Reato di tortura? Un’altra occasione persa

«E poi: condanna… Quindici nomi. Solo quindici nomi […] E gli altri trenta sotto accusa? Assolti con due formule secche: per non aver commesso il fatto, perché il fatto non sussiste. Erano stati chiesti 76 anni, 4 mesi e 20 giorni di reclusione. Una condanna comunque penalmente “simbolica”, perché nella primavera del 2009 scatta la prescrizione. Nessuno farà mai un giorno di galera. E però, quei simbolici 23 anni e 9 mesi comminati alle nove e trentacinque lasciano tutti senza parole.  Meno di un terzo di quanto era stato “prudentemente” – parola degli stessi inquirenti – chiesto».
(M. Calandri, Bolzaneto. La mattanza della democrazia, Roma: DeriveApprodi, 2008, p. 16)
«Resto seduto e vedo sull’avambraccio un grosso buco rosso scuro. Gronda sangue. Evito di fissarlo: non sono abituato alle ferite, non ho la vocazione del medico o dell’infermiere. Mi guardo intorno: c’è ancora qualcuno che picchia. Altri danno ordini. Vedo un agente staccarsi dal gruppo: viene verso di me. Ha una camicia bianca a maniche lunghe sotto il corpetto con su scritto “Polizia”. Ha il collo taurino, il passo furioso. Mi è davanti. Mi aggira. Si mette di fianco a me, alla mia sinistra. Urla. Urla e colpisce. Mi prende da dietro, alla schiena, vicino al collo, sulle spalle. Uno, due, cinque, dieci colpi rabbiosi. Io ho la testa vicino alle ginocchia, le mani sulla nuca. Non tento di fermare le botte e tanto meno di schivarle. Camicia Bianca si ferma. La scarica di adrenalina si deve essere esaurita»
(Racconto autobiografico di un giornalista de Il Resto del Carlino tratto da: L. Guadagnucci, Noi della Diaz, Milano: Editrice Berti, 2002, p. 15)

La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 è stata ratificata dal nostro paese nel 1988 e prevede che ogni stato si adoperi per creare le condizioni legali per il perseguimento degli atti di tortura, così come definiti della Convenzione. Già in precedenza avevamo trattato l’argomento, mettendo in luce come, a distanza di un trentennio, l’introduzione del reato di tortura nel nostro paese sia ancora un lontano miraggio.
Il divieto di tortura rientra, come sappiamo, tra i diritti considerati inderogabili anche in situazioni d’emergenza come previsto dalla stessa Convenzione, secondo la quale «nessuna circostanza eccezionale, quale che essa sia, che si tratti di stato di guerra o minaccia di guerra, di instabilità politica interna o d qualsiasi altro stato di eccezione, può essere invocata per giustificare la tortura». Tale affermazione trova conferma anche nel diritto umanitario, nella terza Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra, e nell’art. 3 e nell’art. 75 del Protocollo aggiuntivo, nominato proprio Garanzie fondamentali.
Il processo italiano per i fatti di Bolzaneto e della scuola Diaz era arrivato a una sola conclusione: non ci fu mai tortura, lo Stato si era assolto. Quella sentenza è un simbolo dell’impunità, non solo dei fatti commessi, ma anche dei possibili eventi futuri: rappresenta un messaggio anche per chi non c’era, e ci dice che così va il mondo, che “loro” sanno che la prossima volta potranno agire impunemente.

Non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia.
(Montesquieu)

A monte di questa sentenza vi è una contraddizione tipicamente italiana: pur avendo approvato più di vent’anni fa la Convenzione contro la Tortura, non abbiamo ancora adeguato il nostro codice penale, le nostre leggi non ci hanno consentito di agire secondo giustizia.
La posizione assunta fino ad oggi dai nostri governi è stata quella di rimandare di legislatura in legislatura l’adozione di mezzi per prevenire e punire la tortura, unita alla falsa promessa di perseguire tali condotte anche in assenza di un reato specifico. Dai vari accertamenti e processi per gli abusi e i maltrattamenti che si sono verificati in varie vicende, sappiamo però che ciò non è mai avvenuto. Questo sicuramente rivela un dato politico da non sottovalutare: gli operatori delle Forze dell’ordine hanno implicitamente la libertà di agire al di la dei confini di legalità e dei compiti a loro assegnati. Le misere condanne comminate nel 2008 non furono mai applicate in quanto, appena qualche mese dopo, sono cadute in prescrizione.
Gli stessi giudici commentarono anche il fatto che l’assenza del reato di tortura all’interno dell’ordinamento giuridico italiano ha fatto in modo che i pubblici ministeri si rifacessero solo al reato di abuso d’ufficio: «l’elenco delle condotte criminose poste in essere in danno delle persone arrestate o fermate transitate nella caserma di Bolzaneto nel giorni compresi tra il 20 e il 22 luglio 2001 consente di concludere, senza alcun dubbio, come ci si trovi dinanzi a comportamenti che rivestono, a pieno titolo, i caratteri del trattamento inumano e degradante», ma che «purtroppo, il limite del presente processo è rappresentato dal fatto che, quantunque ciò sia avvenuto non per incompletezza nell’indagine, che è stata, invece, lunga, laboriosa e attenta da parte dell’ufficio del P.M., ma per difficoltà oggettive (non ultima delle quali, come ha evidenziato la Pubblica Accusa, la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso “spirito di corpo”) la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignoto».
cortestrasburgoNell’aprile di quest’anno è arrivata poi la condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo: ciò che successe il 21 luglio 2001 nell’irruzione alla scuola Diaz deve essere qualificato come tortura. Per ottenere il simbolico “rimprovero” c’è voluto il ricorso alla Corte Europea di un manifestante veneto, Arnaldo Cestaro, che all’epoca dei fatti aveva 62 anni e che la notte della Diaz uscì da quella scuola con una braccio, una gamba e dieci costole fratturate. La Corte di Strasburgo insiste anche su un punto cruciale: se i responsabili non sono stati puniti è soprattutto a causa della grossa falla del nostro ordinamento giuridico che non contempla ancora il reato di tortura.
Le sentenze della Corte europea sui fatti avvenuti a Genova durante il G8 non sono ancora finite: pendono altri due ricorsi presentati da 31 persone per i pestaggi e le umiliazioni subite nella caserma di Bolzaneto.
Oggi la svolta sembra arrivare: circa un due mesi fa la Camera ha approvato il disegno di legge n. 849 sull’introduzione del reato di tortura in Italia, presentato il 19 giugno 2013. Adesso il disegno – l’ottantasettesimo fino a oggi – rimbalza di nuovo al Senato e, se ci saranno nuove modifiche, chissà quando lo vedremo sotto forma di legge.
Sull’onda della condanna dell’Italia, si sta parlando tantissimo di questo disegno di legge: tutti entusiasti, ma in pochi parlano dei suoi punti oscuri, primo fra tutti la sua piena applicabilità alla fattispecie dei soprusi perpetrati durante le giornate del G8 di Genova.

Ma cosa prevede la proposta di legge per reato di tortura in Italia?
Il testo approvato alla camera è composto di sette articoli, modificati svariate volte.
Il primo articolo, oltre a definire cosa debba intendersi per “tortura”, prevede per il reato una pena che varia dai quattro ai dieci anni, ma con un’aggravante, con pene dai cinque ai dodici anni, se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. L’ergastolo è, inoltre, previsto nel caso in cui si cagioni la morte in maniera volontaria, trenta anni in caso di morte involontaria. Con tale disegno, la tortura in Italia diverrebbe un reato comune, ovvero che può essere commesso da chiunque, a differenza di un reato proprio che può invece essere commesso solo da chi rivesta una determinata qualifica.
Negli articoli successivi viene specificato che anche l’istigazione alla tortura costituisce reato, se commesso da un pubblico ufficiale nei confronti di un altro pubblico ufficiale. La pena per la sola condotta di istigazione va dai sei mesi ai tre anni. Come è ovvio che sia, le dichiarazioni ottenute sotto tortura non potranno essere utilizzate in un processo. Si prevede inoltre un raddoppio dei tempi di prescrizione, il divieto di estradizione degli stranieri verso stati in cui potrebbero subire tortura e, infine, l’impossibilità di riconoscere l’immunità a cittadini stranieri accusati di tortura.
Uno dei punti più controversi e che ha ricevuto più critiche, è proprio la tipologia di reato sotto la quale viene rubricata la tortura. La forma depotenziata del reato comune rispetto al reato proprio, imputabile ai pubblici ufficiali, oscura la connessione tra la tortura e l’abuso di potere. Il primo ad opporsi fermamente a questo “declassamento” è proprio il primo firmatario della proposta di legge, Luigi Manconi. Stessa critica proviene da Amnesty International, che sottolinea inoltre pene ridotte per i pubblici ufficiali, se confrontate con quelle degli altri paesi europei.

Perché in Italia, dopo tutto questo ritardo, siamo arrivati a una legge “monca”?
A 14 anni di distanza dal G8 di Genova, molti dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani sono sfuggiti alla giustizia proprio perché in Italia sono mancati gli strumenti punire efficacemente tali reati. I fatti di Genova non sono però gli unici casi che hanno risentito della carenza legislativa in questione: nel frattempo, in molti altri casi simili, la giustizia ha lasciato un grossissimo margine di impunità ai colpevoli di tortura.
Come denuncia il sociologo Luigi Manconi, la causa principale del ritardo italiano nell’introduzione del reato è l’eccessiva «sudditanza psicologica nei confronti delle Forze di polizia». Ampliando le competenze di un reato lo si depotenzia, lo si rende generico e indistinto, quindi di più difficile applicazione.
Nella più auspicabile delle ipotesi l’introduzione del reato di tortura produce un limite all’abuso della violenza legittima da parte di chi ne detiene il monopolio, ovvero lo Stato.
La tortura è stata sempre un fenomeno caratteristico dei totalitarismi, almeno fino a trent’anni fa quando ha iniziato a insinuarsi nelle democrazie e i primi a sperimentarne l’efficacia politica siamo stati noi italiani durante la lotta al terrorismo delle Brigate Rosse. Nella tortura le nostre si mostrano come democrazie svuotate di ogni contenuto democratico, lo Stato mostra la sua faccia cattiva, non quella che tutela, ma quella che colpisce indiscriminatamente, quella che obbedisce solo al principio di autoconservazione dello status quo.
Secondo il Sindacato Autonomo di Polizia, quanto successo alla Diaz «non è stata sicuramente una bella parentesi, ma parlare di tortura sembra eccessivo».
Minimizzare quanto avvenuto non è solo la reazione di autodifesa di una corporazione, ma l’espressione di un’errata percezione delle funzioni delle Forze dell’ordine, soprattutto in merito alla loro relazione gerarchica con il potere giudiziario.
In Italia abbiamo sicuramente un problema a riguardo: i nostri – troppi – corpi di polizia sono pervasi da un sentimento corporativo che spesso sfocia in una cultura della violenza ammantata dalla certezza dell’impunità. Non da ultimo, tale sentimento viene spesso alimentato da classi politiche in cerca di un facile consenso – o di un allontanamento del dissenso – da parte delle Forze dell’ordine. A tal proposito, mi viene da ricordare l’episodio dell’applauso agli agenti responsabili dell’omicidio di Federico Aldrovandi, durante il congresso nazionale del sindacato di polizia. Ad applaudire per ben cinque minuti non c’erano solo appartenenti alle forze dell’ordine, erano anche presenti il deputato La Russa, il vicepresidente del Senato Gasparri, l’europarlamentare Comi.
Se da un lato le Forze dell’ordine sembrano aver smarrito il senso del rapporto tra Stato e cittadini, dall’altro lato si fa sempre più sentire quella parte di opinione pubblica che sembra ignorare l’esistenza costituzionale di un diritto al dissenso e che esalta la violenza repressiva del braccio armato dello Stato.
Diaz e Bolzaneto sono state una pagina vergognosa della storia italiana, ma è preoccupante il fatto di sentir rimpiangere i manganelli della Diaz dopo ciò che è avvenuto a Milano durante le manifestazioni NoExpo. È preoccupante sentir dare la colpa della devastazione alla troppa morbidezza a cui è costretta la polizia dopo la condanna per i fatti di Genova (parole di Mario Calabresi, direttore di La Stampa) – salvo poi, qualche giorno dopo, malmenare barbaramente degli inermi manifestanti a Bologna, lontani dai riflettori dell’Expo.
polizia

Si parla della Diaz come se fosse un episodio isolato, una violenza sfuggita di mano solo quella notte, ma non è così, a Genova durante tutte le giornate di protesta i lacrimogeni furono lanciati dagli elicotteri, le mazzate distribuite indiscriminatamente anche a suore, infermieri e giornalisti. La tortura alla Diaz è stato un solco che ha posto da un lato delle Forze dell’ordine e uno Stato incapace di tutelare i cittadini, dall’altro la rabbia di chi non si sente rappresentata da uno Stato violento; ha creato nemici da entrambe le parti, ha creato una guerra tra poveri, tra precari che vogliono diritti e tra schiavi a 1200 euro al mese che non hanno il coraggio di dire di no pur di “portare il pane a casa”.
Quando sento inneggiare a una nuova Diaz, quando sento giustificare le violenze delle Forze dell’ordine con la tesi che i “poveri” poliziotti sono costretti ad ubbidire per non perdere quel già misero lavoro che gli consente di mantenere la famiglia, penso davvero che qualcosa, nel nostro tessuto sociale, stia marcendo.
Troppo spesso si confonde l’onesto lavoratore per lo schiavo sottomesso: l’onestà è anche onestà di pensiero e capacità di distinguere un ordine giusto da uno sbagliato in base a una propria coscienza morale.
Se in Italia l’opinione pubblica si rammarica del fatto che le nostre Forze dell’ordine non sono più libere di agire con violenza dopo la condanna della Corte di Strasburgo, allora qualcosa è andato storto, e non credo si tratti solo del nostro enorme ritardo nel partorire una legge attesa da ventisette anni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.