Sarabanda e l’archeologia del presente

Venti, anzi, ventuno anni dopo. Uno studio diverso, i dj ad affiancare la Saraband. Questo è il primo effetto, spiazzante, del nuovo Sarabanda, il quiz musicale di Enrico Papi tornato a furor di popolo e di pubblico per tre puntate speciali.

La sigla, quel Mooseca che è l’anello di congiunzione tra Papi e Rovazzi, sembra l’anticamera per una delle più classiche delle operazioni nostalgia, contaminata dall’effetto meme con cui Papi sta cavalcando l’onda, come ci siamo detti qualche settimana fa.

Un cortocircuito tra vecchio e nuovo, questo, che sembra la cifra narrativa di questa ultima edizione di Sarabanda. La puntata si apre con un monologo di apertura di Papi, e questa è già una novità. Un po’ perché Papi che fa un monologo comico è come Gabriele Cirilli che recita Brecht, ma soprattutto perché Sarabanda, almeno formalmente, si è sempre configurata come un quiz puro. Il tema sono i luoghi comuni sui telefoni, Facebook, Instagram: lo smartphone che serve a tutto fuorché a telefonare, i pranzi che non vengono consumati ma immortalati.

Nulla di nuovo, anzi. Ma a chi sta parlando Papi? In massima parte a quel “popolo di Sarabanda” che viene richiamato più volte, ai fan di sempre, che hanno in media tra i 25 e i 45 anni e sono a cavallo tra i nativi digitali e quelli che sanno a malapena cosa sia Twitter. Una terra di mezzo perfetta per Enrico Papi, che diventa il ponte tra il ‘97 e il 2017, un Caronte che accompagna  i campionissimi di Sarabanda, quelli che ci sono rimasti nel cuore, tra le magnifiche sorti e progressive del nuovo millennio.

Il popolo di Sarabanda compare in scena, si perde il senso di arena che caratterizzava il programma: lo studio si apre ai fan, ai nostalgici, a un pubblico che vuole celebrare i gladiatori di un tempo. Si fa sentire forte la concezione di evento, di one night only.

Ed è il passato, finiti i preamboli, ad aprire veramente questa prima puntata di Sarabanda. Coccinella, Allegria, la Professora, persino l’Uomo Gatto. Un video introduttivo ricorda le loro gesta, li re-identifica con una qualità, un record, un punto di forza. E pazienza se Allegria sembra diventato un incrocio tra Schumacher e Daniel Craig, se Coccinella ha il papillon e una strana forma ovale, e se l’Uomo Gatto ha i capelli più assurdi del solito: Sarabanda ha deciso di non essere la parodia, ma una riattualizzazione di se stessa.

Mediaset, rispetto alla Rai, ha dimostrato più volte nel tempo di saper sfruttare alla perfezione l’onda d’urto dei Social. Non basta creare una pagina Twitter o chiedere al pubblico di partecipare su Facebook: se è vero che il medium è il messaggio, come recita l’insegnamento più famoso di McLuhan, c’è bisogno di un adeguato lavoro di scrittura che si possa adattare ad entrambi i mezzi, che si spinga persino a continuare la narrazione televisiva sui social e viceversa.

Ma quali storie vuole raccontare questo nuovo Sarabanda? Due storie semplici, archetipi puri. L’eterno scontro generazionale tra vecchi e nuovi, campioni e aspiranti tali. I giovani sono presentati come fortissimi e soprattutto agguerriti. Un modo per farsi notare, per pretendere attenzione. Noi siamo piccoli, ma cresceremo, allora virgola, ce la vedremo. La narrazione facile e facilitata di Sarabanda, quella dei soprannomi da villaggio vacanze e dello stile fin troppo ansiogeno di Enrico Papi, è perfettamente funzionale allo scopo.

via Corriere dello Sport

via Corriere dello Sport

L’altro tema non poteva che trovare come protagonista l’Uomo Gatto, l’essenza di Sarabanda. L’Uomo Gatto è un esempio perfetto di quello che in narratologia viene definito il fatal flaw, il “difetto” che caratterizza il personaggio e mette in moto la macchina narrativa. Harry Potter è orfano e perseguitato da Voldamort e da una fama che lo precede, Ted Mosby è ossessionato dal trovare un amore impossibile, Cenerentola è povera e umiliata da sorellastre e matrigne.

L’Uomo Gatto viene sempre messo in discussione, attaccato e persino deriso dagli altri concorrenti per il suo essere diverso dagli altri, con i suoi assurdi capelli e i pupazzi sopra la postazione. E come nella più classica delle storie, l’Uomo Gatto va sempre vicino al baratro, vicino a soccombere al suo fatal flaw, rischiando di uscire persino alla prima manche. Ma i gatti, si sa, hanno sette vite.

I social si mescolano alla televisione, alla Sarabanda di ieri e di oggi, integrandola e creando nuovi fili conduttori. I personaggi, lo stesso Papi si prestano perfettamente alla cultura dei meme, che rileggono in chiave ironica il programma e lo rendono fruibili a un pubblico nuovo, creando una strana centrifuga.

Il situazionismo di Sarabanda vede l’alternanza tra Cugini di Campagna e dj in studio, tra il 7×30 e Papi-Bruno Mars, il Papi 2.0 uscito da Tale e quale, tra scorrazzate social e una regia inguaribilmente retrò, tra un Pardo integratissimo e praticamente perfetto in quel contesto e il mitico Liano, reliquia storica di Sarabanda, che dà ritmo alla trasmissione con i suoi commenti di pancia.

via Sarabanda, pagina Facebook

via Sarabanda, pagina Facebook

Quello che vediamo non è lo specchio della realtà, ma una sorta di ricostruzione storica, una rievocazione in costume del presente e del passato prossimo, in un anacronismo voluto e sbandierato ad ogni inquadratura, ogni sketch. Passato e presente si incrociano persino nella finale tra Luca e Coccinella, accomunati dallo stesso stile enciclopedico e puntiglioso.

Intendiamoci: non stiamo parlando di un capolavoro. Tre ore di game show sono francamente troppe, sketch come l’imitazione di Trump che parla in napoletano sono più che evitabili, alcuni nuovi giochi non sembrano perfettamente oliati. Ma la scelta autoriale di rinunciare alla parodia di se stessi, di unire rievocazione e riattualizzazione, di proporre insomma una contaminazione del genere ci dà un’immagine perfetta dei limiti e delle potenzialità della deriva nostalgica di oggi, del continuo effetto cult che è al suo culmine e forse all’inizio della fine. O, quantomeno, può essere la risposta migliore a chi si chiede Cosa resterà di questi anni ‘90. Non è poco.

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