Maggie Nelson, Bluets

Dall’altra parte dell’Atlantico, un’amica che non ho (ancora) mai incontrato ha fatto firmare una copia di Bluets e me l’ha spedita. Non so se fosse voluto, ma anche l’imballaggio con cui mi è arrivato era blu. Tutto è nato dopo che ho scritto questo articolo, nel quale non avevo approfondito molto la mostra su Chagall, ma certamente avevo raccontato di averlo guardato. Anche piuttosto intensamente. Il blu è un colore che si lascia guardare. In quella mostra, ce n’erano di tre tipi: «uno da profezia, uno da incontro e infine uno da sospiri. Il blu di Chagall forse, quindi, è il colore dell’attesa», scrivevo. Charity ha pensato che Bluets, a questo punto, potesse essere importante, anche perché incontra la mia predilezione per quella forma di saggio che si mischia con la forma o il ritmo poetico scelta anche da Anne Carson, altro mio innamoramento di quel periodo. E quindi me ne ha fatta autografare una copia dall’autrice e me l’ha spedita.

Si tratta di un «tiny, intense book», composto da 240 frammenti che variano dall’annotazione veloce − a volte solo quattro parole − alla rievocazione, tra memoria personale, filosofia, nozionismo, biologia, sentimenti, impressioni, pomeriggi di sole con teli blu che ondeggiano sul palazzo di fronte. C’è anche molto fucking, come lo chiama lei, che è stata una cosa un po’ inaspettata, ma che rientra nel novero delle cose belle, quindi tutto bene.

 1. Suppose I were to begin by saying that I had fallen in love with a color.

63. Generally speaking I do not hunt blue things down, nor do I pay for them. The blue things I treasure are gifts, or surprises in the landscape.

l'autrice

l’autrice

La Nelson è chiarissima: non scrivetemi di altre cose blu, non chiedetemi «why blue» (perché proprio il blu) perché l’unica cosa che potrei rispondervi è che non scegliamo di chi o cosa innamorarci, «we just don’t get to choose». Tanti, prima di lei, insieme a lei, vicini a lei, lontani da lei, si sono innamorati del blu:  Mallarmé, Leonard Cohen, Cézanne; altrettanti lo hanno studiato con metodo o con curiosità e approssimazione, come Goethe. Si potrebbe anche partire a cercare tutti i blu del mondo, per esempio quelli che ci sono nella cattedrale di Chartres, l’Isola di Skye, le miniere di lapislazzuli in Afghanistan, la cappella degli Scrovegni, la città marocchina di Chefchaouen, una laguna a Creta, ma nessuno ha ancora risposto alla richiesta di finanziamento per queste spedizioni, confessa la Nelson.
Il blu appartiene alle cose e le rende amabili. Allo stesso tempo, la maggior parte delle cose che amiamo cadono e decadono e ci abbandonano. Il blu è allora il colore della mancanza? Anche. Ma soprattutto «is a secret language that calls to you and buoys you».
Allora di cosa parla, questo libro? «Bluets was more about grappling with a painful solitude. Or maybe another way of saying it, Bluets was about grappling with one’s relation to oneself, which the painful absence of a beloved can make alarmingly possible» dice la Nelson. Il blu non serve a classificare delle cose belle − «non dirò mai “questa cosa x è bella”, perché questo tipo di considerazioni ammazzano la bellezza» chiarisce subito.  Il blu è un modo per raccogliere tutte le cose che hanno significato agli occhi e a tutto quello che sta dietro a questi (agli occhi e ai blu) e farle tornare piene di significati. Sono cose parlanti. Per questo diventano raccontabili, anche agli altri. Perché «relate also means to connect. To be connected».

29. If color cannot cure, can it at least incite hope? The blue collage you sent me so long ago from Africa, for example, made me hopeful. But not, to be honest, because of its blues.

Il blu si trova anche nell’amica immobilizzata da un incidente. Ridotta a quasi niente, a essere «a pebble in the water», come dicono i medici, l’unica cosa che riesce a muovere sono i suoi occhi azzurrissimi. Col tempo, anche i suoi piedi sempre a riposo forzato assumono una sfumatura azzurrina. Tetraplegia e danneggiamento della colonna vertebrale e midollo spinale. La Nelson la veste, la sistema, le tiene compagnia, facendo tutto questo però le causa anche dolore — fisico, s’intende. Di riflesso, lei lo sente da qualche parte. Ma, col tempo, l’«injured friend» scopre di avere ancora uno spazio d’azione: grazie alle parole. E, se funziona per lei, forse può funzionare anche per noi, forse anche per la Nelson, che dice: «That book is a souvenir from a very dark time — a time that was not without its beauty, in a strobing, soul-touching kind of a way, but nonetheless, pretty fucking dark. That the book emerged from that place and found so many readers has never ceased to feel miraculous and gratifying to me».

237. In any case, I am no longer counting the days.

C’è di mezzo, come in tutte le cose, anche l’amore. Il vuoto che lascia, per la precisione. E in questo vuoto la Nelson comincia a lavorare per sé, che è quello che è rimasto indietro a fare i conti con quel vuoto, soprattutto dopo che ha scritto una lunga lettera al suo amante e lui le confessa di averla portata con sé, ancora sigillata, per mesi e mesi, ovunque andasse, come una specie di talismano. Non era questo l’intento, ci dice la Nelson. Io ti ho scritto perché avevo qualcosa da dirti.

Bluets è costellato di perdite. Ma anche di scoperte. Spesso, per fortuna, le due cose si accompagnano:

238. I want you to know, if you ever read this, there was a time when I would rather have had you by my side than any one of these words; I would rather have had you by my side than all the blue in the world.

239. But now you are talking as if love were a consolation. Simone Weil warned otherwise. “Love in not consolation,” she wrote. “It is light.”

240. All right then, let my try to rephrase. When I was alive, I aimed to be a student not of longing but of light.

Un’analisi approfonditissima è qui, ed è fatta da Thomas Larson: Now, Where Was I?: On Maggie Nelson’s Bluets.
L’immagine in evidenza è tratta da qui. Tutti i diritti sono riservati.

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