Non è che senta qualcosa – Ho sentito qualcosa. Chi abita il Bestiario di Cortázar? #cortazar100

Se sparisco di colpo nel mezzo di una frase, non mi sorprenderò troppo. (Alcuni aspetti del racconto)

Pubblicato nel 1951, quando Cortázar decide di stabilirsi definitivamente a Parigi, Bestiario non è solo la sua prima raccolta di racconti: si tratta di uno spazio che lo scrittore dà da abitare a una marea di non-fantasmi, che entrano indisturbati e si accomodano alla meglio con l’aiuto dei protagonisti, come in Lettera a una signorina a Parigi, o con un po’ di silenziosa prepotenza, come in Casa occupata.
Questi non-fantasmi non sono un’invenzione di Cortázar: esistono nella realtà di ogni giorno, condividono il nostro tetto e spesso la nostra pelle. Raramente troveremo in Bestiario qualche evento eccezionale, qualche rivelazione eclatante, qualche stupore  spettacolare: non ci deve trarre in inganno la definizione di “fantastico” con cui viene classificata la scrittura cortazariana, piuttosto nelle sue opere «l’eccezionalità risiede in una qualità paragonabile  a quella della calamita»¹. L’elemento fantastico, infatti, non viene né indicato né descritto, ma crea la tensione che sostiene l’intero racconto: grande amante del jazz, Cortázar conosce l’importanza del ritmo per la prosa, del calibrare le parti e  le pause per costruire qualcosa che si crei e srotoli davanti agli occhi del lettore. Il fantastico di Cortázar è al massimo un inaspettato senza sorpresa. Quest’effetto è rafforzato dall’utilizzo di un linguaggio piano, quotidiano, che non vuole offrire spiegazioni ma al massimo descrivere, e agendo per sottrazione di senso mostra la precarietà della realtà “così come la conosciamo noi”.  

La mia esperienza mi dice che, in qualche modo, un racconto breve non ha una struttura di prosa, […] ho sentito fino a che punto l’efficacia e il senso del racconto dipendessero da quei valori che danno alla poesia e anche al jazz il loro carattere specifico: la tensione, il ritmo, la pulsazione interna, l’imprevisto dentro parametri pre-visti, quella libertà fatale che non ammette alterazione senza una perdita irreparabile.²

Abbiamo parlato di non-fantasmi perché, a tutti gli effetti, quello di Cortázar  è un «fantastico senza fantasmi», come lo ha definito Ernesto Franco: nessuno caccia di casa i protagonisti del primo racconto di Bestiario, nessuno minaccia i passeggeri di Omnibus, nessuno si stupisce delle cure da dedicare alle mancuspie. Si tratta più che altro di una sensazione riconducibile allo spaesamento,  inteso come «sentimento di chi non si riconosce nel territorio che abita», continua Franco: «Scrivo per deriva, per dislocamento» amette Cortázar. In contrapposizione a quegli scrittori che prediligono le apparizioni istantanee ed effimere del fantastico oppure che optano addirittura per «un full-time del fantastico, invadendo la quasi totalità dello scenario con un gran spiegamento di cotillon soprannaturali»², troppo calcolati e artificiali, Cortázar si muove in bilico, «al margine di un qualunque realismo troppo ingenuo»¹,  nel quale ricerca l’alterazione momentanea ed eccezionale che tuttavia non altera le regole ordinarie.
La forma letteraria scelta per la maggior parte della propria produzione non è un casuale: cosciente che il racconto sia una forma prediletta nel Sudamerica ma ancora poco praticata nella Francia di quegli anni,  Cortázar sceglie la condensazione, la tensione e l’equilibrio che contraddistinguono anche, ad esempio, la fotografia rispetto al cinema. Mentre un film può godere di uno sviluppo anche non lineare dal punto di vista cronologico ma presentarne uno logico, che, esattamente come avviene nel romanzo, si avvale di un accumulo di elementi e significati, una fotografia (o un racconto) deve operare, al contrario e da subito, una scelta oculata e di massima resa del proprio materiale significativo: nulla è gratuito nel racconto, che è «una sintesi vivente e insieme una vita sintetizzata»¹. Questo è il grande merito che Cortázar trova nei propri colleghi sudamericani: «Scrivevano in modo teso, mostravano in modo intenso. Non c’è altro modo perché un racconto sia efficace, faccia centro nel lettore e si conficchi nella sua memoria»¹. La forma perfetta che deve avere il racconto, per il nostro scrittore, è quella sferica: la situazione narrativa deve scaturire e crearsi all’interno, arrivando alla tensione massima ma sempre perfettamente contenuta. Per essere davvero efficace, il racconto «deve nascere ponte, deve nascere passaggio»¹ e portare con sé il lettore, operando un vero e proprio rapimento; Cortázar mette al mondo la scrittura avvicinandosi a una massa informe e svelandola pian piano, rischiarandola con le parole, per donarla ai propri lettori.
È tutto questo a fare del racconto un genere «così segreto e ripiegato in se stesso, chiocciola del linguaggio, fratello misterioso della poesia in un’altra dimensione del tempo letterario»¹.

E di gioco tra dimensioni dell’arte tratta anche la rubrica che Veronica Leffe ha curato per Terranullius in occasione del centenario della nascita di Julio Cortázar: otto lavori di illustrazione, fotografia e pittura per gli otto racconti di Bestiario, tutti visibili qui.
Ho scelto tre racconti (e tre illustrazioni, quindi) per scoprire dove abiti il fantastico cortazariano.

 

illustrazione di Guido Volpi per il racconto "Bestiario"

illustrazione di Guido Volpi per il racconto “Bestiario”

Bestiario. Il racconto che dà il nome alla raccolta è anche quello che la conclude, e ad abitare quest’ultima casa è una tigre. Ma non è la sola presenza animale che si muove per la proprietà: formiche nere e rosse, lumache azzurre, cani da guardia, «bestioline dell’umidità», persino un mamboretá sulla tovaglia. Nessuna spiegazione sul perché un animale tanto pericoloso come una tigre si aggiri nella villa dei Funes: si sa solo che bisogna evitare la stanza in cui ha deciso di fermarsi in quel momento. E allora i personaggi danzano tra i corridoi e le scale, ritmando la giornata in base agli spostamenti della tigre, proprio come avveniva nel primo racconto del libro, Casa occupata, e con la stessa naturalezza: «Il bagno era due porte più in là (ma interne, per cui vi si poteva andare senza dover prima assicurarsi dove si trovava la tigre)»³. Tra tutti i personaggi (tanti) e gli animali (ancora di più) che abitano la villa, la tigre è l’unica che non si vede mai, ma, alla fine, è anche l’unica a fare proprio ciò che ci si aspetta da lei.

[…] l’intero acquario della sua precedente venuta a Los Horneros. Tutto più minuto, più di vetro e rosa, senza la tigre allora, con don Nicanor meno bianco, appena tre anni fa, Nino rospo, Nino pesce, e le mani di Rema che facevano venire voglia di piangere e di sentirle eternamente sulla testa, in una carezza quasi di morte e di vaniglia con crema, le due cose migliori della vita.³

 

illustrazione di Fabio Pini per il racconto "Lettera a una signorina di Parigi" - Terranullius

illustrazione di Fabio Pini per il racconto “Lettera a una signorina di Parigi” – Terranullius

Anche Lettera a una signorina a Parigi è ambientato per lo più al chiuso: il protagonista scrive ad Andrée, il cui appartamento in via Suipacha sta al momento abitando, quasi per scusarsi. «Non tanto per i coniglietti» chiarisce subito, alla seconda riga, quanto per la rottura nell’ordine della casa che la presenza di un estraneo avrà sicuramente portato: «Muovere quella tazzina altera il gioco di corrispondenze di tutta la casa, di ciascun oggetto con l’altro, di ciascun momento della sua anima con l’anima intera della casa e con la sua lontana inquilina»³.  Ma che cosa fanno, esattamente, questi coniglietti?
Niente. Escono, nascono. Da dove? Ma dalla bocca, dalla pancia del protagonista, ovviamente (?). Il bisogno di vomitare un coniglietto ogni tanto, con cadenza più o meno mensile, lo accompagna da parecchio, stando alla dichiarazione che contiene la Lettera, così  tanto che è diventata una piccola abitudine prendersi cura degli animaletti che mette al mondo. L’arrivo nel nuovo appartamento di via Suipacha sembra però aver messo in agitazione i coniglietti, che cominciano a nascere con cadenza giornaliera. Il protagonista, che rivela di aver scelto di cambiar casa con l’intento di riposarsi, si affatica invece tutto il giorno affinché i coniglietti non rovinino i tappeti, i libri, l’interno degli armadi, almeno finché c’è pazienza, almeno finché c’è forza, almeno finché c’è voglia, finché non ci si rassegna.

 Personalmente continuo ad avvertire la presenza di qualcosa che si trova dall’altra parte delle cose, per questo non smetterò mai di cercare. (1977)

Non tutti i racconti che compongono Bestiario hanno un finale tragico − “tragico” non è la parola corretta, perché di sentimenti forti non sembra sia possibile trovarne in tutta la raccolta. Sono più suggestioni, accenni, tutti in piano, leggeri, come a non volerci far preoccupare troppo.

illustrazione di Daniela Tieni per il racconto "Lontana" - Terranullius

illustrazione di Daniela Tieni per il racconto “Lontana” – Terranullius

E di suggestioni è composto anche Lontana. Diario di Alina Reyes, il terzo racconto della raccolta. La protagonista, Alina, stavolta è lei a essere abitata da una presenza “altra”, e quest’altra è una donna come lei, ma è diversa da lei, è con lei ma non è lei ed è in lei ma continua a non essere lei: è da qualche parte, lontana, e va cercata. Anche perché la sua presenza − che errore: la sua assenza sta cominciando a farsi ralmente forte e prepotente che Alina arriva a  sentirsi entrare la neve che cade nella città della sconosciuta nelle scarpe anche mentre balla al chiuso con Luis María. Sembra quasi affrettare il fidanzamento e volere il matrimonio solo per poter partire per la città della sconosciuta, che nel frattempo ha scoperto (ma in che modo?) essere Budapest, in viaggio di nozze, e finalmente trovare il ponte dove dovranno incontrarsi (ma quando?): «Non è che senta qualcosa. So solamente che è così, che in qualche posto attraverso un ponte nell’istante medesimo (però non so se è nell’istante medesimo) in cui il ragazzo dei Rivas prende la tazza del tè e fa la sua migliore faccia da scemo.»
Nel frattempo, però, tutto come al solito: va alle feste, gioca agli anagrammi, accompagna col canto un’amica al pianoforte, ascolta le esecuzioni di Bach e Brahms. Finalmente, il viaggio di nozze: il diario viene abbandonato per passare a una sorta di cronaca in terza persona,  che vuol forse anticipare il passaggio di Alina sul ponte, l’incontro con la Lontana, il passaggio di Alina alla Lontana? Ma avviene veramente, poi, questo passaggio, o è solo un bisticcio, un intrico, una giravolta di parole?

 «Uno dei miei ricordi d’infanzia è vedermi, malato (sono stato un bambino molto cagionevole di salute, passavo lunghi periodi a letto con asma o pleuriti o cose del genere) è vedermi, dicevo, scrivere col dito parole sul muro. Tendevo il dito e scrivevo parole, le vedevo prendere corpo nello spazio. Parole che già da tempo erano parole-feticcio, parole magiche […] Da quel momento ho cominciato a giocare con le parole, a slegarle sempre più dalla loro utilità pratica e iniziare a scoprire i palindromi, che si sono poi notati nei miei libri.» (da un’intervista di Omar Prego a JC)

Il perturbante che dovrebbe abitare il fantastico (che ci aspettiamo di trovare nel fantastico, a voler dirlo meglio) saetta sulla superficie riflettente che regge in mano e direziona Cortázar e si trasferisce invece sulla realtà, sul quotidiano, sull’ordinario che, perdendo tutta la funzione  normalizzante e tranquillizzante che dovrebbe contraddistinguerlo, si carica invece di elementi ambigui e sfuggenti persino all’aguzzarsi degli occhi del lettore che segue col dito l’andamento della storia e che si trova di fronte alla repentina conclusione del racconto col dito a mezz’aria, che indica il vuoto.

BB (brevissima bibliografia)
Saggi brevi: ¹ JC, Alcuni aspetti del racconto, 1962 e ² JC, Del racconto breve e dintorni, 1969
³ JC, Bestiario, traduzione italiana di Flaviarosa Nicoletti Rossini, Einaudi, Torino 1996

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