Mimose: Libertà è una parola, parola di Poetessa araba

Donne arabe

Donne arabe

Nel 1963 Betty Friedan pubblicò “La mistica della femminilità”, il risultato di un’inchiesta condotta all’interno dello Smith College per comprendere quali fossero le ambizioni, le aspettative e le sensazioni delle sue coetanee rispetto alla vita presente e futura. Il libro, incentrato sul disagio psicologico e sociologico delle donne americane appartenenti alla classe media, conteneva una denuncia nata a partire dall’intuizione che esistesse una mancanza profonda, quella della parola come pratica di autocoscienza femminile: “C’è un problema che per molti anni è rimasto sepolto, inespresso. E’ una strana inquietudine, un senso di insoddisfazione. […] Per più di quindici anni non si è fatta parola di questo turbamento nelle rubriche, nei libri, negli articoli scritti dalle donne e per le donne.” . Betty rintracciò il primo tentativo d’espressione di tale inquietudine in una madre di quattro figli che a un caffè parlò con tranquilla disperazione del “problema”, liquidando in un termine solo il tormento esistenziale causato dall’insufficienza cronica delle vite condotte dalle donne tra il marito, i figli e la casa, nonché l’esigenza impellente di un’autodeterminazione, di un riconoscimento a se stesse di personalità e identità, di pulsioni intellettuali e intime da esercitare nel quotidiano.

E fu così che la Friedan si accorse che la modulazione, l’espressione di quella voce interiore femminile tanto irrequieta, era “la chiave” per la libertà femminile, quella stessa libertà che – per dirla alla Lazzerini – si raggiunge solo se le donne impiegano una strategia e una per far incontrare il mondo con i loro stessi desideri. Prima di quel 1963, erano giunte alla stessa conclusione moltissime altre donne provenienti da tutto il mondo, come Virginia Woolf o Sibilla Aleramo, e a distanza di cinquant’anni (di parole dette o scritte da donne) è ormai comprovato come l’esercizio della parola nel senso socratico della maieutiké, del parto della verità, sia uno strumento necessario alla donna per potersi conoscere, riconoscere e successivamente praticare nella realtà.

Ma quanti modi esistono di parlare? Quante forme? Quante parole da scegliere o scartare, ammesso che serva una selezione o un’esclusione linguistica?
La questione sembrerebbe quasi pretestuosa, e tuttavia risultava e risulta ancora oggi sufficientemente complessa da occupare moltissime studiose senza che una soluzione ottenga il primato sulle altre possibili. Per fare un esempio, Marguerite Duras – e con lei Hélène Cixous, l’italiana Edda Melon e tante altre pensatrici – era assolutamente convinta che la differenza sessuale tra uomo e donna si trasponesse e si dovesse palesare anche nella scrittura come “differenza al lavoro, differenza nella lingua, passaggio continuo dalla voce allo scritto, dal corpo al testo, mobilità soggettiva, attraversamento continuo”, poiché il luogo da cui la parola si attinge, quel luogo che Monica Farnetti chiamerebbe “la struttura schiumosa della nostra psiche”, è differente per uomini e donne.

Se tale teoria sia corretta non è nostro compito, ciò che ci interessa in questa sede è mostrare come sia stata spontaneamente elaborata e praticata con le medesime implicazioni anche al di fuori dell’Occidente, e cioè nel contesto della poesia araba femminile, dove non esistendo una forma ritenuta adeguata a esprimere il sentire, è stata inventata.

Quando l’iraniana Nazik al Mala’ika pubblicò Schegge e Cenere, era il 1949. Fino ad allora, eccetto qualche sporadico caso, la forma della poesia araba era rimasta invariata dai suoi albori, obbligatoriamente assoggettata all’autorità di un rigido schema metrico che prevedeva che tutte le parole finali dei versi rimassero tra loro e che tutti i versi fossero divisi in due emistichi da una cesura centrale. Poi Nazik al Mala’ika, nel 1946, pubblicò “Il colera”, la prima poesia araba in versi sciolti, e tre anni dopo la prima raccolta poetica in versi sciolti, preceduta da una lunga prefazione che esplicava la necessità di una parola libera su cui potesse costituirsi e costruirsi la libertà strictu sensu.  Qualche esempio di tale operazione sono l’ormai celeberrimo ed emblematico “Canto d’amore per le parole”:

Perché abbiamo paura delle parole
quando sono state mani dal palmo rosa,
delicate quando ci accarezzano gentilmente le gote,
e calici di vino rincuorante
sorseggiato, un’estate, da labbra assetate?

Perché abbiamo paura delle parole
quando tra di loro vi sono parole simili a campane invisibili,
la cui eco preannuncia nelle nostre vite agitate
la venuta di un’epoca di alba incantata,
intrisa d’amore e di vita?

Ci siamo assuefatti al silenzio.
Ci siamo paralizzati, temendo che il segreto possa dividere le nostre labbra.
Abbiamo pensato che nelle parole giaceva un folletto invisibile,
rannicchiato, nascosto dalle lettere dalle orecchie del tempo.
Abbiamo incatenato le lettere assetate,
vietando loro di diffondere la notte per noi
come un cuscino, gocciolante di musica, sogni,
e caldi calici.

Perché abbiamo paura delle parole?
Tra di loro ne esistono di incredibile dolcezza
le cui lettere hanno estratto il tepore della speranza da due labbra,
e altre che, esultando di gioia
si sono fatte strada tra la felicità momentanea di due occhi
inebriati.
Parole, poesia, teneramente
hanno accarezzato le nostre gote, suoni
che, assopiti nella loro eco, colorano una frusciante,
segreta passione, un desiderio segreto.

Perché abbiamo paura delle parole?
Se una volta le loro spine ci hanno ferito,
hanno anche avvolto le loro braccia attorno al nostro collo
e diffuso il loro dolce profumo sui nostri desideri.
Se le loro lettere ci hanno trafitto
e il loro viso si è voltato stizzito
ci hanno anche lasciato un liuto in mano
e domani ci inonderanno di vita.
Su, versaci due calici di parole.

Domani ci costruiremo un nido di sogno di parole,
in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere.
Nutriremo i suoi germogli con la poesia
e innaffieremo i suoi fiori con le parole.
Costruiremo un terrazzo per la timida rosa
con colonne fatte di parole,
e una stanza fresca inondata di ombra,
protetta da parole.

Abbiamo dedicato la nostra vita come una preghiera
chi pregheremo… se non le parole?

La più intimistica e inquieta “Io”:

La notte mi chiede chi sono
sono il segreto della profonda nera insonnia
sono il suo silenzio ribelle
ho mascherato l’anima di questo silenzio
ho avvolto il cuore di dubbi
immota qui
porgo l’orecchio
e i secoli mi chiedono
chi sono

E il vento chiede chi sono
sono la sua anima inquieta rinnegata dal tempo
come lui sono in nessun luogo
continuiamo a camminare e non c’è fine
continuiamo a passare e non c’è posa
giunti al baratro
lo crediamo il termine della pena
e quello è invece l’infinito

Il destino chiede chi sono
potente come lui piego le epoche
e ridòno loro la vita
creo il passato più remoto
dall’incanto di una vibrante speranza
e lo sotterro ancora
per forgiarmi un nuovo ieri
di un un domani gelido

Il sé chiede chi sono
come lui vago, gli occhi fissi nel buio
nulla che mi doni la pace
resto ancora e chiedo, e la risposta
resta nascosta dietro il miraggio
ancora lo credo vicino
al mio raggiungerlo tramonta
dissolto, dispare

E la politica, straziante “Orazione funebre per una donna insignificante”:

Ci ha lasciati senza un pallore di gota o un fremito di labbra
le porte non hanno sentito nessuno narrare della sua morte
nessuna tenda alle finestre stillante dolore
si è levata per seguire il suo feretro sino a che non scompaia dalla vista
a eccezione delle poche persone che si sono commosse al suo ricordo.
La notizia si è dissolta nei vicoli senza che la sua eco si diffondesse
e si è rifugiata nell’oblio di alcune fosse
la luna ha pianto questa tragedia.

La notte non se n’è curata e si è trasformata in giorno
quindi è giunta la luce con le grida del lattaio, il digiuno,
il miagolio di un gatto affamato tutto pelle ed ossa,
le liti dei commercianti, l’amarezza, la lotta,
i bambini che lanciano pietre da un lato all’altro della strada,
le acque sporche nei canali e i venti che giocano da soli con le porte delle
terrazze
in un oblio pressoché totale.

In Nazik al Mala’ika è presente quell’intuizione di cui sopra per cui la parola è veicolo di desiderio segreto e realizzazione – in senso etimologico – identitaria, strumento di consapevolezza e riconoscimento del sé e della propria condizione nel mondo, bisogno impellente perché possa finalmente squarciarsi quel silenzio che tutto nasconde e ingoia, dimentica e cancella.

Dopo Nazik e il suo forzato trasferimento nel Libano causato dalle violente e persistenti critiche dei fondamentalisti, spesso di tono minaccioso, alla sua operazione di scardinamento della poesia araba “classica”, altre donne hanno accolto e predicato, praticandola, la sua poetica di espressione come emancipazione, di poesia, parola e scrittura come processo interiore e reale di liberazione dalla prigione invisibile dei mutismi.
Tra queste, A’isha Arna’ut, una poetessa siriana che colpisce per la scarna crudezza, la corporeità e la passionalità dei suoi versi. “L’idea di scrittura pura/ E’ la vana ricerca/ d’uno specchio liscio/ la cui polvere sfiora la seta del cuore”, scriverà in una delle sue poesie, e quella ricerca che procede di parola in parola e vuole la parola, che cola al fondo del cuore verso dopo verso, insieme al motivo simbolico dello specchio, attraversa la sua intera poetica, come traspare emblematicamente nel “Passaggio dei sensi”:

Dove finisce l’onda
e dove inizia il mare?

Dove finisce il corpo
e dove inizia l’ombra?

Dove finiscono le tenebre
e dove inizia la luce?

Le parole respirano fuori dalla loro cornice
i sensi si increspano e si distendono
simili a un oceano di un cerchio
il cui centro è inesistente.

Non siamo altro che una
delle probabilità dell’esistenza.

La nostra vita
è un buffo insieme di dubbi
un equivoco di possibilità concesse.

Mi rivolgo a ciò che è informe
procedo verso il nascondiglio.

Quando cercherò di raccogliere l’esperienza?
Come potrò trovare l’imbarcazione?
Nell’annullamento del tempo e dello sviluppo che retrocede?

La luce non ha forma
L’onda non ha confini
L’io non ha facciate
La passione non ha orizzonti.

Sii te stesso.

Ma anche in “Ha indossato la camicia”, di vago retrogusto Prévertiano:

Ha indossato la camicia, ha preso l’ombrello
non ha detto parola
nemmeno io.

Dopo che se n’è andato
sono rimasta innanzi allo specchio
ho estratto la lingua
per vedere se erano rimaste impigliate delle parole.
Purtroppo ho visto solo muscoli e vene.

Ho ritirato la lingua
sono scoppiata a ridere
la risata non è una parola – poi ho infranto lo specchio.

Da quel momento
ho continuato a infrangere specchi
invano
cercandone uno
che non riflettesse
più, uno specchio
che infrangesse me.

E in “Silenziosamente”, scritta per la morte di una donna che Nazik avrebbe amaramente definito “insignificante”:

Silenziosamente
ha vissuto.
Silenziosamente
è morta.
Vulva inutile
dissero dopo aver saputo.
Io
sono caduta in ginocchio
innanzi al suo cadavere
le ho lacerato
il sudario
con le unghie
ho scritto sulla tomba
qualcosa.

Sulla stessa scia, ma con una poesia di stampo più intimistico, Maram al Masri, poetessa siriana naturalizzata francese che ha pubblicato la sua ultima raccolta poetica, “Elle va nue la Liberté”, poco meno di un anno fa. In passato Al-Masri era stata al centro di aspre polemiche per la trattazione, in alcune delle sue poesie, del desiderio sessuale femminile, tematica mai affrontata, se non velatamente, fino ad allora, ma rimane ad ogni modo una tra le più acclamate e stimate poetesse arabe, tanto in Occidente quanto nel panorama intellettuale arabo, per i suoi versi politici dal tono appassionato e fiero. Nella “Donna che guarda dalla finestra”, viene ribadito il valore terapeutico della poesia:

La donna che guarda dalla finestra
vorrebbe avere delle lunghe braccia
per prendere il mondo
il suo Nord e il suo Sud
il suo Est e il suo Ovest
nel suo grembo
come una tenera madre
vorrebbe avere grandi mani
per carezzare i suoi capelli
scrivere delle poesie
per alleviare la sua pena.

In “Abbiamo volti” emerge sottilmente, attraverso la metafora dei volti, la ricerca di una verità che sia corrispondenza del sé in sé a partire dalla conoscenza del sé:

 Abbiamo volti

che portiamo sulle spalle
sulle carte d’identità
nelle foto ricordo

Abbiamo volti
che strappiamo conserviamo
nascondiamo riveliamo
ai quali ci abituiamo che rinneghiamo
che amiamo
e odiamo

Abbiamo volti
che conosciamo…
diciamo: li conosciamo?

E ancora più interessante è certamente il caso di Wafaa Lamrani, poetessa marocchina che denuncia senza mezzi termini la condizione della donna nei vari spazi vitali, dal suo stesso a quello familiare; da quello lavorativo a quello sociale, lottando attraverso una parola che sgorghi dal doloroso ascolto della propria anima (che sempre doloroso e faticoso risulta, alle donne che scrivono) e si riversi in tutta la sua potenza, lirica e pragmatica, oltre il suo stesso corpo, altrove. Alcune delle sue poesie degne di nota:

Radice

Sono nata da un sentimento che non assomiglia né all’amore
né all’odio; spesso assomiglia all’orgoglio
non mi volevano, ma sono arrivata.
Con forza sono spuntata nel momento che volevo.
Prima di iniziare ho chiarito con tono di sfida
ho annunciato che io e l’età siamo state separate sull’orlo dell’alienazione
che io e il tempo siamo stati per sempre due volte.

Genesi

Dall’intuito avvio
la mia genesi
mi estendo su uno spazio più angusto della cruna dell’ago,
fingo di essere permeabile nella mia stessa sostanza.
Il vento del vuoto non proviene né dell’est né dall’ovest.
E io parto:
la partenza non potrebbe portarmi via
né il transito sfuggirmi
né l’arrivo sotterrarmi.

Diadema

Che cosa dice la saggezza del corpo?
“La disperazione è più piacevole della stanchezza,
più morbida della roccia”.
Ecco perché l’ottavo giorno è mio:
di modo che la lettera di quel giorno mi possa impregnare
e partorire dei gemelli
di modo che la morte di quel giorno possa manifestarmi
e quindi io mi possa curare…

Emorragia

La solitudine delle notti mi consuma,
addenta la mia passione
e poi mi sputa come un frammento
per il bagliore fuggente

Schema

Se ci fosse un significato
se ci fosse un colore
se ci fosse un giorno
non la posta del lunedì
non il treno del martedì
non il bucato del mercoledì
non l’incontro del giovedì
non la nausea del venerdì
non la solitudine del sabato
non la noia della domenica.
Com’è faticosa la domenica pomeriggio…
Se ci fosse un viso al posto di un viso
un numero al posto di un numero,
una vita al posto di questa vita,
un tempo al posto di questo tempo,
un sole al posto del sole,
una terra invece della terra
se ci fosse un’aria che fosse veramente aria…
Sono stanca di quel che mi circonda, stanca delle parti che mi compongono,
stanca di me stessa.
Sono stanca di essere una musa per i poeti, stanca della terra che non fa per me, stanca del cielo.
Sono stanca del mio collega, che sparla di me, e della strada che mi molesta,
nego tutte le condizioni e sono stanca anche di negare.
Se solo ci fosse un giorno,
un colore,
un significato…

Ma arriviamo a Zhabiya Khamis, classe ’58, direttamente dagli Emirati Arabi Uniti. Zhabiya ha trascorso ben 5 mesi in carcere per le sue poesie, ma non per questo ha smesso di scrivere. La sua riflessione si compie non solo sulle parole, ma anche su ciò che vi è oltre, su ciò che non trova parola e resta inespresso pur sussistendo. Il corpo, il linguaggio non verbale, sembrerebbe poter sopperire lo scarto incolmabile delle parole, veicolando il desiderio segreto e intimo che contiene e realizzandolo attraverso la somatizzazione, in una perfetta corrispondenza tra la psiche e il corpo:

Spirito antico

Le parole sono teste che spuntano dall’ombelico della vita
come te che, da una galassia misteriosa, mi vieni incontro.
Dolci sono i tuoi occhi che irrorano il mio viso di rugiada
i piedi dell’angelo fugace hanno vacillato
sulla rosa inattesa dell’amore
esistono cose e situazioni che non si osano invocare
ma che si desiderano con una pietá ardente
si vorrebbe che l’universo ce le offrisse
senza che alcun suono scaturisca dalle nostre labbra
sono le tracce dei regni dello spirito antico
che, in noi, sussistono
e che la mano della conoscenza non ha raggiunto.

Linguaggio segreto

La pelle della donna sogna qualcuno che la possa leccare
i suoi capelli sognano la mano che li districhi
la sua mano sogna il sudore annidato nel palmo dell’altra mano
le sue labbra sognano l’ardore del bacio
le sue ginocchia sognano due baci distinti
il capezzolo sogna qualcuno che lo succhi con passione
il collo sogna qualcuno che lo abbracci con una tenerezza dolorosa
il corpo sogna qualcuno che lo stringa senza tregua
il cuore sogna che i suoi battiti comunichino con un altro cuore
l’anima sogna qualcuno che la ospiti
i piedi sognano di camminare con questo ospite
e le braccia sognano di cullarlo per farlo addormentare
gli occhi sognano una lingua segreta che non ha bisogno di parole
l’orecchio sogna di udire il suo nome nell’immaginazione dell’altro
quando tutto é arido, i fiumi sognano l’esuberanza.

Infine, approdiamo a Joumana Haddad, scrittrice, giornalista e poetessa libanese. Joumana  è amministratrice dell’IPAF, un premio letterario che ricompensa ogni anno un romanzo arabo, e da due anni dirige una rivista araba specializzata in arte e letteratura del corpo e parla 7 lingue. Di se stessa dice:  “Sono una funambola sul filo dell’arte. So che cadrò, ma so che mi risolleverò. Una persona che si arrende al proprio destino è una persona che mi ferisce. Io voglio realizzare i miei sogni“, e lo fa attraverso la parola, in cui crede fermamente. Per Joumana la parola è un vero e proprio evento fisico che può incidere sul corso dei successivi, tanto per chi pronuncia quella parola quanto per lo spazio che l’accoglie e per gli altri esseri che la raccolgono. Negli ultimi anni ha studiato il lessico erotico arabo, denunciandone la povertà di matrice ideologica e dichiarando il proposito di ampliarlo e diffonderlo: “Qualcuno ha maltrattato la mia lingua privandola di termini, di vocaboli e di temi che rientrano nella sfera della sessualità e in quella dell’erotismo. Il mio paese vive una schizofrenia sul corpo. E’ ora di chiamare le cose con i loro nomi. Sono stanca delle metafore, della comunicazione non diretta”. E quest’idea attraversa tutte le sue raccolte poetiche: le parole, incollate al corpo, corporee esse stesse, trasgressive e combattive, forti e reattive, rivoluzionarie e sovversive, hanno il compito di esprimere e di mettere in comune, di ripescare e rimettere in circolo, ciò che è depositato nell’anfratto più intimo di noi stessi.

E’ il caso di “Nella Follia”:

Catturare il firmamento e lambire le nubi
Prendere in prestito la bufera
Lasciandomi alle spalle le lacrime zampillanti
Lacrime zampillanti
E me ne andrò.
Non inseguire l’equilibrio
Non soffocare le grida
Danzare sull’acqua
Dirigendomi verso l’altra sponda
Libera o schiava
Non importa!
Guadare il fiume.
Quando verrà il momento
farfalla notturna
Deporre la dolcezza che ormai mi ha annoiata
Deporre l’abito imbizzarrito invano
E dare fuoco al passato
Per ritornare liscia come la terra vista da lontano
E girare da sola
Intorno alla luna.
Ridere e le mie risate non saranno tristi
Non volere, camminare
Accarezzare la strada
Conversare tutta la notte con il selciato
Fare sgorgare la poesia dalle pietruzze
Il cielo piangerà e non mi preoccuperò
Il vento consumerà il mio cuore ustionato dall’amore.
Quando verrà il momento
alba senza rugiada
mi mostrerò con il viso rabbuiato
e seppellirò i miei visi sereni
diffonderò le ombra sul mio essere
le farò gocciolare come il dolce miele
punto dopo punto
bacio dopo bacio
affinché riemerge sulla superficie del fiume
quella donna che ho serbato in me.

Ma anche di “Amami”, rivolta alla segreta se stessa di cui è in tensione:

Mi trasporto in punta di piedi
mi trasporto nel galoppo della mia vista.
Mi avvolgo nelle fasce della mia pelle.
Mi abbraccio desiderandomi.
Benedico il mio flusso, lo zampillare che da me proviene.
Mi cullo sul mio seno.
Alle mani germoglianti infilo i guanti della poesia.

Reclamo la rivelazione,
le mie incisioni sono su pietra.
La mia immagine reca acqua alla sete
ed esche alla rete dei pescatori.
Trascorro i rintocchi delle campane della sera
scolpendo.
Dormo nella mia stessa ombra.
Indosso la mia natura beduina
quando sono stanca.
Entro in un giardino
che non mi istiga contro me stessa.
Amo la mia anima impossibile,
quella i cui piedi
sono ignoti alla terra.

E “Quando diventai un frutto”, un inno all’incorruttibile forza interiore:

Femmina e maschio fui concepita all’ombra della luna
ma Adamo fu sacrificato alla mia nascita,
immolato ai mercenari della notte.
E per colmare il vuoto della mia altra essenza
mia madre mi ha lavato con acqua torbida
e mi ha portato sul pendio di ogni montagna
consegnandomi al rombo delle domande.
Mi ha consacrato all’Eva della vertigine
e mi ha impastato con il buio e la luce
perché fossi donna-centro e donna-lancia
gloriosa e trapassata
angelo dei piaceri senza nome.

Straniera crebbi e mai nessuno poté mietere il mio grano.
Ho disegnato la mia vita su una pagina bianca
mela che nessun albero ha partorito
poi l’ho ritagliata e ne sono uscita
una parte di me vestita in rosso e l’altra in bianco.
Non ero solo dentro o fuori del tempo
perché ho avuto origine nelle due foreste
e mi sono ricordata prima di nascere
di essere una moltitudine di corpi
di avere dormito a lungo
di avere vissuto a lungo
e quando sono diventata un frutto
seppi quel che mi attendeva.
Ho chiesto ai maghi di prendersi cura di me
allora mi hanno presa.
Ero
la mia risata
dolce.
La mia nudità
azzurra.
E il mio peccato
timido.
Mi libravo sulle ali di un uccello
e di notte diventavo un guanciale.
Rivestirono il mio corpo di talismani
e spalmarono il mio cuore con il miele della follia.
Custodirono i miei tesori e i ladri dei miei tesori
mi portarono silenzi e racconti
e mi prepararono a vivere senza radici.
Da quel momento sono in cammino.
Indosso una nuvola ogni notte e viaggio.
Solo io mi dico addio
e solo io mi accolgo.
Il desiderio è il mio cammino e la tempesta la mia bussola
in amore non getto l’ancora in nessun porto.
Di notte lascio gran parte di me stessa
poi mi ritrovo e mi abbraccio appassionatamente al ritorno.
Gemella del flusso e del riflusso
dell’onda e della sabbia
dell’astinenza della luna e dei suoi vizi
dell’amore
e della morte dell’amore.
Di giorno
la mia risata appartiene agli altri, ma la mia cena segreta
mi appartiene.
Chi comprende il mio ritmo mi conosce
mi segue
ma mai mi raggiunge

“Le parole sono importanti, chi parla male pensa male”, faceva dire Nanni Moretti a Michele nel suo Palombella Rossa, e dello stesso avviso appaiono Joumana Haddad, Nazik al Mala’ika, Zhabiya Khamis, Wafaa Lamrani, Maram al Masri e A’isha Arna’ut, che hanno cercato e continuano a cercare le parole che germogliano nel dirupo scosceso del loro sentire, riversandole ancora calde e vibranti nella forma da loro inventata che risponde e corrisponde al flusso dei loro pensieri, delle loro impressioni e delle loro intuizioni: la poesia in versi sciolti.

E dunque in questo 8 marzo che vede festeggiare le donne di tutto il mondo, noi celebriamo le donne che si ascoltano e guardano anche se è doloroso, che parlano anche se è pericoloso, che lottano senza conoscere tregua interiore o formale, che non sanno né intendono tacere. E omaggiamo ognuna di queste donne con un’altra poesia di Joumana Haddad, “Io sono una donna”:

Nessuno può immaginare
Quel che dico quando me ne sto in silenzio
Chi vedo quando chiudo gli occhi
Come vengo sospinta quando vengo sospinta
Cosa cerco quando lascio libere le mie mani.
Nessuno, nessuno sa
Quando ho fame quando parto
Quando cammino e quando mi perdo,
nessuno sa che per m

e andare è ritornare,
e ritornare è indietreggiare
che la mia debolezza è una maschera
e la mia forza è una maschera
e quel che seguirà è una tempesta.
Credono di sapere
Ed io glielo lascio credere
E creo.

Hanno costruito per me una gabbia
affinché la mia libertà fosse una loro concessione
E ringraziassi e obbedissi
Ma io sono libera prima e dopo di loro, con e senza di loro
Sono libera nella vittoria e nella sconfitta
La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della prigione è la loro lingua
Tuttavia la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio
E al mio desiderio non impartiscono ordini.

Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
Ed io glielo lascio credere
E creo.

—————————–

**Tutte le poesie sono state estratte dal volume Non ho peccato abbastanza. Antologia di poetesse arabe contemporanee, a cura di Valentina Colombo, Mondadori Editore

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