Pensieri intorno a una vita alla ricerca dell’imperfezione: Rita Levi-Montalcini

Rendere mitologici i personaggi che fanno parte della storia culturale italiana sembra essere una sorta di specializzazione nostrana, e il caso di Rita Levi-Montalcini non è da meno. Sentiamo che indiscutibilmente appartiene alla nostra storia recente e allo stesso tempo che ci precede in molti modi. La ammiriamo, le riconosciamo saggezza e lucidità, pubblicamente rafforzata dalla nomina a Senatrice a vita, ma non possiamo fare a meno di avvertire anche una certa distanza reverenziale, data forse dall’eleganza dell’abbigliamento e della pettinatura, certamente dalla piana naturalezza con cui comunicava la sua conoscenza, che finisce per unirsi a quella sorta di disagio che proviamo sempre noi posteri giovani (categoria terribile, ma ne parliamo un’altra volta) nei confronti di chi ha attraversato e superato per intero il secolo scorso.

La lettura della sua autobiografia, Elogio dell’imperfezione, uscita per la prima volta nel 1987, a un anno dal Nobel, e che io ho letto nella versione e-book aggiornata, mi ha aiutata ad avvicinarmi a un lato della Montalcini che altrimenti avrei difficilmente potuto conoscere. Con le autobiografie non ho un buon rapporto, credo, tant’è che le mie due preferite non sono riconoducibili pacificamente a questo genere letterario: una è il Diario di una scrittrice di Virginia Woolf, edito per la prima volta in Italia con grandi opere di taglio e censura da parte del marito Leonard, e l’altra è W o il ricordo d’infanzia di Georges Perec, dove al racconto distopico si affiancano ricordi sparsi della primissima infanzia dell’autore, che sono spesso ricostruzioni immaginifiche e suggestive. In entrambi i casi, la sensibilità dell’autore, scrittore di professione, interviene pesantemente sulla lingua e nell’esposizione-rielaborazione dei fatti. Elogio dell’imperfezione, invece, è scritto con piena padronanza del buon italiano (anche se ci sono numerose incursioni dell’inglese, date dalla lunga permanenza negli Stati Uniti), tanto scientifico quanto letterario. «Il linguaggio, che rappresenta il maggiore privilegio che sia stato dato all’uomo»,  è usato con pienezza nella sua doppia sfumatura, quella comunicativo-divulgativa e quella evocativo-affettiva: si alternano, infatti, in quattro sezioni,  momenti dedicati ai ricordi familiari e personali ad altri di carattere più scientifico, se non proprio tecnico.

Due cose, strettamente collegate, mi hanno positivamente impressionata lungo la lettura: la pazienza che la Montalcini ha sempre messo nei suoi progetti, conscia che la ricerca necessitasse di tempo e costanza, che andasse condotta anche in situazioni precarie e con strumenti spesso di fortuna (come durante il periodo prebellico, in cui gli ebrei furono allontanati anche dagli ambienti universitari), in un momento storico in cui «l’istologia era un’arte più che una scienza», e il fatto che la ricerca fosse condotta instancabilmente soprattutto là dove qualcosa non funzionava. Il suo obiettivo era ricercare dove il sistema devia e non, come le veniva assegnato nei primi tempi dell’internato, dove i numeri si corrispondono e confermano ripetutamente. I suoi studi e interessi, dedicati anche ai tumori e al cervello, prendono sempre in considerazione l’evoluzione come processo disarmonico: «Il fatto che l’attività svolta in modo così imperfetto sia stata e sia tuttora per me fonte inesauribile di gioia, mi fa ritenere che l’imperfezione nell’eseguire il compito che ci siamo prefissi o ci è stato assegnato sia più consona alla natura umana così imperfetta che non la perfezione».

Ho tentato […] di conciliare due esperienze inconciliabili, secondo il grande poeta Yeats: Perfection of the life, or of the work.

Tra tutte le ricerche che la Montalcini ha condotto, ce n’è una che l’ha occupata per molto più di trent’anni, facendola viaggiare continuamente tra Stati Uniti e Italia, ma che è anche collegata a una data ben precisa: «Il 10 dicembre 1986 segnava la fine della vita errabonda del Nerve Growth Factor e la sua ammissione ufficiale nella comunità scientifica» tramite nientemeno che l’assegnazione del Premio Nobel per la Medicina, con questa motivazione: «a fascinating example of how a skilled observer can create concept out of apparent chaos». Ancora una volta, torna la parola caos (o disarmonia) nel lavoro della Montalcini, ed è stata proprio la casualità a dare una svolta alla ricerca: invece che l’invio di campioni portatori del tumore maligno s180, un giorno ne ha ricevuti nel laboratorio un paio portatori di s37, con cui ha continuato a sperimentare comunque i trapianti che stava conducendo. Sono stati passi difficili persino da leggere, ancor prima che comprendere, per me, che non sono del settore e me ne intendo davvero pochissimo, non poco. Tuttavia, ho trovato questo buon riassunto nell’appendice aggiornata dell’autobiografia e qui riporto qualche estratto:

«La scoperta che fibre nervose potessero superare barriere normalmente impermeabili al loro accesso, quali le tonache dei vasi venosi, penetrare nel sistema circolatorio e allo stesso tempo ramificarsi in modo caotico in organi embroniali, veniva considerata come un fenomeno abnorme. […] I risultati conseguiti dimostravano infatti che il sistema nervoso in via di sviluppo è modulato nella sua struttura e funzione da fattori umorali rilasciati da tessuti neoplastici o normali, e allo stesso tempo evidenziavano l’enorme plasticità di questo sistema. L’interpretazione del fenomeno sconvolgeva la tesi universalmente accettata che il sistema nervoso centrale e periferico fosse rigidamente programmato in tutte le sue componenti. […] Questi [di altre ricerche] reperti dimostravano che il NGF è coinvolto nell’attivazione e sintesi da parte di cellule appartenenti ai tre sistemi preposti all’omeostrasi dell’organismo – nervoso, endocrino e immunitario – che operano in continua e reciproca interazione a livello strutturale e funzionale. […] La scoperta del significativo aumento dei livelli sierici di NGF in condizioni di stress e in stati emozionali ansiosi, evidenziati sia in modelli sperimentali (roditori) sia nell’uomo, hanno dimostrato che il NGF esercita un ruolo funzionale in grado di reclutare e influenzare difese immunitarie e neuroendocrine, sia a livello locale che sistemico, e di garantire una pronta risposta a condizioni interne ed esterne potenzialmente dannose per l’organismo.»

fotografia apparsa su Io Donna Magazine

fotografia apparsa su Io Donna Magazine

Molte figure eccezionalmente lucide e critiche affiancano in queste memorie quella già di per sé straordinaria di Rita, come Giuseppe Levi, suo maestro durante l’internato e dopo, o  Stanley Cohen, biochimico che diede un’importante contributo allo studio del Nerve Growth Factor. Stan, in particolare, penso abbia riassunto bene in una frase il clima in cui sembra sempre aver lavorato la Montalcini, che non parla mai di rivalità o insofferenze, a parte il comprensibile scetticismo accademico con cui furono accolte le sue prime scoperte. La frase è: «Rita, you and I are good, but together we are wonderful».

La ricerca come fine e metodo ha riguardato anche la giovane Rita, anche a causa della parte “imperfetta” dell’umanità a cui le era capitato di appartenere: «A me era toccato in sorte di avere due cromosomi X e di essere nata in un periodo nel quale essere uomo o donna significava il potenziamento o la repressione delle naturali doti intellettuali del singolo». Cresciuta in una famiglia di origine e tradizione ebrea ma non particolarmente religiosa, a Rita, così come alle sorelle Paola (sua gemella) e Anna e al fratello Gino, fu data piena libertà per quanto riguardava il percorso educativo. Continuarono tutti gli studi liceali, essenziali per la loro formazione anche emotiva, in particolare per Rita e Paola, le cui sensibilità venivano stuzzicate dalle letture serali: «La saga di Gösta Berling divenne l’argomento favorito delle nostre conversazioni sino a quando la scoperta di Cime tempestose di Emily Brontë e Al faro di Virginia Woolf non ci offrirono altri modelli da imitare».
Paola e Gino, inclini alle materie umanistiche e artistiche, intrapresero la strada della pittura la prima (ammirata anche da De Chirico) e dell’architettura il secondo, mentre Rita per qualche anno ancora, dopo la fine del liceo, faticò a decidere se e in cosa proseguire gli studi. Fu la morte veloce di Giovanna, una sorta di tata che viveva con i Levi-Montalcini, causata da un cancro allo stomaco, a farla decidere. Nel giro di qualche mese, approfondì gli studi privatamente (nei licei femminili mancavano le basi di latino, greco, ma anche di filosofia e fisica, e le rimase per sempre una certa ignoranza in geografia e storia) e si presentò agli esami di ammissione per Medicina, risultando prima in graduatoria. I ricordi degli anni di studio e internato occupano gran parte della prima sezione dell’autobiografia e sono gustosissimi, ancora non oscurati dall’imporsi del fascismo e dall’inizio della guerra.

In questa prima parte dell’Elogio compare anche il padre, che  s’inventò un lavoro alla fine dell’Ottocento a Bari, con la costruzione di una fabbrica del ghiaccio: avevo letto di qualcosa del genere solo nei libri della Allende, mi pare, o in Cent’anni di Solitudine, quando arrivano a Macondo gli zingari con i loro bauli che preservano il ghiaccio. Così Rita ricorda le difficoltà a cui andò incontro il padre: «I trasportatori di neve, allarmati all’idea di perdere la loro clientela, diffusero la voce che quel giovane ingegnere ebreo piovuto dal Nord era un emissario del diavolo e che i suoi prodotti avrebbero forato le budella dei cristiani». C’è anche un altro ricordo, che fa decisamente meno sorridere a denti stretti, che vorrei riportare e che invece conclude la parte dedicata all’agonia:  racconta come il padre, mentre medico e infermiere si affaccendavano nella stanza  durante le sue ultime crisi,  declamasse a voce alta la Divina Commedia, non perché, chiarisce Rita, ammirasse poi così tanto Dante, ma per autorassicurarsi di essere ancora in grado di parlare e di riuscire a mantenere attiva la memoria.

«La diversa storia evolutiva delle aree corticali devolute all’elaborazione delle attività cognitive e di quelle che si possono definire generalmente “emotive” svolte dai nuclei e dalle aree corticali del sistema limbico è presumibilmente da attribuire al fatto che quest’ultimo assolve nella nostra specie gli stessi compiti di vitale importanza per la perpetuazione della specie e la sopravvivenza dei singoli, che svolge nelle altre specie di vertebrati. […] Questa disparità evolutiva […] è andata necessariamente accentuandosi con il progressivo accumulo e sviluppo del patrimonio culturale.»

C’è un terzo Levi nell’opera, dopo quelli della sua famiglia e il suo professore, ed è quello a cui è dedicato l’epilogo. Si tratta di Primo Levi, che la Montalcini ricorda in particolare nel momento in cui, nel campo di concentramento, recitava ai suoi compagni il dantesco «Considerate la vostra semenza: | fatti non foste a viver come bruti». Ed è  sempre attribuito a Levi l’esempio di Rudolf Höss, comandante ad Auschwitz, la cui colpa, dice, non era scritta nel patrimonio genetico né nell’essere nato tedesco: la coscienza, il libero arbitrio, la parte non istintiva o biologica del cervello umano, furono quelli ad aver giocato il ruolo terribile. Si chiede allora Rita, rivolgendosi direttamente a Primo Levi, se sia «giustificato, meditando su quanto tu scrivi, tessere l’elogio dell’imperfezione, e cioè di una nota dominante del comportamento dell’Homo sapiens?».

Tutti i virgolettati sono tratti da
Rita Levi-Montalcini, Elogio dell’imperfezione, Baldini & Castoldi 2014 (ed. aggiornata)
L’immagine in evidenza è opera del fotografo Albert Watson, a cui sono riservati tutti i diritti

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