Parigi, era il 12.02.2016 – Visita al Cimitero di Montmartre


Anche quest’anno è ormai finito e, dovendo scegliere un’opera che lo rappresenti, mi rendo conto di non riuscire a decidermi. Penso ai film che ho visto, ai libri che ho letto, ma niente. Nulla che ricordi con trasporto. D’altronde, quando si entra in contatto con un’altra cultura, è difficile isolarne i componenti, risalire alle singole influenze, e del mio soggiorno in Francia conservo appunto questo: un’impressione sfocata. (Forse per i troppi festini).

Ricordo però bene, e in maniera assai distinta, la sensazione che provai arrivando a Montmartre. Parigi, per chi ama i cimiteri, è un piccolo paradiso monumentale, e più ancora che la meringa del Sacre Coeur, quel pomeriggio, ci tenevo a visitare i miei idoli. Entrai, dopo essermi già perso al Père-Lachaise, con l’animo rassegnato di chi varca un labirinto, trovandomi, al contrario, circondato dal rigore. Le cose erano esattamente come avrebbero dovuto essere. O almeno così mi parve entrandovi.

Memore dei chilometrici giri a vuoto, e non avendo alcuna mappa con me, scattai una foto al cartello d’ingresso, rischiando così di assiderarmi le mani. In ogni caso, seguendo i percorsi che mi suggeriva, arrivai senza fatica alla tomba di Stendhal. Avevo vissuto per cinque mesi nella sua città natale, Grenoble, e visitato da poco il suo misero appartamento. «Tout ce qui est bas et plat dans le genre bourgeois me rappelle Grenoble, tout ce qui me rappelle Grenoble me fait horreur» aveva detto con alterigia da provinciale. E ora, sulla sua lapide, leggevo invece: «Arrigo Bayle. Milanese. Scrisse. Amò. Visse». Milano, ossia tutto ciò che è piatto e borghese. Mi allontanai da quella testina volendogli, se possibile, ancora più bene.

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Stendhal: per chi (non) ha letto “La Certosa di Parma”

Non fu altrettanto facile trovare Truffaut. Il romantico che è in me si aspettava, forse, di venir guidato da una folla di donne devote, come quelle che si vedono in L’homme qui amait les femmes. Di loro però nessuna traccia, e, purtroppo, nemmeno di Fanny Ardant. Arrivai invece lì per puro caso, attratto da un monolite nero che ricordava, più che le sue pellicole, 2001: A space odissey. Su questa lapide, leggermente inciso sul marmo, si leggeva a malapena il suo nome; due rose, una bianca e una rosa, erano poggiate sulla lastra con finta noncuranza, fissate tutte e due dalle pioggia. La tomba più bella che abbia mai visto.

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Truffaut: per i fan della chambre verte

Molto più appariscente, come prevedibile, era quella di Dalida. Arrivarvi non fu così difficile e, prima ancora di capitarci davanti, capii di essere nel posto giusto quando, incrociandomi, una checca mi sorrise. «Ma vie a brûlé sous trop de lumière, je ne peux pas partir dans l’ombre. Moi je veux mourir fusillée de laser, devant une salle comble» canticchiavo avvicinandomi. Qualche giorno più tardi, in attesa di un treno che avrei perso, leggevo in un giornale le sue ultime parole: «Pardonnez-moi. La vie m’est insupportable». Le aveva scritte poco lontano da lì, nella sua casa in Rue d’Orchampt, prima che il sipario calasse su di lei e la lasciasse sola sul palco.

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Dalida: per chi ama le drama queen

Sopra la sua tomba, e quella di mille altre persone, svetta ora un cavalcavia in acciaio. Centinaia di vetture lo attraversano ogni giorno; i pedoni sono invece pochi, e quasi nessuno che si affacci dalle grate. A qualche isolato di distanza, turisti preferiscono fotografare il Moulin Rouge e, non potendovi entrare, la sera ripiegano sulle peggio bettole. Un po’ come me, che idolatro i classici e leggo Vanity Fair. Che, indeciso se parlare di Molière, finisco per citare canzoncine, e passeggiare tra i plinti invece che al Louvre.

(Visitate anche quello, comunque!)


Photo credits: Massimo Mordini

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