Oscar Wilde: breve elogio dell’immoralità

Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Questo è tutto.

Prima dei baci Perugina, prima degli stati su Facebook e dei tatuaggi sull’ avanbraccio, questa fu una frase di Oscar Wilde, scritta nella prefazione di un romanzetto chiamato Il ritratto di Dorian Grey.

Un libro scritto bene.

Nato tra un boccone e l’altro a cena con J.M. Stoddart.

Nel settembre 1889, l’editore americano cercava a Londra carne fresca per la sua rivista Lippincott’s Monthly romanzoMagazine. Invitò così a cena due ragazzi: Arthur Conan Doyle e Oscar Wilde. E devono aver mangiato proprio bene, perché frutto artistico di quel simposio furono: Il segno dei quattro di Doyle, seconda avventura e consacrazione di Sherlock Holmes dopo Uno studio in rosso; e Il Ritratto di Dorian Gray, storia che Wilde aveva già raccontato ai suoi amici in parte e che forse trovò un risvolto più giallo proprio in quella serata.

Quando l’editore gli chiese almeno 100.000 parole del racconto, Wilde rispose: «non ci sono 100.000 belle parole nella lingua inglese.»

Ma facciamo un passo indietro.

Il 16 ottobre 1854 Dublino accoglieva tra le sue braccia un bambino destinato a far parlare di sé. Quel bambino era Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde, o, per gli amici, Oscar Wilde.

Oscar non in onore della statuetta hollywoodiana (che sarebbe nata solo 75 anni dopo), ma in riferimento alla mitologia irlandese. Oscar era infatti il figlio di Oisin (Ossian per i letterati) destinato a rimanere per sempre giovane. Vi ricorda qualcosa?

Tra i nomi preferiti del Nostro, anche Wills Wilde (come si faceva chiamare all’università) e Sebastian Melmoth, pseudonimo da lui adottato dopo essere uscito di prigione, in omaggio al protagonista di Melmoth the Wanderer, romanzo scritto dallo zio materno Charles Robert Maturin.

Wilde affrontò infatti un processo per sodomia, quando fare l’amore era ancora un crimine, con l’accusa di “gross public indecency”. Prova regina, un libro: Il ritratto di Dorian Grey. Curioso è che fu usato da accusa e difesa, data l’ambivalenza e la sottigliezza di rimandi e interpretazioni possibili.

È indubbio comunque che il libro fu uno dei primi a suggerire non poi tanto sottovoce un contenuto omosessuale.

Lord Hanry, maggior corruttore di Dorian, è sposato, anche se la moglie non si vede e il divorzio viene presentato quasi come una liberazione. Dorian anela una fanciulla e poi diventa seduttore seriale di donne e forse non solo. Basil è scapolo e la sua passione per Dorian viene presentata come unica ragione di vita.

Basil Hallward è quello che credo di essere: Lord Henry, quello che il mondo mi ritiene: Dorian è quello che mi piacerebbe essere.

Il romanzo è il manifesto poetico dell’autore e il centro motore dell’arte di Wilde è il peccato. (Articolo di James Joyce apparso sul «Piccolo della Sera» di Trieste, 24 marzo 1909, e scritto in italiano dall’autore).

Lo snodo narrativo principale è il patto col diavolo, che, come da copione, avviene in giardino, selva oscura e lussuriosa, da sempre e per sempre centro nevralgico di perdizione, preludio dell’Inferno.

È lì che si consuma l’errore fatale di Grey, che, come Faust e Melmoth prima di lui, vende la sua anima in cambio del oscar wildedono supremo della giovinezza. Dorian, però, non sbaglia per penuria di virtù, ma per aver macchiato l’arte (rappresentata dal quadro) con la fetida impronta dell’etica e della moralità. Per aver aperto la ferita della corruttibilità sulla pelle eterea dell’estetica. Per aver mortificato la forma con la sostanza.

Un romanzo sulla corruzione dell’uomo, che può essere tutto, tranne che ragionevole.

Un’epopea moderna sul titanico tentativo di combattere la decadenza carnale, che degrada l’uomo in bruttezza e materia di scarto.

Un romanzo che si fa testamento poetico e morale dell’autore, anche se di moralità non si potrebbe proprio parlare. Il pensiero è infatti per natura brutto, come qualsiasi elemento contingente, in quanto porta su di sé il marchio etico.

Una poetica tutta platonico-idealistica, che fa della bellezza una religione e del gusto estetico una mitologia.

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