Per Giacometti Parigi senza fine è femmina

A voi piace l’arte di Giacometti? E la persona di Giacometti? Difficile non essere incuriositi dall’artista svizzero che ha fabbricato l’albero originale per la scenografia della celebre pièce di Beckett, altrettanto difficile è non nutrire sentimenti contrastanti verso la sua personalità che spesso è stata funzionale a rendere l’opera maggiormente ricercata agli occhi del pubblico d’élite.

Waiting for Godot

Waiting for Godot

Talmente tante opere e talmente tanti generi che è difficile poter raccogliere tutto in un discorso, allora partiamo dall’Atelier in Rue d’Alésia a cui Génet ha dedicato un saggio per testimoniare come la polvere fosse indispensabile ad ispirare uno scultore che viveva nella sua caverna cercando di combattere contro la pulsione della distruzione: la violenta tentazione di sbriciolare le proprie creature e di inseguire un fantasma di perfezione, di cogliere un concetto, di avvicinarsi alla somiglianza, di esprimere una traslazione, di arrivare a una forma talmente lontana dal verosimile da avvicinarsi all’essenza intrinseca dell’originale. Rimonta a questa fase la serie di figurine su basamento, lunghissime, come guglie di sabbia bagnata che cola dalla mani di un bambino che sulla spiaggia ambisce goffamente a erigere in caduta le torri e le merlature di un castello, divertendosi a affondare le mani in un secchiello di pasta di granelli e acqua salata e concentrato ad ammirare la forma plastica e precaria e verticalmente lunga e affusolata e sgraziata nata dal deposito magmatico di quelle gocce di fango. Ripetendo il gesto ogni giorno, ogni volta, ogni estate. Un piacere al tatto, una dissonanza alla vista, eppure qualcosa di atavico e di viscerale che dà una sensazione ipnotica. Una candela usata, la cera che cola.

figure su basamento

Minime proliferazioni grattate fino all’osso, in questi termini le qualificherà pieno di ammirazione il poeta Michel Leiris. Secondo Giacometti si trattava di restituire la figura di persone viste da lontano, perché la lontananza permette di cogliere il vero profilo, nel movimento e nell’insieme dei tratti. Ma qual è la giusta distanza? Dalle cose del mondo? Questa deformazione bidimensionale la ritroviamo anche nelle minuscole statue di teste scolpite, oggetti tanto piccoli da indurre Peggy Guggenheim a annotare, Out of this Century, con stupore le velleità riscontrate durante un suo soggiorno parigino e di passaggio all’Atelier del suo amico scultore.

«Giacometti era formidabilmente agitato, ciò mi sorprese molto, in effetti credevo che lui si disinteressasse completamente dei suoi lavori anteriori, perché aveva rinunciato da tempo a ogni tipo di astrazione.

A quel tempo aveva preso a fare piccole teste greche che portava nella sua tasca»

Annetta, Mère de l'artiste

Annetta Stampa

Figlio di pittore, Giacometti si applicherà anche al disegno e al colore su tavola, apprezzando sopra ogni altro Matisse, cercherà di riprodurre il ritratto del fratello, riuscirà a portare a termine quello dell’amata madre e cercherà anche di riprodurre paesaggi, trovando nella natura e nei gruppi di alberi in mezzo alla campagna, il sommo sublime. Ma le opere sicuramente più complesse restano le installazioni, le incisioni e gli assemblaggi come Fiore in pericolo dove troviamo il parapetto vertiginoso alla fragilità, al desiderio di potenza, all’incedere della minaccia della vanità di morte.fiore in pericolo

Fiore in pericolo prevede un basamento che concentra l’attenzione su un piano simmetrico a due polarità, da un lato è disposto uno stelo alla cui estremità pende una conchiglia arrotolata su di sé, bianca, che ricorda la corolla di un fiore già sbocciato, o un petalo stropicciato, un po’ appesantito, come un capo che si inclina su un lato affaticato dal suo stesso peso morto, fa fronte a questo elemento, sull’altro piatto della bilancia, una catapulta in tensione, talmente tesa da sembrare sull’imminenza di colpire secca e letale prendendo di mira quella vulnerabile crisalide arresa e appesa. Una disparità inaudita. Un affronto. Una promessa di morte. Una crudeltà efferata, tutto è sospeso, una frusta come una bacchetta tirannica sul punto fatale di spezzarsi in ogni senso e di esplodere, ma con pacatezza. Si tratta di un opera recentemente restaurata, di dimensioni medie, studiata da molti interpreti e che data 1932-33. Fiore in pericolo (o Filo teso) è stata realizzata in legno, metallo e gesso, ricorda l’eco della punta ricurva dell’opera Uomo e Donna, ma in questo caso nessun vertice eloquente richiama l’attenzione, piuttosto si tratta di una forma arcata che ricorda una suggestione che Meyer Shapiro fece a David Sylvester: potrebbe essere che Uomo e Donna non sia niente altro che una parodia dell’Héraclès arciere di Bourdelle. Ciò detto, la minaccia non è reale non solo perché la catapulta non può essere azionata ma anche perché il fiore non è, a ben guardare, sulla traiettoria della linea di mira. Il cranio del fiore espanso pende liberamente come un orecchino. Dopotutto è davvero in pericolo.

homme et femme giacometti

Homme et Femme

Nell’opinione di Thierry Dufrêne, si tratta, in quanto opera appartenente alla fase ed agli oggetti del surrealismo, di un’immagine dello svolgimento del tempo. In quanto, la nascita (l’origine) sarebbe rappresentata dal punto di innesto, al piccolo basamento di sinistra, di una corda tesa che, legata all’arco fissato ad un altro piedistallo posto più in alto, esprimerebbe la crescita, l’espansione, l’evoluzione della vita prima della sua dissoluzione e sparizione. L’arco come terzo elemento in metallo, si trova piegato verso il suolo, mentre la cervicale della morte sarebbe appesa inanimata a uno stelo sottile sottile, gracile e fine tanto da far pensare al ritmo ternario del dilemma D’où venons-nous? Qui sommes-nous? Où allons-nous? di Gauguin. Questo movimento di anonimità di coscienza sarebbe sottolineato nell’opera giacomettiana in virtù dell’impiego dei tre materiali: legno, ferro, gesso. «In altri tempi, era il Cristo a essere il punto di congiuntura tra questo mondo e l’Aldilà. Ormai occorre trovare un altro passaggio.»

Forse un’opera di Alexander Calder come The Arc and the Quadrant (1932-1933) potrebbe essere paragonata o avvicinata a Fiore in pericolo. Ma laddove Calder utilizza il basamento per mascherare un motore che mette in moto gli elementi che assomigliano a una animazione di Miró, Giacometti trae profitto dai piedistalli di diverse dimensioni e dalla tensione dell’arco per esprimere l’aggressione immanente immobile.

Così, ciò che garantirebbe e realizzerebbe il pericolo per il fiore di Giacometti non sarebbe niente altro che l’illusione ottica della distanza e il desiderio o la perversione dello spettatore. Un dispositivo, insomma, un po’ sfasato, una scultura dietro alla scultura, ma il risultato percettivo non è raggiunto che in lontananza, se ci si pone a quella distanza calibrata, nell’imbroglio onesto delle sensazioni e nei limiti fisici di possesso visivo del dettaglio.

Una pubblicazione della Fondazione Giacometti ci offre una preziosa informazione: «Le fotografie delle sculture ci danno conto anche sulla visione che l’artista ha della sua produzione, e questa visione è precisa. Verso il 1932, Giacometti invia a Man Ray il disegno dell’angolo di presa che vuole per Fiore in Pericolo. Dalle sue annotazioni sparse, si può comprendere che ha le idee ferme sulle immagini dei singoli pezzi che compongo l’opera e prima di lasciar fotografare i gessi li fa ripolonizzare in bianco dalla sua compagna, Denise Maisonneuve

Jpeg

Calligrafia da artista ad artista

Giacometti era probabilmente in pericolo, psichicamente, la sua ossessione per il fallimento lo tormentava tanto da esserselo fatto amico e insegna, ‘falliremo per fallire meglio’, una linea di massima che condivideva con Beckett e che permette ad ogni artista di ‘ricominciare’ anche quando non se ne può più di rimanere insoddisfatti da sé stessi, anche quando sembra che il tempo e l’esistenza siano andati sprecati e non si hanno giustificazioni e non si sa bene cosa ci dovrebbe aspettare che succeda nonostante gli sforzi, nonostante gli investimenti a vuoto e gli smarrimenti. Collerico e infantile, Giacometti proseguiva la sua vita rustica, frequentando geni e bassifondi, disegnando su un taxi o dietro l’angolo di casa, ad un certo punto, Parigi. Parigi dove l’artista segreta la propria intimità.

Parigi è una serie. Una serie di tratti su carta, cartoncino. È un movimento, una scia, un’onda, una abbondante pioggia, una linea, una insenatura, una insinuazione: Parigi che per la lingua francese è un nome di città maschile, diventa donna per le curve, per gli anfratti, per la bellezza, la sinuosità, l’accoglienza, le rotondità, senza spigoli, con i misteri. Parigi è un concetto urbano, sempre frutto di allontanamento ottico, tanto da diventare una idea di testimonianza autobiografica di una grammatica interna estroversa. La presa di distanza o il distanziamento in condizione sciolta e dissolvente. Nasce Paris sans fin.Parigi senza fine

Giacometti inizia verso il 1963 la redazione della sua introduzione alla raccolta di litografie di Parigi che gli aveva commissionato Tériade e che sarà pubblicata postuma dall’editore Mourlot nel 1969. È un inno d’amore per la sua città di adozione. La deriva del testo e dei disegni propone insieme ad un’autobiografia, una storia dell’umanità, e forse – in abbinamento ai disegni della Galerie de l’Evolution du Muséum de l’histoire naturelle – persino una storia della vita su terra. Uno stile fumettistico si impone al lettore con il ritmo che evoca Jazz di Matisse. Pause, tregue durante le quali la vista, cessando di portarsi alla lontananza, va verso l’apeiron di cui la chiarezza impietosa l’attira e la riempe di occhi, a partire da quel momento sono globi capaci di fare radiografie piuttosto che fotografie. Obbiettivamente soggettivi, gli oggetti che questo scanner incontra sul suo cammino si riconciliano brevemente con ‘tutto il resto’ e mescolano con felicità i propri esercizi a quelli dei sensi che pagano per la loro manchevolezza di chiaroveggenza il privilegio di vivere in prossimità delle cose. Non ci ferma a quello sguardo, a quel primo colpo d’occhio, non ci si frena, anzi si lascia montare il fondo.

Sembrerebbe possibile citare Sartre su Giacometti, attraverso una critica dietro allo specchio, l’artista ha fornito, (inconsapevolmente?), «un’antropologia esistenziale nella concezione dello spazio». Era, del resto, il tempo dei tropismi di Breton e di Sarraute. Giacometti non ignorava i loro testi, e si sentiva implicato nel processo di emersione, storiografica successivamente, di stratificazioni che hanno appoggiato le risorse tropologiche del bricolage artigianale su una scala di profondità oltre il progetto hegeliano. Nella polarità morte/sopravvivenza, la totalità della vita diventa ‘vista inglobante’ (non divora perché siamo a distanza di sicurezza per distinguerci distintamente), ossia lavorare con gli occhi puntati sul reale, a rischio di fallimento, non importa, perché i punti di rapporto all’ ‘occhio assoluto’ risiedono nella memoria. Il fallimento rischiato è l’apparato scheletrico che risulta dal ribaltamento della realtà: il soggetto guardato diventa il modello, più si guarda la figura più lo schermo con la realtà si assottiglia, fino a che la composizione diventa rigida come una lente a contatto non idratata.

Allora quale la massima aspirazione giacomettiana? – uno scopo di sopravvivenza più che un’ambizione – : impareggiabile miraggio, svettava la ricerca della verosimiglianza, della somiglianza assoluta perciò non l’apparenza. Un viaggio perechiano ‘au bout de la nuit’. Un mondo al buio è un mondo, in fondo, ancora mai visto. Un buco scavato sulla pelle della vita. Attraverso la vista, Giacometti intravedeva una linea, la trasmetteva alle mani che trasformavano la cosa in un’altra cosa perché il risultato nell’opera desse la cosa stessa trapassata in una trasfigurazione: Angel Gonzalez paragonerà questo incantesimo manipolativo alla trasmutazione del mosto in vino e della farina in pane, della polvere in statua. Pierre Schneider, invece, parlerà di un puro esercizio ottico, dell’occhio e dello sguardo perforante come «fondo abissale».

Fase preparatoria di 'Fiore in pericolo'

Fase preparatoria di ‘Fiore in pericolo’

Nel senso di prossimità si scatenerebbe una guerra tra l’occhio e il resto. L’occhio si risveglierebbe laddove divisione e separazione lo feriscono. Sul filo del tempo qualcosa monta del fondale del tatto miope per le sculture e nelle pitture «il disegno è l’unica cosa che conta».

La disciplina dell’artista può essere proprio la fobia nevrotica, perdere (fallire) e ritrovare (ricominciare, riprovarci) continuamente, come una marea: il bisogno di ripetizione diventa metodo. David Sylvester sintetizza quantitativamente questo graffio cruciale di selezione qualitativa.

«Il bisogno di ripetizione era insaziabile e totale. Valeva come metodo e come tema: per fare un’opera costruiva, cancellava, costruiva di nuovo. Valeva per il modello e valeva per la posa. Su decine di migliaia di ore passate, nel corso degli ultimi trenta anni di vita, a lavorare modello dopo modello, ne ha catalogati solamente nove e a sentirlo parlare, sarebbe potuto arrivare a otto ulteriori modelli, se ‘ne avesse avuto la possibilità di scelta’»

Il movimento di rottura con il classicismo è proprio questa snervante perdita per ritrovare. Una risacca che pesca ‘qualcosa’, ‘ma non è detto’. Perciò si può essere impazienti ma non può assentarsi la resistenza. Si caccia la persistenza cangiante (o evanescente?) dell’inerte impercettibile. Considerazione che si applica anche al temperamento di Giacometti, James Lord, in una biografia, sostiene che il suo amico era «come due uomini simultaneamente» e l’artista ne era in parte cosciente: «parlando degli anni surrealisti, Alberto dichiarò che avevano costituito un periodo di fuga dalla realtà. Tuttavia le sue opere surrealiste hanno e conservano una maîtrise estetica e un ascendente psichico che Giacometti stesso non poteva né minimizzare né spiegare in maniera soddisfacente». In una conversazione pubblicata come intervista da Georges Charbonnier si dà conto di questo sdoppiamento associativo.

«Lei ritiene che una statua debba avere una taglia? Lei è spinto a concepire una statua con una taglia determinata?»

«Forse non esiste una taglia, una dimensione. Ma ce ne sono due»

Il bilico. Sfocato e costantemente a mettere a fuoco sforzando la vista, tutto si traduceva e era tradotto secondo una sorta di appannamento intuitivo, Claude Delay in un’altra biografia, forgerà l’espressione equivalente di «nube vaga e illimitata» nella quale Giacometti non faceva che ripetere «tutto è legato a un filo. Si è sempre in pericolo». Una precarietà fertile per cercare di non cadere. Impianti, un passo dopo l’altro, sulla cordata traballante dell’avventura lineare della ‘ressemblance’ nella quale Giacometti si era engagé e che lo riportava fedelmente e puntualmente a un punto di (effondrement) inabissamento per sgretolamento e screpolatura. Al punto che non rimaneva ‘tout juste’ che un ‘resido di visione’. Una maceria, nel suo atelier, di ecatombe in ecatombre, perseguiva, perseguitandosi, la sua traversata del deserto. Tutto ciò faceva di lui la sua reputazione: l’homme-atelier.

homme atelier giacometti

Tutt’uno anche con la storia del suo tempo, quella che attraverso studi comparatistici e applicati permetterebbe di associare la sua produzione all’opera teorica etica di Merleau-Ponty e al bricolage di detriti antropologici raccolti da Levy-Strauss. Molti meccanismi sono mal arrangiati o mal aggiustati, soprattutto, gli oggetti creati durante il decennio 1925-1935 sono tutti di discretissime o minuscole dimensioni. Si può perfino parlare di modelli ridotti, «modèles réduits». Questo processo di riduzione della scultura è culminato durante la Seconda Guerra Mondiale in microscopiche figurine che secondo Albert Skira potevano bene essere tutte contenute in una scatola di fiammiferi. Nel suo saggio, Jean Clay riporta questa constatazione di “penuria” attestata da Albert Skira durante un incontro a Ginevra con Giacometti risalente al 1944.

 «E come trasporterà le sue opere a Parigi?»

«Nella mia tasca» – rispose Giacometti mostrando 6 scatole di fiammiferi contenenti il suo lavoro di quattro anni.

Questi due aspetti ‘oggettivi’ – la taglia ridotta e la possibilità di assemblamento – rinviano a Lévy-Strauss nella misura in cui, nell’opera di quest’ultimo, La pensée sauvage – si discetta precisamente di questa capacità della creazione artistica sottoforma di ‘bricolage’. L.-Strauss considera il modello ridotto «le type même de l’œuvre d’art», il cui vantaggio starebbe nella sua propensione di far risaltare «la totalité de l’objet (…) moins redoutable». L’artista, in quanto o come il bricoleur, impiega e mette a frutto un insieme limitato di segni e forme che colleziona e mette in relazione, i cosiddetti «moyens du bord». Su questa scia, in effetti, Giacometti elabora dei meccanismi, lo abbiamo visto, implacabili, che riesumano il terrore archetipico dei sacrifici rituali, delle macchine di tortura che macinano l’umano. Proprio questa irreversibilità del meccanismo sacrificale mette in dubbio, in scacco, sovverte l’aspetto paternalistico del «bricolé». (Il padre di Levy-Strauss era bricoleur). Scarnificare. Giacometti introduce uno scarto e anche nell’artefatto, o nell’opera «artefact» che rammemora il pendolo hegeliano, una possibilità di une inversione di tendenza, anche una risposta a rovescio, ma insospettabile. Per parafrasare Merleau-Ponty la dismisura di questi modelli in e su scala irregolare della vita interiore è la presenza alla radice del fenomeno.

L’interiorizzato è anche essere in cantiereReinhold Hohl con discernimento ha discriminato tutta la potenza che espugna il momento essenziale recuperato da Giacometti e espresso, per esempio, dalla tensione della catapulta che minaccia la pianta di Fiore in pericolo, nasce da uno stato di crisi depositato e scosso che in Giacometti assume i connatati di modello di mondo. Il progetto hegeliano della riconciliazione dello spirito – confronto costante con il combattimento, il dolore, il lutto e il trapasso – è stato realizzato dall’artista nella serie di opere che, attraverso la polarità morte/sopravvivevenza, rivelano l’attesa fremente della vita. Secondo Pierre Schneider l’operazione a spirale è permessa dalle proprietà della profondità che abolisce le barriere che trattengono il riflesso dell’indiviso primordiale, permettendo la ressemblance e soprattutto la comunicazione in mancanza dell’identità della comunione. Insomma, un altro modo per mettere al centro della scena i rapporti, le relazioni. La distanza è ammessa e si presta perché non recalcitra davanti alla dismisura, perché non si pone ad ostacolo dell’espansione delle strette elementari e irresistibili, anzi le favorisce, le incoraggia. A spogliarsi. Le spoglia.

In questo senso è molto interessante l’analisi di François Noudelmann, per il quale soprattutto le sculture di Giacometti lavorano lo spazio secondo una sacralità singolare in cui il piedistallo non sarebbe più un supporto bensì un elemento consustanziale alla figura. Di modo che, non è più il basamento a sostenere e innalzare l’idolo, ma è la figura che ri-producendo la propria distanza dalla sua altezza sul piedistallo lo infiora non distinguendo più la base della sua stessa base. Sartre aveva colto l’enigma già nel 1948, quando sostenne che ‘scolpire’ per Giacometti significa:

‘sgrassare lo spazio, comprimerlo per fargli sgocciolare tutta la sua esteriorità’

L’esistenzialista mostrava allora che la distanza non si limita a un effetto di accomodamento e comodità visuale, o di adattamento tra spettatore e scultore, Giacometti, in realtà, arriverebbere a imporre una distanza assoluta. Uno choc per il filosofo, che le definì ‘apparitions interrogatives’ che svuotano lo spazio espellendone il mondo. Particolarmente attento alla tecnica, Sartre intercettò la molteplicità e la subordinazione dei tratti che non delimitano alcuna forma, ma la fanno esistere, la forma de-strutturata, dall’interno. Senza ricorrere agli ‘effetti d’aura’, Giacometti riesce a considerare la presenza e a produrre la differenziazione attraverso il medium della distanza radicale che permette il riconoscimento.

La dialettica potrebbe semplicemente essere quella dell’occhio e dello spirito, che citando Milan Kundera diventa ancor più semplicemente «il presente, questo punto invisibile». Una configurazione del tempo nel racconto di un artista inquieto che ha inseguito il carattere temporale proprio alla funzione similare dell’atto riflessivo. L’immagine e il riflesso posto sotto una fonte di luce si portano mutalmente soccorso e si ritrovano in una metafora che sembra, almeno in partenza e appoggiandoci alle parole di Ricœur, appartenere alla classe dei «tropi», vale a dire alla specie delle figure del discorso. Allo stesso modo, Giacometti, riorlando il reale a partire dalle vibrazioni, è presente nel ritratto rappresentativo, in principio supera e surclassa l’esacerbazione del contingente poiché riesce a distillare ‘qualcosa’ in una ‘certa maniera’ dando alla materia e al segno una direzione. Quella poetica.

Così vicini sebbene a distanza

Gli esseri a cui dava forma

Per quanto non abitassero in alcun luogo

Essi erano gli abitanti inespugnabili

Della loro fissità senza radici

*

Abbondanza di aste e steli

Figure di cui egli ha per sempre

Messo alla nostra altezza

I soliloqui scroscianti

Alla punta dell’assoluto silenzio

*

[Pietre per un Alberto Giacometti, Michel Leiris]

Alberto  Giacometti – Montagne et lac du Val de  Bregaglia – 1920

Alberto Giacometti – Montagne et lac du Val de Bregaglia – 1920