Via Scarlatti, di Vittorio Sereni

Con non altri che te
è il colloquio.

Non lunga tra due golfi di clamore
va, tutte case, la via;
ma l’apre d’un tratto uno squarcio
ove irrompono sparuti
monelli e forse il sole a primavera.
Adesso dentro lei par sempre sera.
Oltre anche più s’abbuia,
è cenere e fumo la via.
Ma i volti i volti non so dire:
ombra più ombra di fatica e d’ira.
A quella pena irride
uno scatto di tacchi adolescenti,
l’improvviso sgolarsi d’un duetto
d’opera a un accorso capannello.

E qui t’aspetto.

Per questo esperimento di lettura condiviso – che è ciò che vorrei fosse questa rubrica d’ora in poi – non sapevo da dove partire. Quale poeta, quale testo? Scelta non facile, perché collocata tra la libertà assoluta di uno stimolo che viene da me solo e la dimensione collettiva dello spazio in cui è proposta. Poi mi sono detto che quando non si sa da dove partire, è bene nel dubbio partire da casa. Così ho scelto questa poesia di Vittorio Sereni – poesia tanto conosciuta da rendere la selezione un po’ banale, ma tant’è – che (mi) dice casa in più modi. Per me è un componimento “domestico” perché di un autore, Sereni, su cui sto lavorando in questo periodo e mi sono dunque detto: perché non partire da dove mi trovo in questo momento, da una voce con cui il dialogo è tanto serrato? Ma Via Scarlatti dice casa anche perché la casa – quella nell’omonima via milanese in cui la famiglia Sereni si trasferì nel 1945 – è il luogo e il tema del componimento stesso. E sulle case – sulla casa – credo che tanti come me avrebbero tanto di cui parlare, in un’età come questa in cui si abita veramente solo il trasloco, più che l’appartamento – ora questo, ora quello – nel quale si fa.

Via Scarlatti, che nella sistemazione definitiva apre la raccolta Gli strumenti umani, è una poesia scritta sul finire del 1945, in contemporanea dunque ai fatti da cui muove. Non ha subito particolari rimaneggiamenti nel corso degli anni, cosa decisamente rara per un autore come Sereni, solito perpeturare un’esperienza sconfinatamente attraverso la continua riscrittura dei suoi versi. C’era invece qualcosa di concluso in questo componimento, qualcosa che lo rendeva bastante. A pensarci potrebbe sembrare quasi paradossale per una poesia scritta in occasione di un trasferimento, che è un trauma (nel senso puro di “rottura”) che apre l’esistenza a un nuovo corso. E ancor più singolare potrebbe sembrare considerare conclusa (e conclusiva?) una poesia che, scritta all’indomani della fine della guerra, viene posta in apertura di un nuovo libro. Ma ancora, soprattutto, che si chiude con l’attesa: «E qui t’aspetto».
Per dare il fianco a questo gioco di capovolgimenti, direi che potremmo anche noi scambiare la fine con l’inizio e partire dal verso conclusivo. Verso che contiene i due riferimenti essenziali dell’intera poesia: il referente dialogico «tu» e l’avverbio di luogo «qui», che è però un vero e proprio referente spazio-esistenziale (è qui, dice, è proprio qui la mia vera esperienza). Contiene poi, questo breve verso, un’azione che non agisce: l’aspettare. Ed è proprio quell’attesa – dimensione di inconoscibile apertura al domani – che può rendere conclusa la poesia, poiché se attendiamo qualcosa non c’è più nulla da fare né da dire, se non rimanere nell’apertura in cui ciò che si attende possa giungere. Così, è proprio per il suo carattere inconcluso che questa poesia non ha richiesto all’autore più alcuna riscrittura: cosa mai dire, ancora, fintanto che la condizione di attesa perdura? Poche esperienze umane, se ci riflettiamo, sono così drammaticamente compiute come l’attesa, che ci leva la parola e ci dice che non sta più a noi parlare.
Al gioco “apertura-chiusura”, si affianca poi nel componimento il rimbalzo “dentro-fuori”. Dentro e fuori la casa, che con quel «qui» non è solo il luogo fisico di residenza, ma è la geolocalizzazione dell’esistenza del soggetto poetante. Qui, in questa casa, ora, io, proprio il me di adesso in questo luogo. Così, il dentro e il fuori creano un contrasto di situazioni: fuori la cenere ancora calda dei bombardamenti, ma anche i ragazzini che corrono da una traversa (dalla quale si attende, forse, un raggio di sole in una primavera ancora lontana, per Sereni e per il mondo in quel dicembre del ’45), qualche scoppio di ilarità; dentro il buio (che però si travasa anche fuori) di una quotidianità trasfigurata e irriconoscibile, vessata da quella aspra fatica  – che conosciamo –  che è necessaria a trasformare quell’insieme di stanze nuove e di convivenze rinnovate nella parola, finalmente, casa.
«Ma i volti i volti non so dire: / ombra più ombra di fatica e d’ira», e in breve Sereni ci dice tutto. La casa non è rifugio perché non è casa, ma un inferno di musi lunghi e rabbia: è l’impossibilità di riconoscersi, dando a quel riflessivo il doppio valore di “riconoscere se stessi in una determinata circostanza” e “riconoscere l’altro con reciprocità”. Bisogna riniziare tutto da capo, insomma, nella costruzione della propria dimora. Non fu facile e Sereni, sinceramente, raccontò in più occasioni le difficoltà del rapporto familiare.

Il poeta non sa dire i volti. Non sa tracciare la loro evoluzione, il loro mutare privo di equilibrio (gli equilibri vanno costruiti, ci vuole del tempo). Il tema del volto è assolutamente affascinante e ci rimanda a riflessioni concernenti il rapporto tra il soggetto e l’alterità. Penso subito ai bellissimi lavori di Emmanuel Lévinas (ne ho parlato un po’ meglio, anche se non sufficientemente, qua). Il volto di chi ci è davanti è il fenomeno dell’alterità, è la forma che assume l’Altro alla nostra presenza. Non riconoscere il volto vuol dire non essere nella condizione di assumermi la responsabilità dell’Altro come differente da me, dunque non poter nemmeno farmi carico della mia stessa condizione, tale proprio perché mia e non tua. Se non so riconoscere il volto dell’altro, è come se dicessi “tu non sei tu, sei l’immagine disturbata di un me che non capisco e che voglio che sia tu a chiarire: disegnami i lineamenti come io voglio che siano” (: questo specifico passaggio andrebbe sviluppato in modo ulteriore, se si pensa ai fenomeni di continua proiezione di sé e reiterazione tipici della poesia di Sereni, nella quale spesso i tu sono fantasmi del me). Dove non c’è riconoscimento del volto dell’Altro, non può esserci coabitazione ma solo sovrapposizione, al meglio alternanza, più facilmente prevaricazione e violenza. Ecco l’ira e l’ombra che turbano la nuova casa della famiglia Sereni. E giustamente Sereni, nel verso d’apertura, ci pone un elemento essenziale: «te». Si fanno tanti discorsi sull’altro e sul diverso, ma la verità è che non vi è nulla al di fuori dell’esperienza e non vi è alterità al di là di quella che che è possibile esperire. L’Altro o ci è prossimo, o non è. Chi abita dall’altra parte del mondo, è dura da ammettere, non esiste nel cerchio della nostra esistenza. L’Altro è chi dimora con noi: i cari su cui il nostro calcareo desiderio di identità (nel senso, aggressivo, di voler vedere davanti a noi corrispondenza a noi stessi) muove violenza. Sereni lo sa e scrive, parafrasando: è solo con te il colloquio, sei tu il mio Altro. E infatti la pena di ciascuno è irrisa da chi nemmeno la vede e, per restare alla lettura del testo, sgambetta vivace al piano di sopra o si mette a cantare. Ma chi è quel «te»? La moglie, Dio, la poesia come pratica di scrittura della vita, l’intimità del poeta proiettata davanti a lui: tutti questi soggetti – uno di loro o forse tutti contemporanemente – accomunati dall’esistere nel luogo-vita di Sereni.

Ma in questo potente quadro di tetra vita domestica, è data una possibilità. Il colloquio, la parola. Nella difficoltà resiste la pratica del discorso, la fiducia nel dialogo come progetto di costruzione del riconoscimento reciproco dei volti. Dicevo prima, tra parentesi, che per costruire gli equilibri serve tempo. Il tempo, è realmente, lo spazio concesso ai volti perché si riconoscano; il tavolo solido su cui riprogettare la geometria dei nostri equilibri comuni. È la dimensione del colloquio, che è la parabola che risulta quando si mettono a sistema il tempo e la parola.
Così pensava anche Sereni, uomo coraggiosamente deciso a non perdere il punto del proprio esistere (e sempre tenacemente disposto a tornare e ritornare sulle emozioni del proprio vissuto, con attenzione devota e scientifica alle varianze della vita): e per questo lì, nel luogo esatto di quella fatica e nonostante e anzi proprio quel dolore – qualcosa di vero, che c’è – egli dà credito all’Altro e resta in attesa-apertura che i loro volti si facciano luce.  Che finalmente sia casa.


Qualcuno di noi ha già parlato di Sereni, scrivendo del Nobel a Dylan e di Antonia Pozzi (qui e qui).

Passate a visitare, poi, la nostra sezione poesia.


Dite la vostra su questo testo, condividete la vostra lettura. E, perché no, suggeritemi cosa vi piacerebbe leggere insieme al prossimo #mercolediversi. A presto!

 

1 comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.