Rupi Kaur, parole di miele

Forse avete sentito parlare di Rupi Kaur per la censura che più di un anno fa Instagram fece di questo scatto tratto dal progetto Period, una serie fotografica sulle mestruazioni che aveva realizzato per un corso di retorica visiva all’università. Il caso esplose dopo che Kaur pubblicò la notifica di Instagram in cui le veniva spiegato che la foto aveva violato le norme della community. «È ok condividere ragazzine, spesso minorenni, in intimo, messe in mostra ed erotizzate, ma io non posso condividere uno scatto di cui sono autrice, in cui sono completamente vestita ma con una piccola perdita mestruale» ha scritto, ripubblicando la fotografia. Quello che sembrava un caso di netiquette andato male ha portato un bacino immenso di curiosi al profilo della Kaur, che si sono presto trasformati in follower e hanno aiutato ad accendere i riflettori sul lavoro della persona dietro il caso.

Rupi Kaur è un’autrice di origine punjabi, residente in Canada e anglofona. Fa parte di quella serie di poeti social (un esempio italiano è quello di Guido Catalano) che diffondono le loro opere tramite Facebook, Instagram, Tumblr e piattaforme simili. Da subito, ha affiancato alla sua produzione la performance, esibendosi dal vivo e in video con pezzi spoken word. Si definisce femminista, non perché le tematiche che affronta restringano il campo, ma proprio perché si rivolgono a tutti: è inclusiva e non esclusiva.

© Rupi Kaur

Eredita prestissimo dalla madre la passione per l’arte e sembra davvero essere la sua strada: fino a 17 anni passa il tempo a dipingere e disegnare. Crescendo in una comunità forte come quella dei sikh punjabi ma rimanendo sempre, agli occhi degli altri, immigrata, donna e di colore, affrontava con fatica doppia e doppio dolore i problemi dell’adolescenza. Se la pratica dell’arte, silenziosa e riservata, si addiceva a una persona che aveva a che fare con tutto questo, bisogna anche tenere in conto che, studiando, Rupi s’impossessava della nuova lingua e lentamente acquisiva la consapevolezza che l’unico modo per alleggerire questo peso era condividerlo. Si legge, nella sua biografia: «la sua passione è l’espressione. usa semplicemente differenti media in momenti diversi. e la poesia è solo uno di questi». Ci siamo resi conto di una cosa da queste poche righe (se non conosciamo già la sua poesia): nella scrittura di Rupi Kaur non ci sono maiuscole. È un omaggio alla sua prima lingua, il gurmukhi, considerato sacro:

nella scrittura gurmukhi tutte le lettere sono trattate allo stesso modo. mi piace questa semplicità. questa simmetria e questo andare sempre avanti. è una rappresentazione visuale di quello che vorrei vedere più spesso nel mondo: uguaglianza. per proteggere questi piccoli dettagli della mia lingua li includo in quest’altra lingua.

Le sue poesie parlano di paura, di miglioramento, di cadute, di delusioni, di riprese. A volte anche di capelli e occhi e peli. Parlano di stupro e abbandono, ma anche di specchi e coltelli. Nel 2014, le ha raccolte in un libro che ha autoprodotto, Milk and honey, ristampato con un editore un anno fa ed entrato nella pagina dei bestseller del New York Times.

Nella tradizione punjabi, il miele e il latte sono quelli che una volta da noi venivano chiamati ricostituenti. Non è solo ciò che ti fa stare meglio e ti rimette in forze: è ciò che ti viene prescritto (e quindi viene riconosciuto da una comunità per il suo potere) per farti sentire così. Milk and honey è diviso in quattro parti (o fasi): the hurting (il ferire), the loving (l’amare), the breaking (lo spezzare), the healing (il guarire).

mio padre una volta mi ha detto che il miele è l’unica cosa che non muore. non importa da quanto tempo è in quel barattolo, dieci anni o cento, il miele, nel suo stato naturale e grezzo, vive per sempre, e penso che sia semplicemente la cosa più bella.

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Una delle riflessioni che accompagna Rupi nei suoi lavori − e che è un po’ il fil rouge del suo pensiero − è il rapporto tra donna e donna. Come individui o come comunità, la risposta che trova è sempre nel «power to uplift»: uplift in inglese significa sollevare sia fisicamente sia moralmente, è confortare ma anche motivare. E questo, per Rupi Kaur, è sempre stato il grande pregio che hanno le donne, − solo che non lo sanno. O meglio: non sanno di poter portare questa capacità fuori dai confini dell’amicizia o della famiglia e di poterla far diventare una pratica globale, un’esercitazione spirituale e pratica per un miglioramento collettivo. Proprio come il latte e il miele sono ricostituenti, l’empowerment reciproco  permette di «flourish and nourish» (letteralmente “fiorire/prosperare” e “nutrire/rafforzare”)

 È un fenomeno (per fortuna) mondiale: destinate dalla società al mutismo perenne, le donne si rendono conto che la loro libertà può passare anche dalla parola.  La Kaur ha raccontato al Guardian che «per le donne del sud dell’Asia tu dovresti essere quieta e senza opinioni». Quando ha cominciato a parlare pubblicamente di argomenti come lo stupro, le mestruazioni o la violenza domestica, i suoi genitori hanno espresso preoccupazione per cosa avrebbe potuto pensare una futura suocera: «E io rispondevo, allora perché mi avete insegnato a parlare ad alta voce?».

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«Non è un libro autobiografico, ma le emozioni lo sono»: così Rupi risponde a chi le chiede quanto di vero e personale ci sia nelle sue poesie. «A volte [nelle librerie] lo trovi in mezzo ad altre biografie, a volte nella sezione non-fiction, a volte tra i bestseller di fiction»: nessuno è davvero sicuro di cosa sia Milk and honey, ma va perfettamente bene così. Quella che conta è un’altra cosa:  «Quando vedi qualcuno [tra il pubblico delle sue letture] che assomiglia a tua madre e sembra che dica “questo mette il mio dolore in qualcosa di concreto che posso tenere e reggere e abbracciare” allora so che è ok, che sto facendo qualcosa di giusto e voglio solo continuare a farlo».

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Altra poesia femminile: Antonia Pozzi (1 e 2), Emily Dickinson, Amelia Rosselli, Marina Cvetaeva, Josefina Daubegovic, poesia araba

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