Perec – Un uomo che sogna

Non hai imparato niente, tranne che la solitudine non insegna niente, che l’indifferenza non insegna niente: era un’impostura, una fascinosa e ingannevole illusione. Eri solo, tutto qui, e volevi proteggerti; volevi tagliare per sempre i ponti tra te e il mondo. Ma tu sei così poca cosa e il mondo un tal parolone: alla fine, il tuo non è stato altro che un errare in una grande città, e costeggiare chilometri di facciate, vetrine, parchi e lungofiume.  (Perec – Un uomo che dorme)

Georges Perec nasce il 7 marzo 1936 a Parigi e muore il 3 marzo 1982 a 45 anni a causa del suo vizio più grande: il fumo. Gli venne diagnosticato, infatti, un cancro ai polmoni poiché era solito fumare sigarette Gitan senza filtro. Perec viene ricordato perché membro dell’OuLiPo (acronimo di Ouvroir de Littérature Potentielle): gruppo di matematici e scrittori francesi che avevano come obiettivo quello di scrivere delle opere attraverso la ricerca di nuove strutture, nuovi schemi.

Non si sbaglia a definire la scrittura perechiana autobiografica e intimistica, i suoi testi sono un effluvio di ricordi e di luoghi da lui visitati. La scrittura come processo salvifico, come mezzo per combattere i fantasmi d’infanzia che lo tormentarono per tutta la vita. È rilevante sottolineare che la famiglia di Perec era ebrea e che Perec visse nel periodo della seconda guerra mondiale, segnato dal nazismo. Il padre, Icek Judko, morì nel 1940 a Nogent-sur-Seine durante un combattimento contro i tedeschi; ma la figura che delineò un’assenza presente e permanente è di certo quella della madre, Cyrla Szulewicz, che venne deportata a Drancy nel 1943. Due anni prima Cyrla spedì il figlio Georges a Vichy (zona libera francese, anche se filonazista e antisemita) per dargli una possibilità di scampare al genocidio.

L’allontanamento della madre, la partenza per Vichy, l’adozione da parte degli zii hanno sicuramente avuto dei riscontri così fatali nell’infanzia di Perec che nell’età adulta prese parte a delle sedute psicoanalitiche con Jean-Bertrand Pontalis. Perec si sente un ebreo mancato, uno pseudo-parigino e tutto questo gli viene continuamente ricordato dalla sua cicatrice. Scrive in proposito: “La cicatrice conseguente all’aggressione è ancora oggi perfettamente visibile. Per ragioni non del tutto chiare, questa cicatrice per me dev’essere stata di un’importanza capitale: è diventata un marchio personale, un segno distintivo (eppure sulla mia carta d’identità non è registrata come “segno particolare”, solamente sul libretto militare, e probabilmente perché mi sono preoccupato di segnalarla): non dico che porto la barba per via di questa cicatrice, ma di sicuro non porto i baffi per non nasconderla”. (La bottega oscura)

La scelta di fare delle sedute psicoanalitiche diede a Perec la possibilità di provare a conoscere il suo inconscio, di lavorare sui suoi sogni e di affrontare sia i traumi infantili sia le delusioni dell’età adulta (per esempio, l’allontanamento da Suzanne Lipinska che aveva creato negli anni Sessanta una sorta di circolo letterario al Moulin d’Andé). Nel 1970, Perec decide di lasciare il mulino, per lui divenuta la casa della scrittura, e trasferirsi. A proposito di questo allontanamento, Perec scrive: “Misuro la mia dipendenza da lei, non sopporto il silenzio, l’indifferenza. Non so oggettivamente che fare: cercare ancora una volta l’anima gemella, la protettrice, il grembo”.

L’10345088_10203660758737691_33487073_nesperienza onirica e la scrittura si fondono in due romanzi di Perec: La bottega oscura – 124 sogni e Un uomo che dorme. La prima è una trascrizione dei sogni fatti dallo scrittore dal 1968 al 1972. Si ricorda che Perec riprese le sedute psicoanalitiche nel marzo 1971 dopo aver tentato il suicidio e da quell’anno le trascrizioni dei sogni di Perec diventano meno curate, Perec comincia finalmente ad abbandonarsi al suo inconscio senza cercare di controllarlo. Pontalis, infatti, si rifiutò di leggere i sogni trascritti negli anni precedenti non soltanto perché riconosceva a Perec l’essere scrittore, ma anche perché vi è una differenza fondamentale tra il sogno e la sua trascrizione: ci sarà sempre qualche pezzo mancante, qualcosa di omesso, particolari dimenticati volutamente o meno.

Fu così che la mia esperienza di sognatore divenne, per forza di cose, esperienza di sola scrittura: né rivelazione di simboli, né dilagare di senso, né messa in luce di verità (sebbene mi sembri che, sotterrato in fondo a questi testi, sia descritto un percorso, una ricerca esitante), ma vertigine di una messa in parole, fascino di un testo che sembrava prodursi da solo: tranne rare occasioni in cui trovavo al risveglio qualche parola buttata giù nel dormiveglia e da cui non emergeva nulla, il sogno intero e intatto riappariva da un particolare o da una parola, nell’esatto momento in cui mi accingevo a trascriverlo, come un’immagine folgorante alla quale venivano istantaneamente ad associarsi tutta una serie di figure familiari, di temi ricorrenti, di sensazioni sorprendentemente precise: ogni volta mi sembrava di captare con incantevole facilità la materia stessa del sogno, quel qualcosa di sfocato e al tempo stesso persistente, impalpabile e immediato, vorticoso e immobile, quegli slittamenti di spazi, quelle trasformazioni a vista, quelle architetture improbabili. Anche se, attraverso questa messa in scrittura definitivamente alterata dal suo stesso rigore, mi allontanavo per sempre dalla “via regia” che questi sogni avrebbero potuto essere, mi sembra che mi trovassi nel cuore di questo “perturbante” che plasma ed elabora le nostre immagini notturne, nel cuore di una retorica precisamente onirica che mi faceva percorrere tutti i sogni possibili: sogni sferzanti, sogni senz’osso, sogni lunghi come romanzi, gremiti di peripezie strabilianti, sogni fugaci, sogni pietrificati”.

(La bottega oscura)

Ne La bottega oscura Perec può essere definito un sognatore molto più attivo rispetto a quanto lo sia ne Un uomo che dorme. Gianni Celati definisce il romanzo l’avvento di un’atarassia già postmoderna. Ci troviamo nel 1967, Perec ha 31 anni e Un uomo che dorme è il suo terzo romanzo basato sulla storia di uno studente che vuole educarsi all’indifferenza. È possibile rivedere Perec in questo giovane protagonista, studente di psicologia, che una mattina si sveglia e decide di non andare a dare un esame. (Si ricorda, infatti, che anche Georges Perec era iscritto in psicologia e non si laureò mai n.d.a). Questo cambia tutto, lo studente si sente in diritto a non essere più costretto a dover fare qualcosa. Principalmente il romanzo è orientato verso una sociologia dell’ordinario e del quotidiano che resta una zona d’ombra, il protagonista richiama l’idea dell’inetto raccontato da Svevo, poiché il protagonista decide di non far più nulla, vuole solo aspettare.

“Questa è la tua vita. Questi i tuoi averi. Puoi fare l’esatto inventario del tuo magro capitale, il preciso bilancio del tuo primo quarto di secolo. Hai venticinque anni e ventinove denti, tre camicie e otto calzini, qualche libro che non leggi più, qualche disco che non ascolti più. Non hai voglia di ricordarti di nient’altro, né della tua famiglia, né dei tuoi studi, né dei tuoi amori, né dei tuoi amici, né delle tue vacanze, né dei tuoi progetti. Hai viaggiato, e dei viaggi non ti resta nulla. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare, aspettare solamente finché non ci sia più niente da aspettare: che venga la notte, che suonino le ore, che i giorni fuggano, che sfumino i ricordi”. (Un uomo che dorme)

Questa citazione mostra sfacciatamente la peculiarità stilistica perechiana: l’elencazione, sommata a continui eventi ipnagogici, visioni oniriche e descrizioni di luoghi parigini. Ciò che colpisce è sicuramente la scelta del narratore in seconda persona. Un tu continuo e martellante che ci fa domandare se sia un alter-ego, se sia Perec stesso o se sia la voce della coscienza che alterna stati di esaltazione e di ironia, la scelta della seconda persona singolare è probabilmente deviata verso l’esterno in modo tale da mostrare l’adesione a una vita qualsiasi. Interessante notare come nell’adattamento cinematografico de Un uomo che dorme del 1974, diretto da Bernard Queysanne, la voce fuori campo sia femminile a differenza del protagonista, forse un legame freudiano con la figura materna.

L’uomo che dorme è un uomo che non vive, “il tempo non penetra più nel silenzio della tua stanza, è tutto intorno, immersione permanente, ancor più presente e ossessivo delle lancette d’una sveglia che volendo potresti anche fare a meno di guardare, è però un tempo leggermente storpiato, falsato e un po’ ambiguo: il tempo scorre ma tu non sai mai che ore sono, il campanile di Saint-Roch non distingue i quarti, né la mezz’ora e i tre quarti, i semafori all’incrocio tra rue Saint-Honoré e rue des Pyramides non si alternano scattando ogni minuto esatto, la goccia d’acqua non cade ogni secondo. Sono le dieci, oppure forse le undici, poiché come poter esser certi di aver sentito bene, è tardi, è presto, spunta il giorno, cala la notte, i rumori non cessano mai del tutto, il tempo non si ferma mai completamente, anche se divenuto ormai impercettibile: minuscola breccia nel muro del silenzio, mormorio rallentato ,dimenticato, di goccia in goccia, quasi confuso col battito del cuore”. (Un uomo che dorme)

Ha inizio una vita vegetale, una vita azzerata, “Sei un pigro, un sonnambulo, un’ostrica”, questa totale inerzia del ripercorrere le stesse azioni come un automa non è solo un decondizionamento, ma anche un déjà-vu che porta al misconoscimento di se stessi.

Lungo il corso delle ore, dei giorni, delle settimane e delle stagioni ti disamori di tutto, ti distacchi da tutto. Con quasi una sorta di ebbrezza, scopri che sei libero, che non c’è niente che ti pesi, che ti piaccia o che ti spiaccia. In questa vita senza usura e senza altri fremiti degli istanti sospesi che ti procurano le carte, certi rumori, e certi spettacoli che ti dai, trovi una felicità quasi perfetta, ammaliante, talvolta gravida di nuove emozioni. Conosci un riposo totale, sei, in ogni momento, come risparmiato, protetto. Vivi una parentesi felice, un vuoto pieno di promesse e da cui non ti aspetti niente. Sei invisibile, limpido, trasparente. Non esisti più: il susseguirsi delle ore, il susseguirsi dei giorni, il passare delle stagioni, lo scorrere del tempo, sopravvivi, senza allegria e senza tristezza, senza futuro e senza passato, così, semplicemente, in modo evidente, come una goccia d’acqua che stilla da un acquaio su un pianerottolo, come sei calze in ammollo dentro una bacinella di plastica rosa, come un’ostrica, come una mucca, come una lumaca, come un bambino o come un vecchio, come un topo.” (Un uomo che dorme)

Secondo Celati, la prosa de Un uomo che dorme è idiosincratica, le parole fanno parte di un fenomeno così la scrittura prende l’aspetto di come le cose si manifestano. È già stato scritto sopra che il romanzo è pieno di eventi ipnagogici, di sogni angoscianti: “Sogni che il sonno è una morte che si impadronisce di te lentamente, un’anestesia dolce e terribile allo stesso tempo, una lieta necrosi”.

Se si vive per inerzia, cosa succederà? Arriverà un qualche cambiamento? Alla fine del romanzo, l’educazione all’indifferenza del protagonista non sembra che un miraggio, un sogno.

Il mondo non si è mosso e tu non sei cambiato. L’indifferenza non ti ha reso differente. Non sei morto. Non sei impazzito. […] Il tempo, che su tutto veglia, ha trovato tuo malgrado la soluzione. L tempo, che conosce la risposta, ha continuato a scorrere. Poi un giorno del genere, un po’ più tardi o un po’ più presto, tutto ricomincia, tutto comincia, tutto continua. Smetti di parlare come un uomo che sogna. […] Non sei più l’inaccessibile, il limpido, il trasparente. Hai paura e aspetti. Aspetti, in Place Clichy, che la pioggia cessi di cadere”.

E se la pioggia cessa di cadere, si può ricominciare a vivere?

Note

1. Perec, Un uomo che dorme, Quodlibet Compagnia Extra, Macerata, 2009;
2. Perec, La bottega oscura – 124 sogni, Quodlibet Compagnia Extra, Macerata, 2011.

 

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