Michela Marzano, la bellezza tagliente dell’Essere

La filosofa Michela Marzano è stata a Bologna in occasione della Festa La Repubblica delle Idee – Scrivere il futuro (giugno 2012) ed ha tenuto un incontro dedicato alla libertà dall’ossessione della perfezione (video).

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Il percorso di Michela è pieno di traguardi, ma non è questo che fa di lei una interlocutrice speciale, quello che personalmente più mi colpisce è la sua ricerca esistenziale, il suo essersi data il coraggio di essere sé stessa ed affrontare il mondo partendo da sé. In comune abbiamo la Francia, quelle parole francesi che sfuggono nei discorsi, la ricerca di parole per nominare la realtà, quella sensazione che sia proprio l’irregolare il luogo in cui si libra il nuovo e la possibilità di trasformare il rapporto che abbiamo con il mondo. Mi viene da pensare alle protagoniste dei libri di Delphine de Vigan, così pieni di delicatezza e grazia, e mi sovviene Blandine Le Callet, la quale, nel suo ultimo romanzo, ha spiegato come in una lingua straniera si possano trovare le proprie parole e salvarsi.

L’incontro a Bologna con Michela Marzano mi ha fatto trovare le parole per dire l’esperienza della differenza partendo da dove ci si lascia.

Quando una bambina nasce con ambizioni e desideri grandi, e mentre li sta scoprendo e si sta conoscendo, non sa ancora a cosa potrebbe andare incontro: non è preparata alla famiglia, non può sospettare la vita psichica del potere, sarebbe tradire l’amore e la radice che la tiene in vita, che l’ha originata. Impara però in fretta che ci sono progetti già fatti per lei, che la sua funzione tacita e rigida, anche se non riconosciuta o benedetta, è strumentale a logiche e a vuoti spesso relazionali che niente hanno a che spartire con il nuovo che la sua nascita ha portato nel mondo.

In seguito, dovrà scegliere tra assumere la “tracotanza” di dirsi consapevole dell’inganno e dell’essere chiamata traditrice, o di resistere in silenzio, o di cedere. Ribellarsi all’inganno ad alta voce è impossibile sotto il ricatto dell’espulsione dalla rete assistenziale e del rifiuto affettivo, e poi l’esperienza non l’ha ancora lavorata a sufficienza perchè quella bambina possa dirsi certa della propria differenza negata. Resistere è un’arma a doppio taglio che può portare al senso di soffocamento, di impotenza, di perdita di sé. Cedere, bhé cedere è, semplicemente, fuori discussione, come può cedere una vita in espansione, un’espressione del divenire che ama la vita che ancora serba orizzonti infiniti? Però la sovversiva non deve essere intercettata ed inizia a rifugiarsi in un cuneo d’ombra.

Intanto si sopravvive, tra regole e formazione, una formazione che inietta un veleno che spegne il nervo della capacità di libertà, quello dello scatto in avanti, della schivata, della possibilità di andare oltre. La speranza resiste, ma, risucchiata nei desideri altrui, inizia a spegnersi.

Può capitare di non riuscire a scegliere, può capitare di cercare di conformarsi per compiacere, per non perdere l’amore, per rimanere in vita anche senza esistere, può capitare di identificarsi nel miraggio del potere: seguire delle tappe, credere di potercela fare ed una volta realizzati gli obiettivi decidere per sé e per gli altri diversamente, dandosi nuova vita, recuperando, sentendosi finalmente potenti e indipendenti. Purtroppo è proprio allora che si scopre l’abbaglio. La scultrice Loise Bourgeois ha scritto “Breton, Lacan e Freud mi hanno delusa. Promettevano la verità e hanno tirato fuori solo teoria. Proprio come mio padre: promettere tanto e mantere così poco”.

Ed è infatti da questa consapevolezza che si riparte con maggiore ostinazione per nascere come soggetti. Fu Carla Lonzi ad intuire “il soggetto non cerca la cosa di cui ha bisogno, la fa esistere.. Qualcuna doveva ben cominciare e la sensazione che mi portavo addosso, che o lo facevo io o nessuna mi avrebbe salvata. Ho operato in modo che l’ho fatto io. Dovevo trovare chi ero alla fine, dopo aver accettato di essere qualcuna che non sapevo”.

Ma, sotto i bombardamenti delle pressioni esterne, come non tradire quella bambina impertinente, ostinata? Benché quella bambina si conoscesse profondamente, con una competenza ancestrale e senza paura, nessuno le ha insegnato a darsi ascolto, ma anzi è stato trasmesso che non si può osare tanto, sarebbe follia. In questa oscillazione di senso si procede giorno dopo giorno.

Finché quello sguardo su di sè, quell’unico benevolo sguardo ricevuto solo da sé stesse chiamerà una seconda volta all’appello, un appello drammatico, come il coperchio di una pentola a pressione che sta per esplodere. Come se quella bambina chiusa in fondo, dentro, in quella nicchia nascosta, preservata in abiti di seta, sentitasi tradita dall’organismo che la contiene, rischiando di scomparire per sempre, emergesse con una rabbia prepotente per sfidare e poter bucare tutti gli strati di falsa coscienza, tutto il tempo di prigionia e di abbandono nell’essere stata costretta a lasciare posto a qualcos’altro, con la promessa di essere un giorno riscoperta, trovandosi invece sminuita e coperta di polvere.

Quella rabbia di vulcano che ribolle, quando esplode nella sua drammatica ed onnipotente forza vitale, rischia di distruggere tutto con violenza: ci si può anche perdere per sempre nel rifiuto si sé. Eppure, se si ricorda quello sguardo benevolo, quell’unico su di sè, se si ascolta quella bambina che è altro dall’Io e le si dà fiducia, perchè è l’unica a non averci mai tradito, allora la vita riparte, la speranza torna a fluire e le cose seguono un loro ordine che ci guida, come se divenissero visibili tracce da attraversare.

Essere all’altezza di sé stesse è forse la sfida più grande dell’esistenza, soprattutto perchè occorre partire dalla propria differenza, nominarla e mettersi nell’ordine della vita, della nascita, cioè dell’accettazione dell’interdipendenza, iniziando dalla cura di sé. Allora si prende corpo, voce con una parola balbettante che fa emergere il segreto, e la mente, che ha voluto (non poteva fare altro) controllare e dominare il resto, dovrà smettere di domandarsi perché, dovrà concentrarsi su strategie di libertà, dovrà riprendere a non cedere sui propri desideri compiendo l’azione perfetta, quella necessaria.

Il punto, a mio avviso, è che non può darsi capacità di libertà senza il perdono, il perdono di sè. C’è chi lo trova nella letteratura, nella distanza di storie che consentono di accettare la vita e di accoglierla nella sua multifome vulnerabilità, c’è chi si sposa alla filosofia, comunque sia, si cerca la via della “possibilità” della necessità di essere umani. La filosofa Wanda Tommasi ha scritto “la ricerca di un’ulteriorità e l’orientamento verso la libertà non devono però farci dimenticare che niente può avere senso, se il semplice fatto di essere vivi non ne ha“.

L’amore per la conoscenza è uno dei lumi di candela che fanno luce nella ricerca, ma anche la conoscenza ha a che fare con l’amore, e questo non viene insegnato. Nei sistemi formativi attuali conoscere significa armarsi nel tentativo di creare una parabola di autoreferenzialità, di trionfo, di esclusione dell’alterità. Credo fermamente che il pensiero senza pratica, come la mente senza il corpo, non possa essere trasformativo entrando nella realtà con valore, allora mi viene in mente la Lettera del Dalai Lama alle donne nella quale egli spiega l’importanza di educarsi a non perseguire l’attaccamento a sé ed alle proprie dipendenze per provare a guardarsi con una piccola distanza che permetta di non alienarsi da sé e dagli altri e che accolga l’amare senza divorare. Il mondo è diverso da noi per questo serve negoziare per mettere al mondo la libertà, contrattare a partire da sé, nascere come soggetti nella storia non sostituendosi agli altri o non nascondendosi dietro di essi, ricordando sempre che nessuno può eludere la propria responsabilità e dunque scegliere ogni istante cosa essere; continuando a divenire; aprendo all’imprevisto.

Imparare la delicatezza con sè stessi è forse una delle prime cure rispetto all’infinito pozzo di produzione che si chiede alla macchina umana. Christa Wolf ha scritto “perché non conoscermi da cima a fondo e restare in amicizia con me stessa”, si chiama loving kindness, “a quanto pare noi non abbiamo questa gentilezza nei nostri confronti. C’è odio per noi stessi e amor proprio e vanità, e sull’altra faccia della medaglia questo tormentoso senso di inferiorità. È singolare”. Diventa possibile, allora, sostituire alla produzione la riproduzione dei significati nel rispetto dei processi e della gestazione.

Forse non è così vero quello che credeva Brecht, ossia che tutta l’umanità ha bisogno di libertà per vivere. Accettare questo scacco alla possibilità di trascendenza umana nella sua perfettibilità per il bene libera. Libera perché perdona e sposta il nostro sguardo su ciò che sarà proprio la nostra differenza a mettere al mondo senza biasimarlo della sua ostilità e riflettendo su di lui il non amore che ci portiamo addosso. Riportando altresì le nostre esistenze alla misura del limite che ci appartiene, facendo della nostra esistenza nella sua singolarità e relazionalità un percorso di libertà mediata da intuizioni ed invenzioni che trasformino il nostro vivere e sopravvivere in un passaggio d’amore.

(foto di Pascal Ratthé per ledevoir.com e immagine di copertina di Rafael Araujo)

 

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