Perpetuo vagare: un’immortalità di Borges e Poe

La morte siamo noi quanto la vita, in maniera così sostanziale da poter annullare una distinzione tra le due; se non che nella vita è apparente il moto e nella morte no. La vivacità del moto, nella sua possibilità di cambiamento, rassicura, la staticità della morte fa pensare a qualcosa che ha finito il suo corso e si è irreversibilmente esaurito; ma la morte è garante di movimento, di instabilità e mutabilità: rende fertile, consapevole e ricca una vita non raggelata all’ombra di essa; difficile è abbracciarla perché il suo essere pungolo e fine da sempre confonde, da sempre fa paura, e la tramuta in semplice strumento di paura.
Allora sia chi cerca sia chi è mansueto potrebbero desiderare l’immortalità, per prolungare il tempo della speculazione, per prolungare il piacere. Innegabilmente però l’immortalità non è di questo mondo, perciò tanto l’accettazione della morte quanto la scelta di non infliggerla diventa razionale, necessario; ciò che resta irrazionale e innecessario è desiderio, comune reame della fantasia e della creatività, da cui ricaviamo archetipi, simboli e opere che alludono e contengono l’esistenza.
Tra i tanti sognatori e creatori, due autori hanno provato a dipingere le fessure che separano la mortalità dall’immortalità, in questo caso due autori immortali che ormai fanno parte del regno dei morti; la loro lettura può aiutare a porci su tale inconcepibile linea grigia.     Edgar Allan Poe e Jorge Luis Borges erano scrittori tra loro lontani temporalmente quanto geograficamente, tra le altre accomunati dall’amore per la citazione e per il racconto, questa richiamo e l’altro resa alla vita. Ne Il manoscritto trovato in una bottiglia (1833, Baltimora) e L’immortale (1947, Argentina) si raccontano incontri che superano il limite del consueto e del possibile.

Il primo descrive un individuo razionale spinto a mettersi per mare da una prurigine definita diabolica che lo porta a imbarcarsi su un bastimento al largo di Giava, dove un fortunale improvviso lo trasforma in un naufrago su un relitto preda dei marosi; nel suo vagare incontra una nave impossibile da credere che con un urto vertiginoso lo prende a bordo senza che l’equipaggio se ne avveda. Così, fortuitamente, un rigoroso seguace della fisica si trova a nascondersi in una nave abitata da esseri immortali.

Nel secondo racconto il protagonista è un tribuno al servizio dell’antica Roma, il caso lo porta a conoscenza di un fiume che dona la vita eterna e una città dove vive chi non conosce più la morte, il tedio e la necessità di avere un compito lo spingono alla ricerca di tali mitologie. Chiede consiglio e arma una spedizione, attraversa territori ruvidi e incommensurabili deserti e sempre casualmente, guidato dall’arbitrio del suo cavallo, le trova sul suo cammino.

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Da distanze siderali gli autori e le loro narrazioni sembrano toccarsi attraverso gli elementi che hanno in comune. Entrambi i racconti  vengono rinvenuti dal lettore casualmente, uno in una bottiglia, l’altro tra le pagine di un altra storia; forse chi racconta è morto e la sua memoria già si proietta nell’eternità. Le sedi che gli immortali hanno abitato, la nave e la città, sono composte di materiali e forme assurdamente antichi, strumenti e architetture di complessità indecifrabile la cui creazione ha reso gli artefici simili a fanciulli e divinità.
La conoscenza è prerogativa e conseguenza dell’immortalità: gli antichissimi marinai sono in possesso di una sapienza millenaria che sfruttano per ricercare quella regione del mondo, al di là dei ghiacci del polo sud, in cui il mare si inabissa in un gorgo che è la porta per il regno dei morti, la sede dell’agognata pace eterna. I trogloditi immortali hanno scordato qualunque sapienza nella consapevolezza che in una vita immortale tutto si fa indistinto e indifferente: data la possibilità di tutte le cose e del loro contrario esse reciprocamente si annullano nell’indifferenza. Sia i primi che i secondi sono muti in pensierosa contemplazione, e nessuno è più in possesso di quella facoltà che contraddistingue gli esseri, l’empatia verso l’altro. Tale conoscenza porta entrambi a ricercare la mortalità attraverso calcoli differenti, l’ansia di prolungare la propria esistenza si tramuta nel suo opposto: solo la mortalità – non la morte – la avvalora.
Mentre Borges si preoccupa di spiegare il perché gli immortali alla fine decidono di intraprendere la ricerca, Poe vi allude attraverso l’esistenza stessa degli immortali. Il racconto di Borges è una domanda di immortalità a cui risponde l’annullamento di quel confine, mortalità e immortalità sono lo stesso, tanto quanto un uomo e un altro uomo sono lo stesso: il protagonista è insieme due uomini e tutti gli uomini, è insieme mortale e immortale e nessuno dei due. In Poe l’immortalità è fantastica chimera che irrompe nella vita, un’inquietudine esistenziale che prende corpo dal terrore dell’ignoto, dall’insostenibile tendenza naturale alla propria distruzione.

L’incontro tra questi due racconti ne ha evocati, come accade sempre, altri. Tra questi una frase di Ralph Waldo Emerson che recita : «Si direbbe che una sola persona abbia redatto quanti libri c’è al mondo; tale unità centrale è in essi, che è innegabile che son opera di un solo essere onnisciente» (Emerson, Essays, 2, 8). L’altro è un’immagine, il bianco e nero Autoritratto con una sfera di Maurits Cornelis Escher. C’è una sfera perfetta divinamente e cosmicamente conchiusa, il suo sfondo è il vuoto indefinito, a reggerla c’è la mano di un uomo, e al suo interno si riflette chi la sostiene, la stanza in cui egli esiste e la finestra, che occhieggia all’esterno.

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