Perché guardare RUSH

Quante persone hanno sentito parlare di Niki Lauda? Forse tante. E quante di James Hunt? Forse un po’meno, ma queste indiscutibilmente tutte più appassionate di motorsport.

Allora, come mai, malgrado si parlasse di due piloti di quarant’anni fa, la sala del cinema, in seconda visione di un mercoledì sera qualunque, era stracolma? per giunta piena di spettatori e spettatrici di ogni tipo per genere, età e stile?

Semplice, perché Rush, grazie alla bravura del regista Howard, è un film per tutti. Non proprio.

Tutta la storia, coerentemente col tema, corre veloce, accompagnata da una suite sonora del sempre in grande spolvero Hans Zimmer, e si snoda tra flashback e frammenti di docu-film di una cronaca nota, quella della F1 anni ’70, fatta di velocità e tanto sangue. Il racconto è quasi preciso, certo narrare della vita folle di gente che per rincorrere la propria incontrollata passione sceglieva di ammazzarsi a 300 all’ora incontra il limite naturale dell’adattamento a sceneggiatura da grande schermo, ma tutto sommato il messaggio, in sala, passa.

Siamo sicuri, però, di averlo capito? Ecco, forse l’equivoco e la spiegazione del perché seduti a guardare ci fossero nonni, nipoti, mamme, papà, coppie giovani e meno giovani, nerd di motori (tra cui il sottoscritto) e non, orde di ragazzine e ragazzini e chi più ne ha più ne metta, può partire da qui.

Tutto il rituale si compie attorno alla parallela ricostruzione della carriera di Lauda e Hunt, dagli albori nelle gare di Formula di categoria minore fino allo sbarco lunare all’interno del circus. Complice la perfetta aderenza degli attori ai personaggi, l’esasperata contrapposizione tra l’austriaco astuto e l’inglese viveur è resa bene, tanto quanto le fedelissime repliche delle F1 dell’epoca.

I protagonisti-sacerdoti scandiscono i ritmi della cerimonia, che come ai tempi degli antichi Greci prevede il momento del sacrificio: il tempio è quello dei circuiti nonché dell’Inferno, non dantesco, ma l’Inferno Verde, come il campione belga Jacky Ickx aveva definito il Nurburgring Nordschleife. Prima della corsa Lauda aveva formalmente chiesto a tutti i colleghi di rinunciare a correre, non solo perché il meteo rendeva la pista un incubo annunciato, ma anche perché perfino nella sua razionale pazzia, se lo sentiva che quella volta sarebbe stato lui a finire sull’altare immolato alla dea Velocità. Di fronte al no di tutti, trascinati dal “perfido” Hunt che poteva così fare sfoggio pubblico della propria sfrontatezza, si corse.

Anche se la circostanza non è mai stata accertata, il regista sceglie di porre alla base dello schianto di Lauda un cedimento meccanico, fatto sta che a parte la scena dell’incidente realizzata in computer grafica (con effetto simile a quello di un videogame, un po’scadente per un film dal budget generoso), tutta la storia su cui la pellicola si incentra a partire da quel momento è rappresentata con una potente e verosimile carica di crudezza, che ci schiaffeggia attraverso le sofferenze patite dal pilota per riprendersi dalle ustioni facciali e corporee che il rogo della macchina in cui aveva rischiato di rimanere intrappolato gli aveva lasciato addosso.

Da lì inizia un viaggio faticoso, nel dolore fisico e nella frustrazione crudele di chi, per non essere da meno del proprio rivale, ha rischiato tutto, e l’ha quasi perso. L’autenticità della rabbia con cui da sotto le bende che gli fermano le emorragie Lauda guarda, dal letto di ospedale, le gare nelle quali Hunt vince tutto, è agghiacciante.

Quando nemmeno le ferite sanguinanti lo fermano dal tornare in pista, chi guarda il film capisce, forse solo in quel momento, cosa può significare correre per un pilota di F1, cosa vuol dire rinunciare a qualunque forma di “normalità” per salire sullo scalino n. 1 dei tre del podio. Oppure, cosa più probabile, può pensare che in fondo sta guardando un gran bel film, scintillante e patinato come la bella vita riservata ai piloti-star, come lo champagne e i fiumi di denaro degli sponsor, come le storie d’amore dei drivers con le top model.

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Ecco, il timore, allora, è che il successo di Rush stia proprio qui, nel contrapporre due “icone” rappresentative di un qualcosa di surreale, di cinematografico, appunto.

Alla fine del film si sente la voce di Lauda che parlando della sua eterna conflittualità con Hunt confessa “è l’unica persona che io abbia mai invidiato”. Il film in realtà è in questa frase, che molti hanno preso invece come una chiosa prima dei titoli di coda. Lo sguardo che il regista ci propone,dosando sapientemente i suoi mezzi, è uno sguardo clinico, rivolto al dramma di un uomo che per non sottrarsi alla sfida con il suo seppur stimato nemico di sempre, in realtà ingaggia una battaglia senza fine con se stesso, in nome della quale arriverà vicino alla morte, sfigurandosi e soffrendo oltre l’immaginazione, vincendo tutte le sue capacità di abile calcolatore del rischio. Un pilota. Un uomo malato, affetto da una patologia cronica che gli impone di essere un prigioniero alla ricerca della libertà nella gabbia inossidabile della propria passione fuori controllo. Un uomo costretto a fuggire dalla morte cercando di essere più veloce di lei, sempre più veloce. Come tutti quelli che con lui condividono la vocazione di correre.

La sensazione che si ha, allora, è che il messaggio del film sia ben nascosto dietro la rappresentazione delle intricate vicende da playboy di Hunt, che tra feste, brindisi e donne bellissime sta agli antipodi del Lauda scontroso e solitario, metodico e disciplinato: il messaggio è drammatico, due uomini opposti in tutto, così lontani da combaciare agli estremi, condannati alla stessa pena, quella da scontare sotto il casco, sempre e ad ogni costo.

Quella raccontata da Howard è una storia che ha tante sfaccettature, e tanti bei momenti da cinema, per tutti, ma cela un discorso a senso unico, da cogliere con attenzione tra le righe, ossia la descrizione nitida e verosimile di una malattia, reale, che non si può curare.

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Questo nei fotogrammi non si vede, ma è un grido più forte del rombo dei motori.

Alla luce di questo messaggio, il film ha una sola nota un po’ stonata: il cinema è arte, e come tale è espressione di libertà, dunque un regista è e sarà sempre libero di reinterpretare in base alla sua sensibilità la storia che vuole raccontare. Perché, tuttavia, cancellare del tutto la figura dell’italiano Arturo Merzario, primo dei piloti fermatisi per tirare fuori Lauda dalla Ferrari tremendamente infuocata? La domanda non ha nulla di polemico né è evocata da afflati di orgoglio nazional-popolare, ma soltanto dalla curiosità di capire come mai la scelta di “eliminare” dalla storia l’autore di un gesto che rimane, ad oggi, l’esempio di una umanità vivida sulla quale nessuna mania di vittoria può avere la meglio (gesto poi ripetuto molti anni dopo da Ayrton Senna nei confronti di Eric Comas).

Un pilota che rinuncia alla propria gara, che scende dalla propria vettura per andare a soccorrere un compagno vittima di un incidente è come un malato che stacca la spina al tunnel della sua pazzia, o un condannato che evade, un uomo che riafferma la propria razionalità istintiva sulla follia altrettanto lucida che lo affligge. Forse valeva la pena sottolineare di più quell’attimo, fugace, in cui accade che un pilota spezzi la propria fuga da-verso la morte di fronte a una vita in pericolo.

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