Lunario del paradiso

Abbiamo ripercorso il fenomeno culturale di Alice disambientata nella Bologna del 1977, a capo della ripresa di questo materiale collettivo vi è Gianni Celati che, a quei tempi, era professore del DAMS. Nel 1978, la casa editrice Einaudi pubblica Lunario del paradiso, quarto romanzo di Celati, ripreso nel 1989 in Parlamenti buffi con il sottotitolo Esperienze d’un ragazzo all’estero e, poi, pubblicato nuovamente nel 1996 da Feltrinelli.

Lunario del paradiso potrebbe essere definito un romanzo di formazione che si corrode da dentro poiché è un romanzo fuori dalle convenzioni letterarie. In Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura – raccolta di saggi edita da Einaudi e scritta da Celati stesso – lo scrittore parla della differenza fra novel e romance nella storia, facendo spesso riferimento a Don Chisciotte e Robinson Crusoe. La verosimiglianza, per lo scrittore, è stata inventata dalla borghesia per ambientare i lettori, censurando tutto ciò che è davvero umano e romanzesco: il fantastico, il sentimentalismo, l’umorale, eccetera. L’obiettivo di Celati è, in questo caso, cogliere l’intensità attraverso i sensi, ricorrendo ad un linguaggio che non segue le regole, rifacendosi al parlato e allo slang giovanile.

Il romanzo non ha un vero e proprio ordine cronologico, tutto viene descritto alla rinfusa: Giovanni – il protagonista – si pone nei panni di narratore orale, usando anche varie apostrofi al lettore così come facevano i cantori antichi. La macchina da scrivere è un oggetto magico e antropomorfico. Nel capitolo XXVIII vi è una sorta di dichiarazione di poetica celatiana in cui lo scrittore afferma che è il momento a dettare le parole.
Tutto il libro mira a riprendere vecchi ricordi. Questo bisogno di non avere un rapporto con il presente, bensì con il passato, è ciò che viene chiamato poetica della lontananza. Giovanni rievoca il viaggio fatto a distanza di anni e il lettore non sa se credere fermamente a tutto ciò che sta leggendo, anche perché a volte lo stesso Giovanni è confuso. 

Il personaggio è caratterizzato da un cortocircuito fra corpo e testa, il sentimento diviene preponderante. Ci si ricollega ad un altro saggio di Celati, Dai giganti buffoni alla coscienza infelice: fino al Rinascimento, infatti, gli scrittori (viene preso in considerazione il Pantagruel di Rabelais) avevano presentato l’uomo come corpo collettivo. Non soltanto l’idea di vita e morte erano legate, ma vi erano anche espliciti riferimenti ai vizi e agli eccessi: il mangiare, il bere, il sesso. I vizi, quindi, erano volgari ed esplicitati. Agli inizi del ‘900 è Bachtin che riprende a riflettere sulle culture popolari antiche, seguito da Calvino e da Celati (i due, inoltre, avevano intenzione di fondare una rivista con Enzo Melandri, Guido Neri e Carlo Ginzburg, intitolata Alì Babà, il nome avrebbe dovuto fare da ponte con quella caverna di tesori di intellettualismo nascosti che la mutazione antropologica non ha preso in considerazione e scartato). Secondo Bachtin e Celati, il riso carnevalesco indica, nelle antiche culture, uno smembramento del sapere che riduce a frammenti caricaturali, vi è una tradizione nella quale i valori sono desacralizzati (ciò accadrà anche nel romanzo di Celati, come si vedrà più avanti).
La fine di questa cultura si dovrebbe a Cartesio e alla sua filosofia: l’io diviene unitario e, soprattutto, le emozioni e le passioni vengono controllate dalla ghiandola pineale, quasi come se il corpo fosse una macchina regolata da una valvola, i sentimenti sono tenuti sotto controllo. Viene citato anche Starobinski, quest’ultimo parla di trasfigurazione dell’artista come saltimbanco, un artista che si esibisce per far divertire, l’acrobata che si eleva sopra gli altri per violare le leggi fisiche e dimostrare un culto dell’io superiore all’inclinazione borghese. Il clown melanconico, lunare e pallido, che ricerca effetti di comicità sulla stilizzazione di aspetti melanconici come il pallore e la magrezza, diviene emblema della poesia.

La trama del Lunario è semplice e non occorre svelarla tutta: Giovanni – grazie ad una colletta fatta dagli amici – parte per la Germania per amore di una ragazza sedicenne di nome Antje, si stabilirà dalla sua famiglia e il padre di Antje lo coinvolgerà in un imbroglio surreale alla ricerca del Paradiso (non per questo la casa verrà chiamata del paradiso). La città in cui andrà Giovanni, sarà una sorta di Paese delle meraviglie e questo non è che il primo collegamento con la letteratura (e con Carroll). Giovanni è disambientato come Alice nel paese delle meraviglie e, allo stesso tempo, la figura di Giovanni è collegabile a Pinocchio, il burattino di Collodi: vi sono anche dei rimandi espliciti come la scena in cui Giovanni si trova a passare la notte in prigione oppure la definizione marionetta grama da poco che Giovanni dà di se stesso. Altri rimandi letterari citati nel testo sono quelli della tradizione romanza e di quella orale, come Le mille e una notte: Giovanni, verso la fine del libro, si trova a casa di una studentessa tedesca e si immagina di essere come Sharazade che incanta con i suoi racconti il sultano per mille notti. Altra menzione fondamentale è la passione di Giovanni per Shakespeare. Durante il romanzo, Giovanni abbandonerà per un po’ la casa del paradiso e andrà a stabilirsi da due bambine che ricordano molto i personaggi di Lewis Carroll. Si dice che abbiano otto-nove anni, ma è dura immaginarle così: sono intelligenti, vivono da sole, sono delle strozzine che rimpinzano Giovanni di torta e di tè, ma domandano in continuazione i soldi dell’affitto, segnando tutti i debiti del povero malcapitato su un quaderno; il loro obiettivo è quello di racimolare abbastanza denaro per poter andare in Italia con Giovanni. A casa delle bambine, Giovanni legge Shakespeare a ritmo di jazz (altro rimando alla cultura popolare). Un interesse particolare viene sviluppato nei confronti dell’Amleto: Giovanni sente di essere come lui, crede che Antje sia Ofelia e che la signora Schumacher – madre di Antje – sia come Gertrude.

Come già scritto sopra, Celati fa diversi rimandi alla letteratura, già nel titolo si ha un indizio: menziona la cantica dantesca.
Il personaggio di Antje si ispira ad una Beatrice moderna: l’amore per lei viene sublimato e, soprattutto, controllato dai genitori dell’adolescente che non permettono a Giovanni di stare da solo in casa con lei. Dunque a Giovanni non resta che andare a prenderla a scuola, bearsi del suo saluto e fare lunghe passeggiate in cui non esiste contatto se non quello visivo.

Giorno dopo giorno, adesso vengo a scoprire che il numero dei divieti è circa come quello d’un codice nei tribunali. Che non si può fare questo e quest’altro; e non posso tenerla a braccetto, e non posso portarla per vialetti deserti, e non posso neanche stare su una panchina a fissarla in silenzio negli occhi.
In casi del genere la piccola Antje mi richiama all’ordine, con questa domanda: cosa vuoi? O detto in inglese, che è ancora peggio: what do you want?
Ma come? Io non voglio niente, sono in un rapimento gaudioso, vorrei stare a guardarla fisso per ore, vorrei trasmutarmi in lei, succhiare la sua essenza dagli occhi; non essere più io del tutto, essere solo una parte di lei.
E mica la tocco, eh? Guardo soltanto, la disturbo no. È lei invece che mi disturba a chiedermi sul più bello: what do you want?
Per giunta la piccola mi rimprovera perché fumo, essendo cosa non decorosa quando si va a spasso. Ma io, quando stanco mi siedo su una panchina, e non ho più parole da chiederle, perché mi ha preso la voglia di fissarla in silenzio, e però neanche questo si può fare secondo lei: Cristo d’un Dio, che almeno possa farmi una fumata!

Lo stato di innamoramento è descritto mescolando riprese stilnovistiche e pulsioni elementari che lo collocano a un livello quasi animalesco. Giovanni si descrive come poeta della donna amata, un Tristano che vuol salvare la sua Isotta e poi scappare con lei, ma la dimensione corporale non manca. La ricerca stilnovista di Antje convive con la seduzione carnale della madre, vista come sirena e una Circe omerica.
Giovanni dice di trovarsi in un continente di carne mentre aspira all’elevazione, come un pendolo oscilla fra il desiderio carnale e quello spirituale. Il personaggio di Giovanni è collocabile nella sfera dei malati di malinconia: il malinconico è colui che ha all’interno l’umore nero della bile, per questo è instabile e sottoposto alle variazioni delle fasi lunari così come le fasi del romanzo caratterizzate dagli alti e bassi. La malinconia è prodotta dal cosiddetto ululo d’amore, che avviene durante i pleniluni: un vero e proprio rimando leopardiano (vedi Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, n.d.a.). La fine dell’amore comporta reazioni corporali, l’ululare è la manifestazione dell’innamorato che cerca la donna amata. 

Si è già detto, però, che Lunario del paradiso è un romanzo di formazione che viene corroso dall’interno. Non soltanto lo si nota dal desiderio di elevare l’amore contrapposto alle scene erotiche, dalla mescolanza di un linguaggio colto a uno parlato, dal corpo che primeggia sul raziocinio. Il romanzo, infatti, è anche uno sconvolgimento del viaggio dantesco. Prima di passare dall’inferno, Giovanni, un Dante allocchito, passa per il paradiso, grazie al suo Virgilio buffone: il signor Schumacher, padre di Antje. Il colonnello vuole indottrinare Giovanni, fargli credere che le lampadine siano il futuro dell’umanità. La luce ha un valore metafisico e il padre di Antje si presenta come progressista. Giovanni, giovane disambientato ribelle, non può credere a ciò che gli viene detto.
Nel capitolo XXX si ha la visione del paradiso: anche qui si troverà la desacralizzazione e l’abbassamento di qualcosa che dovrebbe essere spirituale. I due si ritrovano in un casottino, Giovanni si siede su una poltrona da dentista con lo schienale ribaltabile. Il capitano vuol convincere Giovanni che il corpo può essere trasceso e che le onde di velocità possono influenzare il cervello.

Poi tutto buio, silenzio e non vedo un accidente. Sento la sua voce nel buio che mi fa: Ciofanni, tu devi rilassarti, relax, verstanden, tu me comprends mon fils?
Oui, monsieur le capitaine! Gli faccio io, che a dire il vero non avevo compreso un bel niente. Capivo mica dove volesse andare a parare con tutta quella messinscena di tenebre.
E le tenebre si diradarono. Il capitano su un podio contornato da un cerchio di lampadine. No, due cerchi, tre cerchi, una sfera di luce e lui dentro la sfera che urlava: Ciofanni, io m’illumino! […] Tutta la sfera di luce era un bello spettacolo, va bene, non nuovo, insomma un po’ gioco da fanatico delle lampadine. Ma quando partiva tutta questa corrente intorno a lui, e lui ragliava nel fulgore: m’illumino! M’illumino! Allora nel casotto si spandeva una gran puzza di scoregge.

Mentre Schumacher ha le visioni per gioco, Giovanni vede davvero qualcosa. Si è pensato che, in quesa scena, Celati volesse ricollegarsi alla sballatura data dalle droghe: E nello spazio enorme spuntavano scie e onde che andavano su e venivano giù; sinusoidi che salgono su un riflesso rosa e scendono su uno violetto, poi stirandosi in striscie che corrono e adesso si inseguono come matte; dal giallo diventato rosso, inseguito dal blu che lo acchiappa intanto che arriva il verde e li supera, raggiunto dal bianco che va fortissimo e ci resta solo lui a far le onde. […] Piombato nello spazio enorme, viaggiavo fuori di me alla velocità della luce su un tappeto volante (rimando alla fiaba di Aladino; n.d.a.); ma direi tappeto volante con un imbuto, da dove scivolano giù ometti col cilindro e damine col velo.
Sapete gli sposini di gesso sulle torte di nozze? Figurine così scivolavano via nel buio della notte si perdevano sotto di me per strada mentre il tappeto va.
E come andava, vi assicuro, quel tappeto nella notte di stelle! Potrei imbrogliarvi con l’incanto delle parole, ma un cielo così mi piace troppo raccontarlo. Bianche e rosse strisce di corrente che fuggono via da un lato all’altro in linea retta, poi in alto un rettangolo di cielo tutto pieno di stelle.
Volandoci in mezzo adesso forse lo riconoscete anche voi cos’è questo cielo striato, le strisce bianche e rosse, il rettangolo di stelle su in alto. Un’emozione che mi è venuta! Ragliavo come il sergente sulla sedia da dentista: m’illumino! […] Capitano, gli ho detto, secondo me è l’America il paradiso.

La visione di Giovanni è sovrapposizione di due realtà: il desiderio del fidanzamento con Antje e il desiderio di una nuova fuga, verso l’America, paese di desideri realizzati, visione tipica di un giovane degli anni ’70.
Dopo il paradiso, però, è l’inferno che bisogna visitare e sarà sempre il capitano Schumacher, il Virgilio buffone, a condurre Giovanni. Dopo qualche capitolo, infatti, Giovanni rincontra il padre di Antje.

Andiamo subito in un locale notturno, e qui vi racconto che posto era. Era un posto per cavalli, sì, cavalli. Noi seduti a un tavolo beviamo birra, e ci danno dei bicchieroni supplementari con ettolitri di birra da offrire ai cavalli.

Dal locale dei cavalli, si passa ad un altro locale: C’era una cosa tutta nera in mezzo al locale. Su una pedana c’era una cosa spampanata; un mucchio di roba che mi sembrava merda, se devo dirvi la verità. Altro spettacolo per crucchi invasati, mi dico, che vengono qua per divertirsi a guardare un mucchio di merda. […] E la montagna di merda a poco a poco si sciolse. Ne emersero due figure di donna, la merda si rivelò fango, e le figure di donna amazzoni lottatrici. Genere catch, sapete, lottavano nel fango; spettacolo ancora più sensazionale di quello dei cavalli mazurca.

Dopo le visioni, dunque, si ha la fisicità: Giovanni viene portato in un bordello. Il capitan Schumacher vuole fargli vedere le due facce di vita borghese e vuole far credere a Giovanni che la realtà è fatta di sogni, la realtà è un sogno, non sono i sogni ad essere la realtà come pensa Giovanni. Uno dei tanti rimandi fiabeschi lo si trova quando Giovanni cerca il suo zaino sotto i tavoli e vede una scarpetta che ricorda, ovviamente, quella della fiaba di Cenerentola. Il passare sotto ai tavoli indica l’abbassamento reale e comico che provoca angoscia.

Casco, mi attacco a un altro tavolo. Viene giù il mondo, lampade, bicchieri, tovaglia; e Giovanni cade in un pozzo di sogni perduti, che mi ricordo bene com’era l’impressione! Ah, non voglio caderci in quel buco tremendo senza sogni!

È qui che ritroviamo il disambientamento di Alice: Giovanni capisce che il mondo è una trappola dove si cade e ci si perde anche se tutti i luoghi sono collegati fra loro. Celati svuota Giovanni di interiorità, rappresenta i gesti del corpo che reagiscono a stimoli esterni o impulsi interni dell’immaginazione. Il suo personaggio incarna la variabilità, l’instabilità e il bisogno di fuga come i giovani studenti che si ribellano al sistema negli anni ’70.

Alla fine del romanzo, non si può parlare di un vero e proprio finale poiché Celati, come Carroll, potrebbe fare proseguire le avventure di Giovanni all’infinito. Come nella storia di Alice in Wonderland, Giovanni è un personaggio che non raggiunge nessuna evoluzione, procedendo per schemi laterali.
Il narratore immagina se stesso addormentato sul treno (non cito la destinazione!) e si sta per assopire anche lui quando percepirà quello che lui chiama il vaglio critico, una sorta di grillo parlante che vuol giudicare. Ma la vita non può essere giudicata: Dateci un taglio con la vostra solfa boriosa! Tutto succede come succede, e il resto non conta un fico; la vita è una cosa che succede, non si sa cosa sia, è soltanto uno stato della mente.

È questo ciò che Celati vuole trasmettere al lettore: la sua operazione letteraria è vista come un tentativo di lasciare aperta la scrittura all’aria che proviene dalla vita stessa. Giovanni è un personaggio che non ricerca le cause in ogni sua azione, che è convinto che sia l’ambiente esterno – i segni del cielo – a far accadere tutto. La libertà di Giovanni combacia con la tecnica stilistica di Celati: una scrittura libera, fluida, orale, che permette all’immaginazione di andare oltre i limiti imposti dalla società.

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