Marina prima di Ulay #1: la serie ritmica e Thomas Lips

È abbastanza difficile, se non impossibile, trovare online delle fotografie che ritraggano Marina Abramović da giovane, soprattutto non durante le sue performance. Vederne invece riprodotte in grande quantità nel libro Quando Marina Abramović morirà, di James Westcott, mi ha permesso di scoprire una Marina inedita: bambina con i fiocchi nei capelli, studentessa con gli occhiali, con le parrucche, in costume da bagno, già bellissima. Il fascino che ha sempre esercitato su di me e che era già stato pungolato dall’annunciato documentario che uscirà a ottobre si è risvegliato completamente.
Probabilmente è ora, mi sono detta, di arricchire un articolo che ho scritto e pubblicato ormai quasi quattro anni fa, dedicato al duo di performer forse più famoso di sempre, Marina Abramović e Ulay. La produzione di Marina, infatti, si può dividere in tre periodi, che corrispondono ad altrettanti momenti biografici ed esistenziali: prima, con e dopo Ulay. Il periodo che precede il loro incontro è caratterizzato, per entrambi, da un’esplorazione quasi morbosa dell’identità − di genere per Ulay, che con la sua Polaroid setacciava Amsterdam e se stesso, radicale per Marina, intesa come “delle proprie radici”: «I miei primi lavori erano basati sul dolore, erano davvero drastici. Se non avessi incontrato Ulay, [quei lavori ]avrebbero distrutto il mio corpo. Ero fatalista e sempre più distruttiva»¹.
Di queste prime opere già al limite, realizzate nel giro di tre anni, parla questa prima parte di Marina prima di Ulay, presentando la serie Rhythm e l’eccezionale (perché fuori da ogni norma) Thomas Lips. Prima di tutto, però: da dove veniva, questa Marina Abramović?

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i “Six Artists” o “Gruppo 70”

I genitori di Marina sono montenegrini ed eroi della repubblica socialista di Tito. Danica è ancora una studentessa di medicina quando decide di unirsi ai partigiani jugoslavi, esercitando come infermiera, e poi direttrice del Museo della Rivoluzione e dell’Arte a Belgrado, mentre Vojo ha combattuto con la prima brigata proletaria e, dopo la salita al potere di Tito, ne diventa il comandante in capo fino agli anni Cinquanta, quando si dedica completamente all’esercito. Il comunismo balcanico, con la sua durezza estetica ed etica, e i doveri che i genitori nutrivano nei confronti della politica influenzarono fortemente il carattere e la formazione di Marina, che crebbe, nei primi anni, soprattutto con la nonna materna Milica Rosić, profondamente religiosa (il fratello del marito era Varnava, patriarca della Chiesa ortodossa, ucciso con tutti i suoi fratelli in una congiura e vicino, negli ultimi anni, alla Germania nazista) e amante della casa e della cucina. C’è un aneddoto, in particolare, che le riguarda e che riporta Westcott:

«Una volta Milica dovette fare un tragitto più lungo e per qualche ragione non poté portare la piccola con sé. Poiché non c’era nessuno che badasse a lei, Milica mise Marina seduta al tavolo con un bicchiere d’acqua e le raccomandò di non muoversi assicurandole che sarebbe tornata presto. Al suo rientro, due ore dopo, trovò la nipote seduta nella stessa identica posizione e il bicchiere intatto.» (p. 30)² 

La grande forza di volontà di Marina comincia già a manifestarsi: gran parte delle sue performance saranno dedicate proprio all’esplorazione dell’autocontrollo, sviluppato come resistenza passiva e concentrazione spinta fino al limite, per tutta la durata della propria carriera,  da Rhythm 0 (1975) alla più recente The Artist is Present (2010).

La fantasia e la propensione all’arte che Marina manifesta sin da piccola trovano, almeno all’inizio, l’appoggio di Danica, che la porta con sé nei giri di visita agli atelier (in particolare quello della scultrice Vida Jocić, che aiutò anche Marina nei compiti di scuola), e, dai dodici anni poi, addirittura alla Biennale di Venezia. Nel 1965, Marina viene ammessa all’Accademia di Belle Arti di Belgrado; sono anni intensi per gli studenti di tutta Europa e Marina non è da meno: si unisce alle proteste e alle manifestazioni, soffrendo dell’ambigua politica di Tito. Questo non la distoglie dai propri impegni, anzi porta avanti la pratica della pittura diplomandosi con 9,25/10  e con una produzione fatta soprattutto di nudi, ritratti cupi, ma soprattutto nuvole.
Si lega in particolare ad alcuni suoi colleghi, Raša TodosijevićGera UrkomNesa Paripović (con cui Marina sarà sposata dal 1971 al ’76 − il primo a destra nella fotografia qui sopra) e Zoran Popović, a cui si aggiunse anche Era Milivojević, con cui forma il “Gruppo dei sei” o “Gruppo 70” (dall’anno in cui strinsero i rapporti). Pur studiando assieme e influenzandosi nella ricerca di nuovi modi espressivi, sempre più distanti dall’arte di regime che veniva apprezzata e incoraggiata in Jugoslavia, i sei raramente lavorarono allo stesso pezzo: questo permise a Marina di sviluppare un proprio linguaggio, strettamente legato alla persona che stava diventando.
Se infatti godeva di una certa reputazione, forse complice anche il nome della madre, come pittrice, ogni volta che provò a suggerire altre forme di espressione si vide rifiutare i progetti. Già nel ’69 propose alla Dom omladine (il “Centro giovani” di Belgrado) una performance, Come Wash With Me, in cui avrebbe trasformato una delle sale in una sorta di lavanderia: avrebbe fatto spogliare i visitatori, avrebbe lavato, asciugato i loro vestiti e poi li avrebbe restituiti − probabilmente influenzata dall’ossessione per la pulizia che Danica manifestò per tutta la vita, quello del lavare è un tema che ritorna nelle opere della Abramović, come Cleaning the Mirror #1 (1995) o Balkan Baroque (1997), che le valse il Leone d’oro come miglior artista alla Biennale di Venezia.
Lentamente, il suo interesse si muove verso dei lavori più immateriali, fatti soprattutto di installazioni sonore che alternativamente coinvolgevano ed estraniavano il pubblico, che cominciava a essere totalmente in balia della persona, oltre che dell’artista, Marina Abramović.

marina-abramovic-preformance-rhythm10-bÈ verso la fine del 1972 che si presenta la prima grande occasione per Marina: Richard Demarco, curatore e gallerista scozzese, sta reclutando giovani artisti, specialmente dell’Est Europa, per un festival a Edimburgo. Marina e Zoran decidono di partire e si ritrovano catapultati in una realtà prolifica, che contava anche Joseph Beuys, per intenderci. La performance scelta da Marina fu quella poi conosciuta come Rhythm 10: un grande foglio di carta bianca, a due estremità opposte due registratori, al centro lei, con dieci coltelli a disposizione. Ne prende uno e comincia a conficcarlo nello spazio tra le dita, sostituendolo con un altro non appena si ferisce. Dopo dieci tagli e dopo aver usato tutti i coltelli, ferma il primo registratore e riascolta il nastro, cercando questa volta di colpirsi nello stesso esatto momento in cui si era ferita la prima volta, mentre il secondo registratore è in funzione: «con una concentrazione formidabile, riuscì a trasformare i dolori errori della prima sequenza in un rigoroso programma per la seconda» (p. 77)². Oltre a essere la prima vera esibizione di fronte a un pubblico, Rhythm 10 è importante perché «è con quest’opera che ho capito che ero diventata una perfomer artist. Era un pezzo che richiedeva tanto, fisicamente e mentalmente, ma ho finalmente capito cosa si intendesse con “energia”»³.

aguggenheimig_10313463815-1xss5nlNel 1974, durante un’edizione dell’April Meeting che organizzava l’SKC di Belgrado, con Beuys proprio come ospite d’onore, Marina decise di esibirsi in Rhythm 5. Crea una stella a cinque punte di legno, la riempie di trucioli e le dà fuoco, si taglia unghie e capelli e li getta tra le fiamme, superandole poi per andarsi a sdraiare proprio al centro.  Trascorso un tempo indefinibile, il pubblico si accorse che la sua immobilità non era data dalla concentrazione: Marina aveva infatti perso i sensi per mancanza di ossigeno, e fu tratta in salvo.  La performance, che per molti spettatori risultò estrema fisicamente e ideologicamente (tutti avevano pensato alla stella comunista), era in realtà soprattutto un rito di purificazione e di passaggio, che metteva al centro la figura dell’artista.
L’anno continuò in modo prolifico: a ottobre presentò Rhythm 2 al Museo di arte contemporanea di Zagabria, città in cui stava proseguendo gli studi: evolvendo la perdita di controllo che in Rhythm 5 era stata causata dallo svenimento, questa volta Marina si procurò due pillole, una stimolante (usata con i pazienti catatonici) e una con effetti sedativi (usata con gli schizofrenici). 9fa2d1544899ed5dd92485c927006a49_fullCi vollero quasi sei ore perché l’effetto delle pillole, prese in sequenza di fronte al pubblico, svanisse del tutto: di nuovo, il dolore autoinferto portava l’artista al di fuori del proprio controllo, che tuttavia portava a compimento la prova.   Verso la fine dell’anno, alla galleria Diagramma di Milano mise in scena Rhythm 4. Completamente nuda e sola in una stanza, china su un ventilatore industriale, cercava di riempirsi di aria i polmoni fino a scoppiare − o, di nuovo, svenire. Il pubblico assisteva all’esibizione in uno spazio separato, grazie alle ripresa in contemporanea: poteva assistere al dolore e allo sfinimento, ma, di nuovo, non poteva farci nulla.

La Body Art stava diventando, non solo per Marina, il modo più efficace per concretizzare l’Arte concettuale, che in quel momento la faceva da padrone: il sangue e la paura, lo sguardo concentrato e le gocce di sudore mettevano in scena e rendevano accessibile un processo mentale. Per Marina Abramovic, in particolare, significava dare finalmente spazio e tempo a dei traumi: la mancanza di amore sfociava in un amore smodato per il proprio pubblico, per il quale era pronta a soffrire, a ferirsi e a immolarsi − per dimostrare che erano ancora vivi:

Non volevo morire, non mi interessa il morire. Mi interessa fino a dove puoi spingere l’energia del corpo umano, fino a dove si riesce ad arrivare – e vedere così che la nostra energia non ha limiti.

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L’inizio del 1975 significa Rhythm 0. Per sei ore, l’esibizione è nelle mani del pubblico: per tutto questo tempo Marina rimane completamente immobile e passiva, mentre i visitatori possono scegliere se usare qualcuno tra i settantadue oggetti messi loro a disposizione su un tavolo (una forchetta, del profumo, dello zucchero, una campana, catene, del miele, una sega, una macchina Polaroid, del rosmarino, uno specchio, perfino una pistola con un proiettile) su cui campeggia la scritta «I am an object» − sono un oggetto. Le rovesciano un bicchiere d’acqua in testa, la spogliano e spostano, le fanno indossare una bombetta, le spargono petali sul viso, qualcuno la bacia e qualcuno le asciuga le lacrime, e inevitabilmente le puntano anche la pistola contro. «Prima di allora, il perfomer era considerato esibizionista e masochista, oltre che ridicolo. Ero stanca di queste critiche, quindi mi sono detta: ok, farò un pezzo in cui si possa vedere fino a dove può spingersi il pubblico, perché l’artista non farà nulla. Volevo correre il rischio: volevo sapere what is the public about»⁴. Resistette immobile e apparentemente indifferente per l’intera performance, che finì verso le due di notte: «in quel momento cominciai a muovermi, tornai a essere me stessa, e scapparono tutti. Non potevano più confrontarmi. Ricordo di essere arrivata in hotel e di essermi guardata allo specchio: un’enorme ciocca di capelli era diventata completamente bianca»⁴ . 

tumblr_msrkfzni3w1shkqr7o1_400Il ’75 continua con Thomas Lips, performance inizialmente dedicata all’omonimo signore svizzero con cui aveva avuto un affair, e avrebbe dovuto essere «una dimostrazione, una supplica, un gioco e un’offerta a Lips» (p. 93)², ma che si trasformò, invece, nell’opera più violenta e straziante eseguita fino ad allora. Nuda, seduta a un tavolo, mangia un chilo di miele e beve un litro di vino rosso, rompendo il calice con  la mano. Disegna un pentacolo capovolto con al centro una fotografia appesa al muro che ritrae Thomas Lips. Prende un rasoio e si incide un altro pentacolo, questa volta sullo stomaco, tenendo come centro l’ombelico. Si prostra davanti alla fotografia. Si dirige sul davanti della scena, si inginocchia e flagella con una frusta. Si stende su una serie di blocchi di ghiaccio disposti a forma di croce, mentre una stufa elettrica appesa sopra di lei impedisce al sangue di coagularsi. Dopo mezz’ora la performer Valie EXPORT non ce la fa più: chiede l’aiuto dei presenti per togliere Marina da quel supplizio e portarla in ospedale.  Il pezzo, che verrà inscenato di nuovo nel 1993 e nel 2005, era diventato un’aggressione senza sconti al proprio corpo e alle proprie radici: il vino rosso rimandava all’eucarestia, la stella al comunismo, i tagli erano particolarmente pericolosi perché Marina soffriva di emofilia. Da questo momento di protratto svilimento e annullamento il pubblico aveva deciso di salvarla: l’amore era ricambiato.

Per la prima volta, non ho provato discomfort. Nelle performance, io diventavo soggetto e oggetto e potevo spostare i limiti grazie alla presenza del pubblico, molto più di quanto avrei mai potuto fare in privato.³

[continua]

¹ Da un’intervista a M.A. e Ulay di Helena Kontova, apparsa su Flash Art n°80-81, 1978
²James Westcott, Quando Marina Abramović morirà, traduzione di Irene Inserra e Marcella Mancini, Johan & Levi, 2011
³ Versione audio che accompagna The Artist is Present. L’estratto relativo a Rhythm 10 è ascoltabile qui.
Marina Abramović su Rhythm 0 – MAI on Vimeo

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