Musica che non finisce: Lubomyr Melnyk

Ho scoperto Lubomyr Melnyk, come succede sempre con le cose belle, tramite persone belle.  È andata più o meno così: «Ti piacciono Nils Frahm e Ólafur Arnalds? Allora dovresti venire a sentire Melnyk con me, ti prendo il biglietto». Non ricordo nemmeno se l’avessi ascoltato prima del 3 novembre 2015 (mi capita spesso di andare ai concerti totalmente impreparata e nel novanta per cento dei casi ne esco felicissima), e, se l’ho fatto, di sicuro non avevo capito che sentirlo dal vivo avrebbe avuto questa portata.

Lubomyr Melnyk è un pianista e compositore di origine ucraina. Ha passato buona parte della sua vita a perfezionare la tecnica di esecuzione che ha egli stesso ideato, quella della continuous music, e a convincere il resto del mondo del suo valore. Per spiegarvela, posso darvi intanto qualche informazione tecnica che si trova sul suo sito (fatto malissimo, tra l’altro): può suonare fino a 19,5 note al secondo e tiene una media di 13-14 note al secondo (per mano. sì.) quando il pezzo si estende per un’ora. Praticamente Lubomyr, quando esegue, non arriva quasi a staccare le dita dal pianoforte, ma continua a a produrre suoni ininterrotti che allo stesso tempo si incastrano e scivolano l’uno sull’altro, e si ha l’impressione di ascoltare una storia.
Come posso descriverla di pancia, invece, potrebbe stare in una frase così: è qualcosa come l’acqua.     E non sono solo io a sentirlo (che lo sappiamo tutti che quella del movimento dell’acqua è una cosa che mi sta particolarmente a cuore), ma è Lubomyr stesso a dirlo, per esempio a Elia Alovisi durante un’intervista: «Mi resi conto che l’acqua era un’immagine, una sensazione che vedevo e provavo spesso nel mio comporre. Era come una pioggia che cadeva, lenta e costante. C’è qualcosa di profondamente naturale in questa tecnica di pianoforte, essendo essa basata sulla natura del corpo umano. […] Quando suono, mi sento come se stessi creando un fiume di suono. Non un vento, o un tunnel di luce. Un fiume, reale, un ruscello di suono che scorre. E questo fin dai primi momenti della musica continua».

Se qualsiasi altra persona venisse a dirmi «Hei, io faccio musica come nessun altro, faccio qualcosa di meraviglioso, riconoscetelo! imparatelo!» risponderei con una carezzina accondiscendente e via. E invece Lubomyr lo fa, quel qualcosa di meraviglioso, e gliene devo solo rendere atto − io e un sacco di altre persone, tra cui Frahm e Arnalds, peraltro. Non ho davvero mai sentito qualcosa di simile, come udito e come sensazioni. Lui dice che la musica continua è la voce stessa nel pianoforte − grazie al cielo c’è qualcuno che è riuscito a farlo parlare, allora.

Melnyk ha una formazione classica ed è bravo. Comincia presto, però, a voler trovare qualcosa in più nella musica che compone e suona, e l’occasione gli arriva, racconta, nelle forme della ballerina Carolyn Carlson che gli chiede di accompagnare al piano le sue lezioni: «Ha trasformato me e la mia musica. Carolyn non camminava sulla terra, ma ci fluttuava sopra. “Dovunque la mente ti voglia portare, il tuo corpo ci arriverà” − questo è stato il suo insegnamento». Sono gli anni Settanta e sono davvero difficili per Melnyk, che spesso non ha soldi nemmeno per comprarsi da mangiare. Suonare il pianoforte diventa un modo per trasportarsi da un’altra parte, «un posto dove non moriremo mai. […] Il mio corpo si fondeva con il piano».
È per questo che non si può considerare il suo insistere sull’unicità della musica continua come una spacconeria o un vanto, per quanto i toni siano, a volte, fin troppo enfatici: arrivarci è qualcosa per cui ha dovuto pagare tanto, soprattutto fisicamente. E mentre ti racconta dei bimbi ricchi degli hotel per i quali si mette a improvvisare al piano o ti dice che è lui a controllare l’esplosione della musica, la voce rimane pacata, le mani si muovono un pochino ma appena possono si abbracciano e sostano sul petto. Quelle mani che appena si appoggiano sui tasti del pianoforte non si fermano − probabilmente è giusto il fatto che abbia dato dei nomi ai suoi pezzi e che ci tenga davvero tanto a presentarli e introdurli a farlo fermare, di tanto in tanto.
Ed è solo dopo aver letto alcune interviste, in cui Lubomyr parla della paura che la musica continua si fermi effettivamente con lui, che riesco davvero a capire il gesto che ha fatto al Primavera, alla fine della sua esibizione (la mia seconda volta a sentirlo). Ci ha spiegato che è ok non saper (ancora) suonare il pianoforte come lui, perché nemmeno lui sapeva farlo, quando ha iniziato: per questo alla fine ha le braccia piene di vinili e spartiti, che si è portato apposta, e che consegna uno per uno, di persona − è anche un passaggio di testimone.

Quando suono mi trasformo in un’aquila che vola, in un delfino che nuota, in un leopardo che corre. Mi trasformo nella pioggia, nelle nuvole, nel colore del cielo. Non sento più le mie dita − non ci sono dita, non c’è un corpo. C’è solo il piano, e ci sono io, e cantiamo insieme. (x)

Quando appare il 3 novembre 2015 sul piccolo palco di St-John−in−Hackney, Lubomyr ha appena detto che il piano è tutto quella che ha, è la sua intera vita. È educatissimo e rispettoso, anche quando suona. Parla piano, guarda spesso in alto − ma non quando si siede al pianoforte: lì sparisce, curvo sul suo strumento, e tutto si riempie di suono. Non c’è spazio per molto altro, ed è assolutamente diverso da quello che mi succede quando ascolto altri pianisti, come Einaudi, per esempio (per farlo facile e nostrano), che mi permette di accordare i pensieri a quello che sta suonando o di recuperare uno specifico brano per un mio specifico umore o ricordo. Melnyk è pacato e la sua musica prepotente − come l’acqua che scorre, come qualcuno che riprende a parlare dopo tanto tempo che tace. Tra le altre, quella sera, esegue Parasol − che sarà anche uno dei tre brani che sceglierà di suonare a Barcellona.
Ecco, diciamolo: non ricordo se sia stato su questo che ho pianto − perché a un certo punto mi sono sentita piangere, in modo assolutamente spontaneo. Probabilmente era commozione, di quel tipo che ti spunta quando senti che sei lì assolutamente per caso a testimonianza di una cosa unica al mondo. Però, sotto la versione registrata che ho linkato qui sopra, c’è un commento che dice «I cried listening to this but it was a cry of relief» [un pianto di sollievo] e forse è questo, in realtà, che provo quando ascolto Lubomyr Melnyk. Per esempio, quella sera, quando sono uscita dalla chiesa e c’era metà luna che splendeva prepotentissima, mi ricordo di aver tenuto le braccia conserte a stringere il cappotto e i tremolii e di aver detto «Mi ero quasi dimenticata che c’è bellezza. Sono felice di essere venuta. Grazie».

quella cosina sulla destra sono io che scatto la foto che trovate qui

quella cosina sulla destra sono io che scatto la foto che trovate qui

Fatevi un regalo: poco più di quattro minuti di ritratto, perché lui lo dirà sempre meglio di me o di chiunque altro.  Lubomyr Melnky − The Continuous Music Man 

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