RAMS

Sarà forse scontato che i film italiani sono italiani e che i film francesi sono così francesi – tanto che non si resiste mai alla tentazione di ribadirlo – , ma nel caso dell’Islanda credo che senza una minima conoscenza di quella cultura che per secoli è sembrata così lontana si perda molto.
Lo sa bene Grímur Hákonarson, regista del film, che non a caso si rifà a quelle che sono le tematiche più centrali e pregnanti del suo patrimonio culturale.
Ci voleva un islandese per fare un film su due allevatori di pecore, del resto se il film non fosse stato islandese forse la saletta d’essai non sarebbe stata altrettanto affollata, perché oggi l’Islanda va di moda.
Gli islandesi non si sono mai fatti scrupoli nel parlare del loro bestiame, né l’hanno mai considerata una materia non all’altezza del loro raffinato – e non in senso ironico – gusto artistico.
Brevemente la trama: due vecchi fratelli, Gummi e Kiddi, vivono a pochi metri con le rispettive greggi, senza parlarsi. Gummi è il più ragionevole mentre Kiddi ha un animo da rockstar: si fa ritrovare in continuazione ubriaco e mezzo congelato, riverso sui mucchi di neve fuori dalla fattoria. La causa dell’astio non ci è rivelata, veniamo immersi in un clima da vecchia faida nordica, la cui migliore tradizione si può far risalire alle vicende cruente di certe saghe.
Una malattia inguaribile che contagia irrimediabilmente tutte le pecore cala sulla valle come una sorta di maledizione. Da questo momento, inizia quella che si potrebbe definire una lotta, portata avanti da Gummi e Kiddi con atteggiamenti apparentemente opposti ma sostanzialmente convergenti, per riuscire a vivere senza pecore in un posto dove il gregge è l’unico motivo per restare.
Questa lotta disperata mi è sembrata metafora di una determinazione che in fin dei conti è alla base della vita in Islanda. Vivere in Islanda è una sfida, innanzitutto verso il clima e la natura, che sembrano rendere questo luogo ostile e inabitabile – fatta eccezione per la breve estate – e in secondo luogo verso tutto ciò che rischia di farne scomparire lo stile di vita, la cultura e la lingua. In un’isola con poco più di trecentomila abitanti, l’essere schiacciati o fagocitati da qualsiasi cosa provenga dall’esterno è un rischio costante. Per questo gli islandesi sono così legati alla loro cultura, in un’ottica di consapevole volontà di preservazione che non ha nulla a che vedere con il bieco patriottismo o con la xenofobia – al contrario, l’Islanda è, sul versante dell’integrazione e dell’accoglienza, un caso esemplare.
Il senso di solitudine che pervade tutto il film è un altro tema ricorrente nella produzione artistica islandese, la fotografia mette in evidenza l’isolamento delle due fattorie nella valle dove non si vedono altre case per chilometri. Allo stesso tempo, l’amore e l’attaccamento verso l’ambiente sono fortissimi: nonostante la situazione, nessuno dei due fratelli accenna mai a volersene andare.
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Anello di congiunzione tra uomo e natura, l’animale è fonte di compagnia, oggetto di affetto, ma allo stesso tempo rimane la base del sostentamento in un territorio dove non si riesce a coltivare quasi niente e le scene che si svolgono in cucina non rinunciano a sottolinearlo.
Una sequenza tuttavia, quella finale – si tranquillizzino i fanatici dello spoiler, non rovinerò nulla – mi ha fatto particolarmente riflettere.
Nella parte conclusiva del film, tutti gli elementi menzionati fino a adesso sono presenti e amplificati, come a renderli veicoli di possibili chiavi di lettura, preparando l’immagine su cui il film si chiude. Nell’ultima scena, il tema della lotta fra uomo e natura o meglio, per dirla con Leopardi, dell’indifferenza della natura potente verso l’uomo insignificante è portato all’estremo.
In più, il sospetto dell’incesto – tema che ritorna con ossessiva insistenza nelle forme d’arte islandese per cause di natura prettamente storica e sociale – che aveva aleggiato, mai reso esplicito, sullo sfondo del film, viene incoraggiato e potenziato. L’immagine finale ci riporta al corpo, al legame famigliare, ma ancora prima, per una scelta visiva fondamentale, fisico. La carne sulla neve marca un contrasto difficile da ignorare, che innesca silenziosamente dubbi, ansie, sospetti, che ci invoglia alla ricerca di un senso rintracciabile solo in un ritorno all’origine della creazione, al contatto fra corpi che tentano di difendersi dal ghiaccio, dalla fine dell’esistenza. Perché è l’ultima scena di lotta questa: il calore della vita contro il freddo della morte.
Malinconico e burlesco, per gli amanti di un cinema introspettivo e delicato Rams – il titolo originale è Hrútar, tradotto in inglese alla lettera – è senza dubbio un film da vedere, anche in virtù del Certain Regard guadagnato a Cannes.

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