stimolo come possibile avvio al racconto: l’esperienza dell’attimo, quello che Liliana Rampello definisce “brillio del qui e dell’ora”, è la nuova temporalità di cui è creatrice e che cerca di catturare. La seduzione del mondo e dell’esserci si riverberano infatti nelle parole, lo strumento dello scrittore, diventando così le prerogative di ogni processo di creazione e narrazione messo in atto dalla Woolf; in virtù di questa loro capacità riflettente e illuminante, le parole dimostrano di avere il più grande «potere di suggestione. […] Chiunque abbia mai scritto una frase deve essere cosciente, o almeno in parte cosciente, di questo» (Il mestiere delle parole, in Voltando pagina, cit., pp. 476)
Non potendo comunicare concetti sicuri e universali, la parola degli scrittori di inizio Novecento, e in particolare quella a cui scelgono di affidarsi James Joyce e la Woolf, diventa uno strumento epifanico, e proprio come un’epifania comunica attraverso la vista, il tatto, il suono: non c’è definizione, nessuna spiegazione, solo verità poetica. Al poeta, infatti, Virginia Woolf riconosce un potere e una capacità di evocazione speciali, in cui ravvisa delle somiglianze con il processo creativo della mente “malata”: «Nella malattia le parole sembrano possedere una qualità mistica. Afferriamo ciò che sta al di là del loro significato superficiale, istintivamente cogliamo questo e quello e quell’altro – un suono, un colore, qui un accento, là una pausa – che il poeta, sapendo che le parole scarseggiano rispetto alle idee, ha disperso attraverso le pagine per evocare, quando tutti i segni siano stati raccolti, uno stato mentale che né le parole possono esprimere, né la ragione spiegare» (in Voltando pagina, cit., p. 551).

Forse Bob T. aveva ragione quando nella sua poesia mi chiamava fortunata fra tutti: nel senso che ho una mente capace di esprimere; no, perché ho mobilitato il mio essere; imparato a dargli sfogo completo; perché insomma mi sono costretta in una certa misura a rompere ogni schema e a trovare una nuova forma d’essere – cioè di espressione – per ogni cosa che sento e penso. (Diario di una scrittrice, 27 luglio 1934)

La scrittura della Woolf nasce dalla sua esperienza e dalla sua relazione con il mondo perché, proprio come i personaggi primonovecenteschi, si sente «in mezzo, come un diaframma» (Enrico Testa, Eroi e figuranti, p. 18). Questo  sentimento della relazione contraddistingue due grandi donne woolfiane: Clarissa Dalloway, che dà il nome al suo romanzo, e la signora Ramsay di Al Faro. Con questi due lavori, Virginia Woolf affronta il tema della relazione avvicinandolo a un’altra esperienza totalizzante, quella della morte, e ancora una volta dalla propria esperienza la Woolf prende le mosse per vivificare il «grande esorcismo» che possono operare le parole: nasce così un rapporto con la morte anche per lei inedito, un’introspezione che conduce la scrittrice stessa, insieme ai suoi personaggi, dall’ossessione e dal dolore fino alla comprensione dell’assenza. L’esito ottenuto è, tuttavia, in parte diverso, perché in Al Faro sono in gioco gli affetti di un passato trascorso insieme, che condizionano il ricordo e l’elaborazione del lutto; inoltre, Clarissa Dalloway riesce a far fiorire – «Disse che i fiori li avrebbe comprati lei» – le sensazioni che le si agitano dentro perché così lei sente la vita, con una soluzione consona al suo carattere, Lily Briscoe investe energie in un quadro perché è una pittrice – esattamente come la Woolf compie la stessa ricerca con le parole, in quanto scrittrice. Questa nuova esperienza dell’assenza dell’altro (in Mrs. Dalloway si tratta di Septimus Smith, in Al Faro della signora Ramsay stessa) è «sostenuta da un sapere patemico in cui la visione si nutre della memoria e in cui anche la commozione – le lacrime proprie dell’“esperienza comune” – è un passaggio necessario a scavalcare i limiti della singolarità e della sua presunta autosufficienza» (Enrico Testa, Eroi e figuranti, p. 55). Un altro grande assente dei romanzi woolfiani, per ora poco considerato dalla critica italiana, è il Percival delle Onde.

varie edizioni di The Waves, tra cui la prima stampata dalla Hogarth Press, in alto a sinistra

varie edizioni di The Waves, tra cui la prima stampata dalla Hogarth Press, in alto a sinistra

Porto alla luce questo romanzo perché contiene, in tensione e, quindi, in equilibrio, tutti gli elementi di questa analisi: la relazione, l’assenza, le parole. La cadenza delle onde che giungono a riva, oltre a essere movimento, è infatti ritmo sonoro che la Woolf trasporta nelle parole e che le permette, saltando l’elaborazione logica e di senso, di far irrompere nel romanzo l’epifania e la poesia: «Credo che Le onde si riduca ad una serie di soliloqui drammatici. L’importante è fare in modo che fluiscano e si compenetrino omogeneamente, al ritmo delle onde» (Diario di una scrittrice, 20 agosto 1930). È  la forma che tanto cercava con i suoi altri lavori, e che qui finalmente trova nel gesto stesso della scrittura: «È la velocità, l’effetto a caldo, fluviale, il flusso come di lava di una frase dopo l’altra, che voglio. […] Ora sento il suo ritmo nel cervello (il ritmo è la cosa principale nella scrittura). Ora, senza interruzione comincerò, seguendo la cadenza come batte» (Le onde, pag. 55). La percezione diventa forma e materia e poetica del romanzo stesso, che intorno a essa si costituisce.

Pochi libri mi hanno interessato come Le onde, a scriverli. (Diario di una scrittrice, 7 gennaio 1931)
Che lunga fatica arrivare a quest’inizio – se Le onde è il primo lavoro nel mio proprio stile. (Diario, 16 novembre 1931)

Percival è il settimo dei personaggio in gioco nelle Onde, l’unico a non prendere mai direttamente la parola ma che è di volta in volta oggetto dei racconti degli altri. In un alternarsi confuso di sentimenti – ci sembra che sia Neville ad amarlo, ma improvvisamente è Susan la prescelta, Louis non lo può soffrire ma gli si sottopone continuamente – che si susseguono lungo tutto il romanzo, Percival compare per intero, sotto gli occhi di tutti, solo in un’altra scena importante, che lo rende del tutto simile a Clarissa Dalloway e alla signora Ramsay: come le due donne, ha infatti il potere di tessere silenziosamente, con il suo semplice esserci, «quella trama di relazioni che sostiene sulla scena del mondo ogni essere umano» (Liliana Rampello, Il canto del mondo reale, p. 112). È molto curioso il fatto che, nelle Onde, non sia il protagonista (in questo caso, i protagonisti) ad avere il potere di creare legami, ma tutto ci venga offerto dal punto di vista di chi da questi legami viene catturato e vivificato, in una sorta di continuum della prospettiva di Lily Briscoe offertaci nell’ultima sezione di Al Faro. Non è d’altronde casuale la natura mondana della grande scena di Percival nelle Onde, esattamente come il culmine di Mrs Dalloway si trova nella festa e in Al Faro nella cena; sotto la luce delle lampade e nei loro vestiti eleganti, gli invitati interpretano ciascuno il proprio ruolo, tutti di un pezzo, ma basta un movimento o una parola perché si riveli il carattere materno e luminoso delle due donne, e in nome di un’unità armoniosa ci si consegni nelle loro mani, sciogliendo l’individualità ostinata: Clarissa e la signora Ramsay fanno brillare il momento presente, per cui a tutti sembra di essere proprio lì, proprio ora. Quando Percival fa il suo ingresso al ristorante, è come se l’occhio di bue si dirigesse improvvisamente su di lui, inondandolo di luce e stagliandolo contro il fondale, che rimane indistinto: «“[…] Ma, eccolo”. “Ora, – disse Neville, – il mio albero fiorisce. Il cuore batte più forte. L’oppressione scompare. Ogni impedimento è rimosso. Il regno del caos terminato. Lui riporta l’ordine. I coltelli tagliano”. “Ecco Percival, – disse Jinny, – non si è agghindato”. “Ecco Percival, – disse Bernard, – si liscia i capelli”» (Le onde, pag. 88) . Egli, con la sua forza, la sua noncuranza, il suo essere terribilmente se stesso, è in grado di «offrire agli altri bellezza e armonia, per tenerli insieme in una forma composita di ombre e di luce, facendo ordine nel caos della semplice giustapposizione, frammentazione, compresenza delle cose e delle persone. Lasciar vivere la pluralità accogliendola e così creandola» (Liliana Rampello, Il canto del mondo reale, pag. 119).
Il potere di Clarissa Dalloway, di Mrs Ramsay e, possiamo ora a ragione aggiungere, di Percival è di fungere da cardine intorno a cui tutti gli altri personaggi possono crearsi: questi artisti della persona, «strappando al tessuto dell’informe la forma della realtà vivibile, fanno grande il mondo facendo della quotidianità un miracolo di relazioni sensate» (Ivi, pag. 79).

Come negli altri due romanzi, tuttavia, e come d’altronde accade nella vita, dal nulla irrompe la morte, contaminando tutto. Qui il parallelo che tengo a mettere in luce è quello che esiste tra Le onde e Al Faro, anche per la particolare tecnica narrativa che la Woolf sceglie di utilizzare per fare entrare la morte: ex abrupto. Non è un caso se nelle Onde la notizia della morte segue un interludio e in Al Faro è inserita tra parentesi quadre (nella mia edizione, persino in chiusura di pagina):

«È morto – disse Neville. – È caduto. Il cavallo ha scartato. L’ha sbalzato di sella. Le vele del mondo si sono voltate di scatto e l’hanno colpito alla testa. È tutto finito. Le luci del mondo si sono spente. Lì c’è l’albero che non posso oltrepassare» (Le onde, pag. 109)
«Un buio mattino, il signor Ramsay, inciampando lungo un corridoio, protese le braccia, ma poiché la signora Ramsay era morta improvvisamente la notte  precedente, tese le braccia invano. Rimasero vuote» (Al Faro, pag. 125)

Non si tratta di cattiveria, di cui tanto la Woolf è stata accusata, specialmente per Al Faro; è esattamente ciò che accade di fronte alla morte: è come se la mente si ammalasse, e il linguaggio venisse meno, come ha descritto nel suo Dell’essere malati. Non c’è modo di dire la morte, perché, per quanto sia logica la nostra condizione mortale, non c’è alcun modo di indicare la morte, che è il non esserci per eccellenza, e quindi catturarla e comunicarla. Non penso sia un caso che la venuta meno (alla vita, al romanzo, agli altri personaggi) di Percival avvenga in India, improvvisamente e lontano da tutti (così che non sia possibile indicarla); morte che tanto ricorda quella del fratello di Virginia, Thoby, stroncato da febbre tifoide nel 1906 mentre è in viaggio in Grecia. Non penso che nemmeno questo parallelo sia casuale, perché durante la fase di realizzazione delle Onde Virginia confida alle pagine del suo diario: «Non è silenzio fisico; è una solitudine interiore; interessante da realizzare, a riuscirci. Per esempio, oggi pomeriggio camminavo per Bedford Place […] e mi dicevo istintivamente qualcosa del genere: “come soffro. E nessuno sa come soffro, camminando per queste strade alle prese con la mia angoscia, come dopo la morte di Thoby: sola, sola a combattere contro qualcosa”» (Diario di una scrittrice, 11 ottobre 1929).
La scomparsa del personaggio corrisponde quindi al venir meno della capacità del linguaggio: «Se non ti vedrò più, mi chiedo, se non potrò fissare gli occhi sulla tua forma solida, che modi prenderà la nostra comunicazione!» (Le onde, pag.112). Anche per questo motivo Lily Briscoe ricerca nella pittura un suo modo di parlare di questo dolore, di questa mancanza, che stanno «conficcati dentro, per insegnare che le cose sono così come sono, che così vanno sentite e non astrattamente pensate» (Liliana Rampello, Il canto del mondo reale, pag. 135). Simile a lei è Rhoda: «Percival, con la sua morte, mi ha fatto questo regalo, mi ha rivelato questo terrore, mi ha lasciata qui a subire questa umiliazione […] Percival con la sua morte mi ha fatto questo regalo, farmi vedere la cosa così com’è» (Le onde, pp. 116-118)
Il dono che la morte offre è per chi rimane e, inaspettatamente, rafforza quella particolare essenza della vita che Virginia Woolf ha trovato, il brillio del qui e dell’ora:  l’unica risposta sensata (non l’unica possibile, attenzione) è incarnata da Clarissa che tiene «legate insieme la vita mortale e l’eternità della morte, intrecciando tutto il tempo in un adesso» (Liliana Rampello, Il canto del mondo reale, cit., p. 103)

La grande rivelazione, forse, non arriva mai. C’erano invece piccoli miracoli quotidiani, illuminazioni, fiammiferi che s’accendevano inaspettatamente nel buio; eccone uno. Questo, quello e quest’altro; lei stessa, Charles Tansley e il frangersi dell’onda; la signora Ramsay che li univa; la signora Ramsay che diceva “Vita resta qui ferma”, la signora Ramsay che trasformava quel momento in qualcosa di permanente […] – questa era una sorta di rivelazione. C’era forma in mezzo al caos; quell’eterno passare e fluire (osservò le nuvole che se ne andavano e le foglie che s’agitavano) era inserito nella stabilità. Vita resta qui ferma, aveva detto la signora Ramsay. “Signora Ramsay! Signora Ramsay!”, ripeté. Doveva a lei quella rivelazione. (Al Faro, pag. 150)

Mi trovo quindi concorde con Liliana Rampello quando contesta a Nadia Fusini la definizione di «scienza del lutto» per questa operazione ed elaborazione letteraria della Woolf. La morte è, infatti, solo inizialmente paralizzante e momentaneamente luttuosa, perché conduce, in modo niente affatto razionale (contrariamente alla coscienza della nostra mortalità) alla scoperta più grande che ci possa essere: contro la finitezza, la caducità, l’irrigidimento, esiste «l’abbandono dell’io e abbraccio con le cose, con il mondo, che è
partecipare di un orizzonte illimitato, di uno sprofondamento rivelatore dell’assenza di confini, di un buio dilatato che, indicando la possibilità infinita dell’esperienza, dà senso, mette in prospettiva la parvenza superficiale di ogni povera esistenza» (Liliana Rampello, Il canto del mondo reale, pag. 116). Non è affatto la fine, è la possibilità di essere tutto e con tutto. Questa è la grande scoperta di Virginia Woolf, che trova nelle Onde il suo massimo compimento: questa scrittrice, con la sua incessante ricerca letteraria e personale, con la sua parola carica di sensazioni, con il suo esserci nel tempo e nella relazione, «ha scoperto come disincarnare il personaggio romanzesco regalandogli una vita più vera, lasciandogli percorrere lo spazio di una solitudine che affronta l’avventura della vita aprendosi infinitamente all’altro» (Ibid).

In conclusione, la nascita faticosa del proprio essere può avvenire attraverso la relazione con gli altri, anche nell’assenza. Esistono molte e diverse risposte alla crisi dell’identità del personaggio e della persona, iniziata con il Novecento e che, a mio avviso, si protrae ancora fino a oggi, e questa è quella offerta da Virginia Woolf. Ciò che mi sembra le doni ancora più valore è il fatto che la ricerca di una risposta personale alla crisi dell’identità si protragga per tutto il corso della sua vita umana: è una fatica che la riguarda da vicino, che aderisce alla sua sensibilità, che la rende inevitabilmente essere vivente del e nel suo tempo. Che questa impresa venga affrontata nella forma cartacea, solida e autoconclusa del romanzo non mi pare una contraddizione: esattamente come non lo è utilizzare la parola per dare voce a qualcosa che non si può dire. Quello che è essenziale è lo sforzo, e il premio è la foglia che cade, il sole al mattino, una persona che doni ordine semplicemente entrando in una stanza, la sensazione indescrivibile dell’intimo avvicinamento to the thing. Addentrandomi nelle Onde, ho scoperto inoltre una relazione tra le opere di Virginia Woolf di cui non mi ero accorta prima: ogni atto di scrittura non si esaurisce in se stesso, l’amore con cui la Woolf crea trabocca da una pagina di diario a un libro, da una lettera a un saggio. Da questo continuo contatto esce vivificata l’immagine di una scrittrice e di una donna, e ancor prima di una mente terribilmente e consapevolmente fertile, che quasi senza saperlo si è fatta il principio d’ordine che tanto andava cercando.

Li salvai in una frase che venne improvvisa. Li salvai dall’informe con le parole. (Le onde,  p. 199)

Piccola bibliografia:

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