Riconoscere il male: il mio “La mafia uccide solo d’estate”

La mafia uccide solo d’estate  è un film atipico, che riprende un argomento molto utilizzato come la mafia declinandolo in maniera del tutto originale. Lo descrive molto bene Cristina nel suo articolo.

È interessante quindi notare cosa NON è questo film.

Innanzitutto: non prende come punto di vista un mafioso o un eroe antimafia. La maggior parte dei film sulla mafia vedono come protagonisti dei boss, antieroi negativi dipinti come icone pop dei nostri tempi, tra il romantico e il maledetto, come possiamo purtroppo notare in certe serie televisive degli ultimi anni, rendendo cool qualcosa di abominevole come la mafia. O, al contrario, vedono come protagonisti magistrati, forze dell’ordine e altri eroi antimafia, in una visione però stucchevolmente agiografica e mitizzata che elimina ogni sfumatura di umanità. Disumanizzare l’uomo per renderlo un supereroe: non è un modo per isolarlo e tranquillizare comunque la coscienza, cosa che ha fatto l’Italia per anni? Il punto di vista non è neanche una vittima, consapevole o meno: i fatti sono raccontati e deformati da Arturo, un ragazzo figlio di un mondo che non capisce semplicemente perché non gli è mai stato spiegato, figlio degli stereotipi sulle persone uccise per delitti d’amore o sulla mafia che non ti fa niente se la lasci stare. Arturo ha come eroe personale Andreotti, assunto come padre spirituale e guida: la sua ingenuità stride violentemente con il mondo di bugie e omertà a cui è esposto. Pif si è fatto apprezzare molto, in questi anni, come punto di vista peculiare e quasi lunare sul mondo: il passaggio al grande schermo è avvenuto in maniera esemplare.

Le sparatorie, le esplosioni e le morti non sono un punto focale del film. Il racconto delle morti del generale Dalla Chiesa, di Boris Giuliano, di Pio La Torre e di Rocco Chinnici scandisce il film con la sua implacabile tragicità senza mai diventare il filo conduttore. L’operazione di Pif è quella di denunciare il carattere strisciante, silenzioso e corrosivo della mafia nella vita di tutti i giorni, contribuendo alla creazione di una mentalità mafiosa nella banalità del vivere quotidiano. Se Totò Riina è ritratto come un bandito da operetta, molti personaggi si contraddistinguono per mancanza di coraggio e senso civico, diventando il volto della Sicilia delle stragi e del terrore. Tra l’ingenua innocenza di Arturo e la colpevolezza di Totò Riina, ci stanno le persone che hanno preferito stare in silenzio, assecondando lo stato delle cose per paura di cambiare, innocenti riguardo a reati o illeciti ma colpevoli di fronte alla storia.

Infine, cos’è questo film? Non è un documentario né soltanto una storia d’amore, non è una storia di denuncia né di sopraffazione.  Questa commistione tra filmati di repertorio e la storia d’amore tra due bambini è una storia di formazione civile, è la presa di coscienza di un mondo e la volontà di cambiarlo, è l’esaltazione della possibilità di scegliere come unico modo per migliorare la società.

Come viene spiegato nelle ultime battute del film, i genitori hanno un duplice ruolo: quello di difendere i figli dalla malvagità e quello di suggerire come riconoscerla. Questo compito è affidato a tutta la generazione che ha vissuto l’orrore di Capaci e via d’Amelio. L’impresa è ardua e quasi disperata. Se noi italiani continueremo ad autoassolverci, a pensare che basta non vivere in Sicilia per potersene lavare le mani, faremo soltanto il gioco della mafia, lasciando soli i siciliani come è stato fatto con Falcone e Borsellino, Dalla Chiesa e molti altri. Cominciamo ad anteporre l’etica e la giustizia alla paura o agli interessi personali, cominciamo a credere di poter vivere in un posto migliore. E la mafia non ucciderà più né d’estate, né d’inverno, né mai.

 

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