Natalia Ginzburg: l’invincibile coraggio e l’ingenuità corsara – parte II

L’imperativo della sincerità e la critica sociale

La seconda parte del focus su Natalia Ginzburg si propone di illustrare la ricerca della verità quale obiettivo primario della sua scrittura, ricordando alcune figure fondamentali che hanno lucidamente colto questo aspetto e altre che lo hanno ispirato, e di saggiare la portata critica degli ultimi scritti.

Italo Calvino aveva un sincero rispetto dell’opera della Ginzburg, e si intuisce la singolarità di questa intesa, dato il sospetto che lo scrittore nutriva nei confronti della letteratura femminile: «Forse mai unaItalo-Calvino scrittrice ha saputo essere così femminile – ragazza, moglie, madre – in un senso così opposto a quello che s’intende di solito per “letteratura femminile” cioè all’abbandono lirico ed emotivo». Calvino intuisce d’altra parte, in un commento a Le piccole virtù, la vera ambizione della scrittura ginzburghiana; non si tratta di scrutare dentro l’anima dei personaggi, ma solo di rappresentarli, di metterli in scena, al fine di cogliere l’essenza veritiera di ogni singolo gesto umano. Questo è l’imperativo letterario, ma anche morale e comunitario, che la Ginzburg fa proprio. Determinante in questo senso l’insegnamento del primo marito, Leone.

Leone Ginzburg è innanzitutto un antifascista; fa parte al D’Azeglio della “confraternita” del Professor Augusto Monti, gobettiano, costituita da alunni brillanti, fra i quali Norberto Bobbio, Cesare Pavese e Vittorio Foa. Attraverso le parole di Petrignani, che evocano Corso Re Umberto, lungo il quale i fratelli di Natalia, Alberto e Mario, passeggiano tramando all’insaputa del padre, il tram 1, luogo di cospirazione prediletto, i salotti intellettuali, come quello di Giorgina Lattes, e il caffè Platti, dove si incontravano i fondatori dell’Einaudi, si respira l’atmosfera della Torino antifascista.

Al di sopra di tutte si staglia la figura di Leone, per Natalia padre saggio e sereno. Lungimirante e colto, battagliero e implacabile, già nel 1931 scriveva, forse prefigurando il proprio destino, sulla rivista Pegaso: «La storia ha esigenze inesorabili, che è meglio riconoscere con virile chiaroveggenza». Commoventi i passi scelti da Petrignani per evocare un uomo eroico, troppo spesso mutilato dall’amnesia che affligge la nostra realtà, dimentica del proprio passato, attraverso le parole della donna che ha amato.

«La cosa strana con questa persona, è che ci sentiamo sempre così bene e in pace, con un largo respiro, con la fronte che era stata sempre così aggrottata e torva per tanti anni, d’un tratto distesa» (Natalia Ginzburg, Piccole virtù).

L’ultima lettera del marito avrà per Natalia un’importanza imprescindibile, la conserva come un monito e un destino ineluttabile: le affida infatti compiti cui non potrà più sottrarsi. Deve scrivere e pubblicare, lavorare, essere sinceramente utile agli altri e rimanere vicina al mondo di costoro, «per il quale io ti ero così spesso l’unico ponte di passaggio», ma soprattutto deve essere coraggiosa.

«Come ti voglio bene, cara. Se ti perdessi, morirei volentieri […]. Ma non voglio perderti, e non voglio che tu ti perda nemmeno se, per qualche caso, mi perderò io […]. Ti amo con tutte le fibre dell’essere mio […]. Ti bacio ancora e ancora e ancora. Sii coraggiosa».

Gli anni successivi alla morte di Leone e alla fine della guerra sono così descritti in Lessico famigliare: «E il tempo che seguì fu come il tempo che segue all’ubriachezza, e che è di nausea, di languore e di tedio; e tutti si sentirono, in un modo o nell’altro, ingannati e traditi: sia quelli che abitavano la realtà, sia quelli che possedevano, o credevano di possedere, i mezzi per raccontarla».

Petrignani si sofferma a lungo su un’altra perdita, quella di Pavese, che sconvolge e turba il fragile equilibrio della Ginzburg, che dall’amico aveva appreso a concentrarsi sulle parole vere, senza dispersioni. Si spiega illessico famigliare suo suicidio accusando il “silenzio diabolico” che troppo spesso ha come esito la morte prematura. Insieme a Mila e a Calvino, Natalia Ginzburg prepara per la stampa il Mestiere di vivere; poetico il ricordo evocato, «questo viale e il caffeuccio sul viale, fu la tua camera, la finestra sulle cose» e così il ritratto in Lessico famigliare, «la sua ironia è la cosa di lui che più ricordo e piango, perché non esiste più: non ce n’è ombra nei suoi libri, e non è dato ritrovarla altrove che nel baleno di quel suo maligno sorriso».

I lutti e le delusioni amorose, le difficoltà legate al successo e all’insuccesso, il rapporto di interdipendenza e indicibile affettuosità con la figlia disabile Susanna, temprano il carattere di Natalia, la cui ricerca della verità e il cui senso di giustizia la elevano al di sopra del disordine catastrofico e in disfacimento della realtà in cui si specchia. Gli articoli composti in collaborazione con le testate giornalistiche e il periodo nel quale siede in Parlamento come deputata, riflettono il suo temperamento e costituiscono un’occasione per ribadire la propria concezione di impegno sociale. Adempiendo così alle richieste di Leone, la Ginzburg denuncia le derive della società contemporanea, che vede in continuo mutamento verso una meta fatale seppur nebulosa.

In Vita immaginaria Natalia sostiene: «Il successo non significa nulla, né in bene, né in male», la felicità «era un tempo in cui non ci chiedevamo mai se eravamo e saremmo riusciti a essere dei protagonisti».

«Lo strano è che questa nebbia che c’è nei manoscritti dei romanzi, è presente ovunque […]. Nella nebbia, diventa impossibile distinguere il grande dal piccolo; il bene dal male; i colpevoli dagli innocenti; il falso dal vero» (Natalia Ginzburg, Chi ha paura di scrivere chiaro? “La Stampa”, 1981).

La critica alla società si fa sempre più aspra, ma, come sottolinea la Petrignani, non sfocia mai nel conservatorismo o nell’arbitrarietà del giudizio, pur assumendo spesso toni comici nella loro alterigia: «Il caffelatte, come le pantofole, sembra stia scomparendo dalla faccia della terra. Girano uova strapazzate e sughi di frutta in bottiglia: e una sostanza orribile, scura e untuosa, che si spalma sul pane e che si chiama Nutella» (Natalia Ginzburg, I lavori di casa, “La Stampa”, 1969).

Natalia Ginzburg riconosceva nella scrittura una seconda natura. Per questo, Sandra Petrignani le dedica una frase di Elsa Morante: «La mia intenzione di fare la scrittrice nacque per così dire insieme a me».

Nella Prefazione a Cinque romanzi brevi si legge: «Non dobbiamo mai cercare, nello scrivere, una consolazione. Se c’è una cosa sicura è che è necessario scrivere senza nessuno scopo». L’attività prediletta rimane la traduzione: tra le tante, quella di Madame Bovary per la collana Einaudi “Scrittori tradotti da scrittori”. Nella nota del traduttore, Natalia Ginzburg afferma, con toni che ricordano quelli di Primo Levi traduttore di Kafka: «Tradurre è servire […]. Essere formica e cavallo insieme. Il rischio è sempre di essere troppo cavallo o troppo formica. L’una e l’altra cosa sciupano l’opera. La lentezza non deve apparire, deve apparire la corsa del cavallo soltanto. Le parole nate così adagio non devono apparire striscianti o morte, ma fresche, viventi e impetuose. Il tradurre è dunque fatto di questa contraddizione insanabile». L’ultimo lavoro che porta a termine, ormai malata e costretta a letto, sarà proprio una traduzione, quella di Une vie di Maupassant, a dimostrazione della sua anima instancabilmente corsara.

Photocredit: Salteditions, Ibs, Wikipedia

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