Martine, Fouad e Raymond. Il tempo del respiro

In cosa convergono quest’anno Cremona e Parigi? Una particolare attenzione per la fotografia e l’approccio a una delle mostre più tradizionali in questo ambito: il titanico patrimonio dell’archivio dell’Agenzia MAGNUM.

Cremona ha messo in evidenza il valore antropologico e etnologico della ricerca di alcuni membri del gruppo che attraverso il viaggio hanno sorretto il bisogno di pensare ad un oltre: oltre la paura, la guerra, la morte, la censura della prima metà del XX secolo europeo. Un al di là esotico nel suo ignoto per noi che sotto il trauma della violenza vivevamo una depressione finemente mascherata da fizzanti ‘anni folli’ e nuovi exploit economici; esotici per noi che ancora non c’eravamo e che ci sbilanciamo su fondamenta incerte, su un passato collettivo ricostruito, studiato, ma molto spesso non compreso, dimenticato perché non raccontato; il diritto all’oblio che ha lasciato un vuoto in quelle radici che, forse, non ci rendiamo nemmeno conto di (non) avere. Un al di là estetico e etico, uno spazio di fantasia per un Occidente che si centra sul proprio modello di sviluppo. Conoscere i popoli che avremmo colonizzato attraverso delle immagini paradigmatiche, essenzialmente legate alla ritualità, al folklore, ai costumi, per vedere, ma anche per confermare luoghi comuni pacificati nella bellezza delle proporzioni e nelle poesie atmosferiche che contestualizzano i soggetti in India, in Africa e nelle zone più esposte al riverbero eclatante di una natura ancora dominante. Operazioni non solo artistiche in senso puro, anche culturalmente calibrate. In sintesi, parafrasando Claude Levy-Strauss, potremmo dimostrare non come gli uomini pensano nei miti, ma come i miti operano nelle menti degli uomini senza che loro siano informati di questo fatto.

afficheA Parigi, invece, la città si è generosamente resa criterio per illustrare le origini dell’Agenzia e dare spazio alle opere di tutti i fotografi che la compongono; sin da principio è Parigi in effetti il nucleo del vulcano. Sede della fondazione, della residenza e dell’elaborazione della comunità di pensiero composta da questi professionisti – e amici tra loro, non solo colleghi – che, magneticamente tornavano al centro, attratti dalla sua anima, dopo essersi mossi e spostati in tutte le direzioni verso la periferia nazionale e internazionale, capillarmente, rinnovando l’ispirazione artistica per via di queste esperienze d’esplorazione mistiche, rischiose, avventurose, spesso fino alla fine della loro stessa vita. L’esistenza votata alla fotografia e viceversa. Parigi durante la guerra, durante le proteste sindacali, all’epoca del Fronte Popolare; Parigi e la sua architettura (come la Piscine Deligny che oggi non esiste più), Parigi e i suoi cittadini, i locali chic, i punti di luce, i punti di fuga e le curve da sogno.

Henri Cartier-Bresson, Piscine Deligny, Paris, 1955

Henri Cartier-Bresson, Piscine Deligny, Paris, 1955

Potremo non conoscere tutti questi maghi dell’inquadratura, uno a uno intendo, ma sicuramente tutti abbiamo sentito parlare di Henri Cartier-Bresson. Il genio, il leader, il faro.

Impossibile non pensarlo a scattare foto, dietro alla macchina fotografica, ma lo avete mai immaginato davanti? Sembra quasi blasfema questa inversione di “ruoli”, anche solo per gioco.

Invece, qualcuno è riuscito a immortalarlo, letteralmente, a fissarlo in una immagine, nella sua dimensione umana, mortale, un uomo e il suo profilo, i suoi contorni, nella veste incarnata, soggetto che appare e non più unicamente sommo autore e selezionatore della “giusta” apparenza. È stata dura convincerlo e solo una persona poteva riuscirci usando l’arma dell’amore e della tenerezza, Martine Franck.

Martine Franck

Entrata a far parte di MAGNUM nel 1983, Martine Franck è la fotografa dell’identità. Dei volti, delle persone dentro-dietro-prima-durante le maschere. È la fotografa dei grandi intellettuali e dell’attualità spirituale. Con discrezione naturale, nelle sue fotografie emerge l’intimità, distinzione, eleganza e la profondità di un vis-à-vis. Durante manifestazioni o spettacoli, viaggi o nell’atelier di grandi artisti come dietro alle quinte di qualche scena di circo, Martine coglie e restituisce in un istante il ritratto della complessità della creazione. Lei è la grande realista dell’umanesimo. Fondatrice della Fondazione Henri Cartier-Bresson, fotografa e curatrice di eventi dallo sguardo attento, passionale al contempo sereno, ha trasformato questa istituzione in uno dei più grandi centri di fotografia del mondo. Nata ad Anversa, cresciuta tra gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Svizzera è arrivata a Parigi a vent’anni per intraprendere studi artistici, teatrali eminentemente, affascinata dall’Oriente, sarà alla Sorbona che incontrerà Ariane Mnouchkine, un’amicizia che le porterà lontano, precisamente uno sconfinamento favoloso in Afghanistan, India, Cina, Giappone. Due amiche, insieme alle loro macchine fotografiche; Martine al collo sfoggiava una Leika. Timida ma coraggiosa, ardente e empatica la descriverà così la giornalista Annick Cojean. Perché le importano le persone, al punto che arrivò un momento di crisi: come sopportare tutto il dolore e la brutalità delle sofferenze incontrate? Con pietà, forse, non farle entrare nella foto. «La mia scelta, sempre, furono le persone». Cerca i loro sguardi, poi le mani, poi le loro rughe increspate, cioè a dire i loro segreti, gli slanci. Il corpo umano diventa il paesaggio; già molto sapremo del contesto senza quasi avere bisogno di conferme visive, sapremo del tempo e delle condizioni e delle trame che abitano  e che hanno forgiato quelle fisionomie.

Eppure, spesso, il tempo è sospeso in una sommossa letteraria: la fotografia evoca sogni, illusioni, mondi fatati estrapolati dalla quotidianità e della sue difficoltà, dai suoi punti di morte. Pudica e innamorata… di Cartier-Bresson, complicità e ammirazione li univa. Lo si capisce da quella foto dove lui sta davanti all’obiettivo (cerca di sfuggire – l’escamotage: di spalle, infine si triplica). Lui l’obiettivo e lei a metterlo a fuoco. Una foto è sempre una relazione sentimentale.

henriSe parliamo di viaggio in tutte le sue accezioni, dal viaggio metaforico a quello iniziatico a quello che esplora ogni particella della realtà, perché ogni particella, ogni arrangiamento delle cose ha una sua storia allora facciamo una piccola divagazione rispetto a MAGNUM ma parliamo sempre di un fotografo parigino.

Fouad Elkoury. Nato a Parigi nel 1952, vive attualmente tra la capitale francese e Beirut, dove è ambientato il suo primo réportage fotografico che racconta la vita in Libano durante la guerra civile e sempre lì, nel 1997, ha creato la Fondazione Araba per l’immagine. L’approccio e il proposito di Elkoury sono concreti, materici, solidi come la roccia e ci suggerisce senza posa che la fotografia è un viaggio. La fotografia è anche un mestiere, una competenza, e la pratica è questo viaggio, percorso di formazione, un cammino verso la conoscenza di sé e del mondo intero. Quando si immagina la fotografia come mezzo per reperirsi in un universo popolato da personaggi che sono divertenti, curiosi ma anche gravi e seri – insomma, non idealizzati, incarnati – allora ci si rende conto che il quadro principale della guerra non è compatibile con la fotografia. Parlare con le persone immerse nell’ambiente, socializzare, fraternizzare con i soggetti delle fotografie, è un tipo di amicizia che aiuta il processo artistico e che rende difficile accettare la verità perché non c’è quella distanza illusoria della prospettiva. Così, Elkoury confessa di aver lasciato che le immagini arrivassero a lui spontaneamente, non si è preoccupato della loro pertinenza né della coerenza, rimettendo a dei giorni più calmi lo scrupolo di ricostruire un senso e osare la sintesi di qualche significato. La fotografia è in questo caso contatto con l’incandescente, non solo della crudeltà dei destini immersi nei conflitti senza regole, ma anche nella casualità delle immagini e delle relative percezioni che i nostri occhi tesaurizzano in ogni istante a tutto campo.

fouad«Per me la fotografia è un mezzo con cui suggerire, con cui creare del sogno. È una fresa in rotazione, un Boeing 747 che attraversa l’autostrada prima di prendere il volo, dei tergicristallo in funzione, la poppa di una nave che beccheggia alla luce di un riverbero, un cassonetto che macina rifiuti nella notte, un camion postale atteso in aperta campagna, un mantello di visone che si tiene in equilibrio su di un filo nel mezzo degli alberi, una silhouette che gira l’angolo di una via prima di svanire… Più che una evocazione è una maniera di proiettare una visione inabituale del mondo, che al di là del visibile, induce l’immaginario.»

L’erranza non è né il viaggio né la passeggiata ma questa esperienza del mondo che rinvia a una questione essenziale: cosa ci faccio là? Perché qui piuttosto che altrove? Come vivere il più a lungo possibile nel presente, ovvero felice? Come guardarsi, accettarsi? Chi sono, cosa voglio, qual è il mio sguardo?

L’erranza non è né il viaggio né la passeggiata ma questa esperienza del mondo che rinvia a una questione essenziale: cosa ci faccio là? Perché qui piuttosto che altrove? Come vivere il più a lungo possibile nel presente, ovvero felice? Come guardarsi, accettarsi? Chi sono, cosa voglio, qual è il mio sguardo?

Riassumere il concetto con un termine che sembra una dissonanza e che sento profondamente intenso: erranze. Chi è l’aura dell’erranza ermetica se non Raymond Depardon? «L’avventura dell’erranza mi ha permesso di vivere nel presente e di starci abbastanza bene.» depardon1Associato a MAGNUM dal 1979, Depardon è fotoreporter e cineasta di fama mondiale. Nelle sue pellicole, come nei suoi scatti, spesso, i protagonisti sono il silenzio, il deserto, il riserbo, quasi eremitici, anzi religiosi – se non fossero così scabrosi. La fotografia è l’arte del respiro. Nel tempo di un respiro vivi e rivivi. Cosa vedi, cosa intendi, cosa sai, cosa dici quando penserai di essere pronto?

«La fotografia non è la mia memoria. Ma rifiuto di percorrere il mondo per placare questo bisogno ossessivo, quasi nevrotico, che abbiamo noi fotografi, di fissare, catturare la storia degli esseri viventi e riempire sistematicamente le nostre fotografie di figuranti, abitanti della Terra, come se fossimo responsabili di rassicurare il pianeta che tutto va bene e che è ben popolato di individui.»

Da dove viene questa paura del vuoto?

Dalla scienza fotografica risuonano quelle domande che scavano proprio in quel vuoto, senza canoni, quello da attraversare, per arrivare a casa.

—————

*Esposizione PARIS MAGNUM. La capitale vista dai più grandi fotoreporter – presso Hôtel de Ville di Parigi. Salle Saint-Jean. Dal 12 dicembre 2014 al 25 aprile 2015.

PICCOLA BIBLIOTECA

Martine Franck, Photo Poche, Actes Sud, Paris 2007

Fouad Elkoury, La Sagesse du Photographe, L’œil nef, Paris, 2004

Raymond Depardon, Errance, Points, Seuil, Paris, 2000

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.