Permanent error. Il nostro benessere e la loro disgrazia

Poniamo il caso che foste nati in Africa, non in una zona qualunque ma a Johannesburg, che con le sue oltre 700.000 persone è considerata una delle 50 aree urbane più grandi, affollate e trafficate del mondo. Ipotizziamo di essere negli anni Settanta, ancora in pieno Apartheid, e la liberazione di Nelson Mandela appare ancora un lontano miraggio. Ed eccovi qua, è questa la vostra metropoli, piena di strade, odori, colori, voci. Siete nati e cresciuti in una realtà difficile, in una città difficile, con leggi imposte che vi costringono a fare e non fare, con un mondo in cambiamento. Voi siete qui, e siete in questo turbine di voci. Se tra tutte queste voci fosse stata scelta la vostra per comunicare qualcosa, su cosa vorreste puntare il riflettore? Quale aspetto della vostra terra, del vostro popolo, della vostra vita vorreste che venisse messo in evidenza?
16754082_10210565669170635_993726909_nOggi vi vogliamo parlare di Pieter Hugo, classe 1976, nato a Johannesburg, Sud Africa: pelle nera in una realtà comandata da bianchi. Afrikaner di origine, cresce a Cape Town dove tutt’ora vive. Hugo è un uomo con “la dote”, potremmo chiamarlo fotoreporter, ritrattista, videoartista, ma probabilmente a lui appartiene tutto ciò, tutte queste “etichette” diverse. Fin da piccolo aveva già una grande troppo da raccontare sulla sua terra, nasce già con la macchina fotografica in mano: aveva dodici anni quando iniziò a chiudere un occhio dietro l’obiettivo e da quel momento il suo talento e la sua ispirazione sono andati crescendo con un interesse sempre più vivo per la fotografia documentaria di impronta sociale. Si sa, viaggiare è sempre fonte di ispirazione e Mr. Hugo viaggia molto nella sua amata Africa, alla ricerca della scintilla, al limite tra arte e documentazione, ricercando contesti borderline, fuori dal comune, stranianti, che indaga nell’analisi delle contraddizioni e gli abusi.
Sono indiscutibilmente molti i tratti della sua arte che lo portano al successo, ma tra i suoi tanti progetti vorrei porre l’attenzione su uno, quello che personalmente più mi ha “ferita”, che stride nell’animo e lascia quella piccola ombra che definirei senso di colpa. D’altronde come rimanere immuni a questa impressionante mappatura del mondo, mappatura degli eccessi e dei disordini.
16754120_10210565632009706_1126598099_nIl suo progetto si chiama Permanent Error e fino al 17 aprile sarà fruibile a Bologna, presso il MAST, all’interno del progetto espositivo Lavoro in movimento. Portato a compimento nel 2011, Permanent error aderisce alla poetica, che è un po’ il suo marchio, di raccontare la storia degli emarginati, di chi resta lontano dai nostri schemi e convenzioni. Nella sua opera, una video istallazione, che è in parte un “link” tra la rappresentazione fotografia e quella in movimento, ci narra la storia di alcuni ragazzi che rappresentano l’infinita parabola tra nord e sud, tra paesi ricchi e poveri, tra sfruttato e sfruttatore.
Nella sua arte ci troviamo di fronte alla rappresentazione del dramma umano, nulla di ciò che è inquadrato risulta banale o trascurabile, nessun dettaglio, nessuna forma. Anche l’impatto visivo è forte: 20 televisori a tubo catodico disposti a L sono poggiati su sostegni in legno, la stanza è buia e la luce pulviscolosa getta in avanti un cono di chiarore, quasi a generare un ponte verso e con lo spettatore.
blogperm2In ogni schermo troviamo un ragazzo, immobile, a figura intera eretta. La fermezza dei ragazzi fa attrito con lo sfondo in movimento, dove la vita va avanti imperterrita. Ci troviamo in Ghana, nella periferia di Accra, nel suburbio di Agbogbloshie, un agglomerato urbano di circa 4 acri abitato da 40.000 persone, noto per la presenza di un sito che ospita un’enorme discarica di rifiuti tecnologici. Questo è uno dei luoghi più inquinati al mondo. Qui confluiscono, legalmente e illegalmente, materiali provenienti dalla confortevole e attrezzatissima vita occidentale. Computer, smart-phone, elettrodomestici, parti di motori e materiali tecnologici; tutti oggetti che ci hanno stancato, che ci hanno deluso, che non sono più all’altezza delle nostre necessità, dei nostri sempre più apparenti bisogni. Milioni di tonnellate di materiali, soprattutto Europei, che qui svaniscono e fanno perdere le loro tracce. Questa è Agbogbloshie, e questo è quanto siamo riusciti a creare. 16780449_10210565693491243_2049951569_n
Quale errore può essere più permanente di qualcosa che coinvolge allo stesso tempo esseri umani, animali, ecosistema ed equilibrio etico? Mr Hugo ci sprona a un’analisi di coscienza, ci spinge a riflettere su quanto dannoso possa essere il nostro stile di vita, uno stile di vita che ha come modalità di esistenza l’eccesso e il consumo.

16754265_10210565641889953_2141708095_nI ragazzi in mostra lavorano nella discarica e il loro compito è quello di rintracciare e smistare quanto di “prezioso” si possa trovare. Il loro compito è anche quello di appiccare piccoli fuochi ai resti degli apparecchi, cosicché i materiali plastici si sciolgano e a loro rimangano le strutture di base, i metalli preziosi come rame, ottone, alluminio e zinco, da poter poi rivendere. Come è chiaro dalle immagini, però, nulla di tutto ciò viene fatto seguendo un qualunque principio di sicurezza per gli uomini, per gli animali, per l’ambiente. Così abbiamo mucche adagiate su cumuli di detriti, ragazzi senza mascherine, senza guanti, a volte senza scarpe, che passano le loro giornate ad inalare nubi tossiche, che si disperdono poi nell’aria, sostanza contaminate rigettate nelle acque e nella terra.
permerror8In questo panorama apocalittico e sconcertante, dove rabbia ed indignazione si mescolano alla tristezza e all’angoscia, emergono delle soggettività, emergono degli sguardi, dei pensieri, delle lacrime. Fuoriescono ritratti e mappature di emozioni umane. La monumentalità dei ragazzi, immobili, viene rotta dalla forza delle loro espressioni e dei loro tratti, così marcati e dignitosi, pur nella drammaticità dell’ingiustizia che incarnano. Il loro sguardo, la profondità dei loro occhi così diretti, evocano in modo preponderante la relazione drammatica che unisce l’Occidente alle loro vite, l’infernale ponte che lega il nostro benessere alla loro rovina.

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