Noi della generazione Betty, tra L’amore e la violenza

Immaginate di essere nati negli anni Novanta, e di aver vissuto per diciotto in una città calda e appiccicosa del sud, per cinque in una città dotta, grassa e rosa shocking e poi di essere finiti a Milano. Nella capitale italiana del consumismo e dell’individualismo, della moda e dell’apericena, degli stagisti e dell’isolamento emotivo, della mondanità che non rende felici e dell’esibizione grossolana di ogni felicità. Immaginate di trovarvi a Milano, o in una città che somigli a Milano, da due anni; e di non trovarvi affatto da due anni, che chissà dove sono finite la vostra spontaneità, le chiacchierate trasparenti delle quattro del mattino, la bella sensazione di essere l’ essere umano che avreste voluto essere.

Immaginate tutto questo: la fatica, le microfratture raccolte attorno al cuore, i sensi di colpa e quello d’inadeguatezza, la lucida coscienza di essere diventati estranei persino a voi stessi. E poi ascoltate quella cosa meravigliosa e dolorosa insieme ch’è il nuovo cd dei Baustelle, L’amore e la violenza.

quadratasocialComposto di 12 tracce, di cui la prima strumentale a chiudere il vecchio cd più che a introdurre il nuovo, L’amore e la violenza è uscito il 13 gennaio scorso, e tanti ne hanno parlato in queste due settimane. Quelli che ne hanno parlato meglio sono stati quelli che ne hanno parlato male, perché per noi, che non potremmo che dirne bene, è difficile dire come e per quali motivi questo cd ci commuova, diverta, inquieti, intristisca, rallegri e, soprattutto, conforti.

Un motivo potrebbe essere il bilancio a cui questo cd ci obbliga: eravamo noi gli adolescenti di Sussidiario illustrato della giovinezza (2000), e siamo diventati gli adulti di L’amore e la violenza. Tali e quali. Noi, non il cinquantenne che scrive sul Fatto che i Baustelle gli stanno sul cazzo ed è pagato per farlo. E nemmeno i trentacinquenni poser del disincanto assoluto, convinti – stupidamente – che i pareri positivi siano sempre ingenui o superficiali, se non entrambe le cose.

Un altro è che questo cd parla di noi che non abbiamo vissuto gli anni Settanta e ce ne dispiacciamo, di noi che soffriamo della sindrome dell’esclusione storica perché quanto di più bello, di più grande e importante in ogni campo è stato prima di noi. Di noi che godiamo più a raccontare la vita che a vivere, di noi che non distinguiamo nettamente le cose tra loro: il vero dal verosimile, la poesia dal pessimismo spicciolo, l’utile dal necessario, il senso critico dalla polemica sterile, l’indie dal pop, l’arte dai nostri occhi, l’inizio dalla fine, l’amore dalla compagnia e l’assenza dalla solitudine. Di noi che abbiamo un’idea confusa e contraddittoria di ogni cosa, ma che sentiamo di non riuscire a guardare in altro modo il mondo. O noi stessi.

La copertina di Sussidiario illustrato della giovinezza (2000)

La copertina di Sussidiario illustrato della giovinezza (2000)

Un altro motivo ancora, il più importante, è che questo cd non solo parla di noi, ma parla a noi, e ci dice, tra i versi, che tutto quello che siamo, tutto quello che viviamo, nella sua bruttura e nella sua schizofrenia, è ineluttabile. Non si può rifuggire, non si può evitare, né ci si può sentire a proprio agio, comodi, dentro la vita. Eppure, cantano Bianconi e Rachele Bastreghi, anche se la vita è tragica e stupida è bellissima, e non bisogna avere mai paura, stare male per qualcosa che non  è, tremare mai la sera. Piuttosto, ci si deve ricordare che si sta giocando un gioco senza vincitori.

Arriviamo al punto.

C’è un gruppo italiano che fa buona musica e scrive buoni testi da vent’anni. Un gruppo con un cantautore colto che non si compiace della propria cultura e non la esibisce sfacciatamente, ma cita Prévert senza dire Prévert, cita d’Annunzio accostandolo al limite massimo di amici su  Facebook e cita Viola Valentino di Comprami e Battiato, o Guccini, con la stessa, innocente ammirazione. Un gruppo che ha un’idea chiara sul tipo di musica e sul tipo di canzone che vuole produrre, in un periodo storico in cui il concetto di poetica sta scomparendo.

Nel piatto panorama musicale italiano, questo gruppo tenta di rendere popolare una musica meno leggera del solito, di scoppiare la bolla della canzone di nicchia colta e  riflessiva e di entrare a gamba tesa in quello della musica nazionalpopolare, fatto delle radio che passano Rovazzi e GiGGi d’Alessio, le trite e ritrite canzoni d’amore con un vocabolario di massimo cento parole, le giovani voci delle etichette discografiche internazionali. È la prima volta, dai tempi del cantautorato della Scuola genovese, e in particolare da Tenco, che qualcuno ci prova.

Nel farlo, non c’è alcun intento moralistico o pedagogico. Non siamo più davanti a Fantasma, ch’è un’opera sinfonica difficile, ostica, destinata a un pubblico ristretto. Siamo davanti a un cd orecchiabile, dalle sonorità pop (ci sono tanti minimoog e tanta tastiera, tantissimi sintetizzatori analogici, poca batteria) e dalle rime facili, più o meno comprensibile a tutti, persino breve: appena 40 minuti. Siamo davanti a un cantautorato che vuole esserci simile, non superiore, e che vuole confortarci, non rimproverarci per la vita che conduciamo e insegnarci a vivere meglio.

I Baustelle nel 2016

I Baustelle nel 2016

Io lo trovo un esperimento straordinario dalla portata immensa, che per il momento non è stato compreso ma a cui – come è stato per Fantasma –  il tempo renderà merito. Questo gruppo si chiama Baustelle, e per primo ha intuito che l’indie è il nuovo pop e che il pop – come il romanzo all’inizio del Novecento – non è un genere musicale basso, ma un genere dalle straordinarie potenzialità, che può anche spiegarci Epicuro senza nominarlo mai.

Se non riuscite a capire questo, vi è inutile immaginare.

 

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