Riflessioni sul diritto e sulla violenza

Oggi noi siamo abituati a pensare al diritto come un insieme ordinato di norme disposte gerarchicamente e che hanno lo scopo di regolare i conflitti e di espellere la violenza dalla società, ma storicamente il diritto non ha sempre avuto questa veste nell’immaginario collettivo, né nella teoria giuridica.
Il legame tra la violenza e il diritto è un tema sempre presente nella letteratura filosofico-giuridica, al punto che è stato spesso definito come un nesso fondante. In epoca pre-moderna l’esercizio della violenza era strettamente connesso con il potere sovrano, la legge si presentava sotto la forma della coercizione e della volontà arbitraria del sovrano. Anche per i moderni il rapporto tra diritto e violenza è presente nella variante in cui lo Stato è ciò che produce un addomesticamento della violenza attraverso le leggi.

Ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto. Se non tende a nessuno di questi attributi rinuncia da sé ad ogni validità. Ma ne consegue che la violenza come mezzo partecipa, anche nel caso più favorevole, alla problematicità del diritto in generale. (W. Benjamin, Angelus Novus)

Per Hobbes, ad esempio, il Leviatano è l’immagine di una violenza che se lasciata libera di agire è in grado di ricreare se stessa in eterno. Lo stato di natura in Hobbes non è una realtà storica e nemmeno un artificio logico, ma è un fondamento mitico contingente alla società moderna. La violenza è un principio interno allo Stato che rivela il suo esserne il fondamento nel momento della sua dissoluzione1. L’ordine sociale è garantito da un potere coercitivo che ha il monopolio della violenza legittima, ma anche dal timore del ritorno a uno stato di natura in cui la violenza è diffusa.
La risoluzione della violenza viene delegata dalla società ad un sapere ed un potere specialistico, ovvero quello giuridico. Il rapporto tra violenza e diritto è un rapporto di esclusione: la violenza è ciò che deve essere neutralizzato per mezzo del potere politico, attraverso l’applicazione della legge. Esso è anche un rapporto di addomesticamento o di funzionalizzazione: la violenza è ciò che deve essere «civilizzata» perché da essa possa emergere la società. Il diritto viene qui visto come un prodotto del potere, il quale lo impone con l’uso della forza.
leviatano
La tematizzazione della violenza come fondamento della sovranità fatta da Hobbes sarà un punto di partenza imprescindibile per tutta la filosofia politica posteriore. Egli appartiene però a un’epoca in cui il potere sovrano è al di sopra della legge – chi lo detiene non è sottomesso alle leggi civili – e la violenza del diritto si mostra principalmente nel potere di vita o di morte. Dai pensatori che si inseriscono nella prospettiva contrattualistica l’epoca contemporanea ha ereditato soprattutto l’idea che la rinuncia del singolo a farsi giustizia da sé comporta l’attribuzione del potere di far violenza nella mani dell’autorità statale.
Alle soglie del Novecento Max Weber, nella sua formulazione originaria del concetto di Stato, pone in essere un legame che influenzerà tutta la letteratura successiva: lo Stato è «un’entità che reclama il monopolio sull’uso legittimo della forza fisica». Nell’analisi foucaultiana, invece, è il nuovo potere disciplinare a rappresentare la violenza che conserva l’ordinamento giuridico-statuale esistente. La nascita della biopolitica è connessa allo sviluppo del biopotere, che sostituisce il potere di far morire e lasciar vivere della sovranità con quello di far vivere e lasciar morire.
Il tramonto dell’assolutismo e l’affermarsi dello stato di diritto producono un’idea di diritto come mezzo per ridurre la violenza e limitare l’uso della forza per la risoluzione dei conflitti: «Nella teoria del diritto, per esempio, dalla tesi delle norme giuridiche come semplice comminazione di sanzioni si passa gradualmente al concetto assai meno sanguigno in cui ragioni e principi hanno il sopravvento2».
totalitatarismoCon il crollo dei totalitarismi del Novecento, la condanna della guerra di aggressione pone il confine tra guerra legittima e illegittima e la successiva istituzione dei tribunali internazionali e la promulgazione delle Convenzioni di Ginevra hanno fatto sperare in una restaurazione dello stato di diritto e in un accantonamento della violenza3. Dopo la caduta del Muro di Berlino si creano nuovi assetti politici globali che sembrano sottrarsi alla logica del terrore che si era instaurata durante la Guerra Fredda: allentatisi i rapporti di forza tra le maggiori potenze si ricominciò a parlare della possibilità di instaurare la pace e eliminare l’arbitrio e la violenza attraverso il diritto.
Negli anni Novanta, precisamente nel 1995, ricorre il bicentenario della prima pubblicazione dell’opera di Kant Per la pace perpetua e l’ideale cosmopolitico e il pacifismo giuridico sembrano più vivi che mai. Dopo i due conflitti mondiali, il veloce sviluppo del diritto internazionale e la formazione di organi politici di carattere sovranazionale, come l’Unione Europea, facevano sperare in una possibile attuazione del progetto kantiano come ideale, al di la dei suoi ormai anacronistici argomenti.
Pace_1905_copertinaQuesto cambiamento di rotta è verificabile sotto due fronti: per quel che riguarda il diritto penale vi è un mitigazione delle pene tanto che molti stati eliminano la pena di morte e altri trattamenti violenti; dall’altro lato l’evoluzione del diritto costituzionale in ambito internazionale forma la base per l’affermazione dei diritti fondamentali. Per molti teorici il diritto internazionale sembra mostrare il superamento del paradigma decisionistico schmittiano e dell’idea di sovranità4.
Allo stesso tempo, i pochi elementi di diritto internazionale che sono stati costruiti dalla metà del Novecento già vacillano sotto il peso dei mutamenti sociali e politici e i trattati internazionali sono spesso calpestati dalle pretese egemoniche di grosse potenze mondiali che si impongono con la forza. Negli ultimi decenni si assiste inoltre a una regressione ideale e culturale delle società occidentali e a un rifiuto della ragione e del diritto.
Dopo l’11 settembre 2001, il diritto si presenta di nuovo sotto al sua veste più discussa, quella della violenza; il diritto che si voleva «mite» irrompe nell’ambito del dibattito internazionale con caratteristiche che si credevano surclassate: ritorna in auge la contrapposizione schmittiana dell’amico/nemico; il confine tra guerra lecita e illecita si fa più labile per lasciar posto a un concetto di guerra giusta; assume sempre più rilevanza il ruolo attribuito al potere dell’esecutivo.
La tendenziale degenerazione del principio di razionalità che sta alla base del diritto fa riemergere una concezione del questo come violenza e coercizione piuttosto che come mezzo per eliminare la violenza. Lo svuotamento di significato che ha subito lo stato di diritto durante il periodo totalitario ha contribuito non poco ha questa inversione di marcia nella considerazione del legame tra diritto e violenza.
All’indomani degli attentati al World Trade Center molta letteratura giuridica americana – e non solo – inizia a protendere per una diversa interpretazione del diritto: si assiste a una preferenza del fatto compiuto a discapito della norma e della sua pretesa di giustizia. Il potere esecutivo si sgancia dall’ordinamento giuridico e gli si attribuisce la possibilità di agire in maniera arbitraria e svincolata dal diritto ordinario.
Con la dichiarazione di emergenza formalmente emessa dal presidente Bush il 14 settembre 2001, egli diviene, in qualità di Commander in Chief, il primo titolare del potere politico e giuridico5, col diritto di utilizzare tutta la forza necessaria contro azioni o persone che in qualsiasi modo mettano in pericolo la sicurezza nazionale6. Essa una delega molto potente, di tipo schmittiano che traccia una linea di collegamento direttamente con la dottrina che vede il presidente come «custode della costituzione». È proprio con tale dichiarazione di emergenza che si gettano le basi giuridiche per le detenzioni “speciali” dei sospetti terroristi.
imagesIl Military Order, del novembre 2001, attesta che la nazione si trovava in uno stato di conflitto armato che richiede l’uso delle forze armate statunitensi; si assiste così a una veloce stabilizzazione dello stato d’eccezione giustificata dalla messa in discussione dello stesso stato di diritto. Le leggi antiterroristiche istituiscono il primato della procedura d’eccezione che si sostituisce alla costituzione e alla legge come forma di organizzazione del politico.
Questo non è però un processo che coinvolge solo gli Stati Uniti o i paesi direttamente coinvolti in attacchi terroristici: le ultime misure di contrasto al terrorismo non derivano più, come le legislazioni precedenti, da iniziative nazionali relativamente indipendenti le une dalle altre, ma sono promosse da istituzioni internazionali che estendono automaticamente questo tipo di leggi all’insieme degli Stati membri, compresi quelli che non si sono mai trovati davanti a una concreta minaccia terroristica7. Su queste basi, la guerra lecita non è più quella volta a sanzionare una violazione del diritto internazionale e in difesa da un’aggressione, ma viene ad includere l’uso preventivo della forza8.
Lo stato d’eccezione rappresentato dalla guerra al terrorismo produce dei soggetti d’eccezione, l’illegal enemy combattant, ovvero un soggetto che non è tutelato dalle Convenzioni di Ginevra, che è spogliato da ogni garanzia del diritto e che «può sparire in un carcere segreto o lo si può rinchiudere in un campo di concentramento senza alcun controllo giudiziale e senza prevedere alcun termine o scadenza per la sua detenzione9».
La rinvigorita pratica concentrazionaria dei campi, di cui ne sono esempi i luoghi di detenzione per i prigionieri “speciali”, manifesta lo stato di eccezione e la dissoluzione dei diritti e della persona giuridica. I dispositivi di potere operanti nel Campo, uno spazio in cui è sospesa la validità del diritto, sono sottratti ad ogni controllo di legalità; all’interno di queste anomie, si produce un biodiritto che si applica a corpi che vengono privati di personalità giuridica e di esistenza sociale.
Oggi viviamo in una società «satura di diritto», in cui le norme si avventano sulla vita (anche biologica) e la ingabbiano in una rete di regole di cui l’individuo ormai non riesce più a capirne la provenienza e la razionalità10. La potenza del diritto si configura kafkianamente come qualcosa di imprevedibile e violento. In una prospettiva tristemente attuale, Walter Benjamin invitava a leggere questa violenza senza stupirci, in quanto non ha senso stupirsi per qualcosa che è avvenuto e che può ancora accadere11.
Le vecchie forme di annientamento e oppressione si sono mutate in forme più «microfisiche», disseminate nel tessuto sociale e la malleabilità del diritto oggi ne conferma il suo possibile uso strumentale e l’opportunità per la regola giuridica di invadere il mondo del vivente.
Nella dottrina giuridica successiva al 11 settembre, la violenza viene presentata come risposta e cura a un’altra forma di violenza, considerata più distruttiva. Da questo meccanismo nasce un’ambivalenza del concetto di violenza che si presenta come malattia e cura al tempo stesso, come ciò che distrugge e ciò che salva.
Nelle società moderne esistono saperi e poteri specialistici a cui viene delegata la risoluzione della violenza, ma il paradosso insito nelle società democratiche contemporanee è costituito dalla convivenza, all’interno di uno stesso regime politico-giuridico, di istanze di neutralizzazione della violenza e forme di auto-protezione della società che la rimettono in campo. Il monopolio statuale della forza attua forme di risposta alla violenza che simulano forme curative di “vendetta”: un tale tipo di violenza è assimilabile al concetto greco di pharmakon12. Sostiene Renè Girard che «se il nostro sistema ci pare più razionale, in realtà, è perché è più strettamente conforme al principio di vendetta. L’esistenza della punizione del colpevole non ha altro significato […] il sistema giudiziario razionalizza la vendetta […] ne fa una tecnica estremamente efficace di guarigione e, secondariamente, di prevenzione della violenza13».
Anche Walter Benjamin coglie l’ambivalenza della violenza e la mimesi che si stabilisce con i suoi rimedi: pensare il diritto come luogo ad essa antitetico è un misconoscimento che ne impedisce la critica. La «demoniaca ambiguità» del diritto è segnata dal suo rapporto con la violenza: «ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto. Se non tende a nessuno di questi attributi rinuncia da sé ad ogni validità. Ma ne consegue che la violenza come mezzo partecipa, anche nel caso più favorevole, alla problematicità del diritto in generale14».
Il ripresentarsi della violenza dentro il diritto ci mette davanti al problema del suo misconoscimento, la cui conseguenza è quella di non prendere sul serio questo legame e non coglierne i limiti e i paradossi15.

Note

1Cfr., G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, p. 42.

3Cfr., ibid. pp. 10-11.

4Cfr., ibid., p.9.

5 La facoltà del Presidente di dichiarare lo stato di emergenza nazionale si fonda a sua volta sulla War Power Resolution del 1973.
6 Authorization for Use of Military Force, poi P.L. 107 – 40, 18 settembre 2001, in http://georgewbush-whitehouse.archives.gov/news/releases/2001/09/20010918-10.html.

7Cfr. J. C. Paye, La fine dello stato di diritto, pp. 15-16.

8Cfr. M. La Torre, M. Lalatta, Legalizzare la tortura? ascesa e declino dello stato di diritto, p. 98.

9Ibid., p. 98-99

10Cfr., S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, p. 9.

11Angelus novus. Saggi e frammenti.

12A tal proposito: E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, pp. 27-36.

13R. Girard, La violenza e il sacro, p. 39.

14W. Benjamin, Angelus Novus, p. 16.

15Cfr. E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, pp. 26-27.

Bibliografia
Agamben G., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi, 1995.
Benjamin W., Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Torino: Einaudi, 1995.
Girard R., La Violence et le sacré(1972), trad. it. La violenza e il sacro, Milano: Adelphi, 1980.
La Torre M., Lalatta M., Legalizzare la tortura? ascesa e declino dello stato di diritto, Bologna: Il Mulino, 2013.
Paye J. C., La fine dello stato di diritto, Roma: Manifesto Libri, 2005.
Resta E., La certezza e la speranza: saggio su diritto e violenza, Roma: Laterza, 1992.
Rodotà S., La vita e le regole: tra diritto e non diritto, Milano: Feltrinelli, 2006.

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