Se il clima cambia, dobbiamo farlo anche noi. E il nostro territorio.

Ad un primo sguardo, nulla sembrerebbe legare la serie di uragani abbattutisi sui Caraibi e sugli Stati Uniti con le piogge torrenziali che hanno colpito il nostro Paese. Scavando più a fondo, però, ci si rende conto che non è così. Ciò che accomuna questi fenomeni, al di là degli ingenti danni e delle numerose vittime, è il nostro comportamento ostinatamente sbagliato fatto di scelte scriteriate, che non vogliono ancora fare i conti con una realtà in così rapida trasformazione, com’è quella dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale. Sebbene con proporzioni e conseguenze differenti, gli effetti di una temperatura più alta e di una errata gestione del territorio si fanno sentire anche a migliaia di chilometri di distanza.

Più e più volte, scienziati e climatologi hanno ripetuto di non aver mai visto una situazione del genere, in riferimento i tre uragani atlantici formatisi nelle scorse settimane. Irma, l’uragano di categoria 5 che ha letteralmente spazzato via le isole di Barbuda, Saint Martin, Keys e Virgins, distruggendo Cuba e Miami lungo il suo percorso, non ha eguali nella storia: sono stati registrati venti talmente forti (300km/h), che probabilmente sarà necessario formulare una nuova categoria di classificazione.

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Le vittime accertate, più di trenta nei Caraibi e già una ventina in Florida, si sommano alle immagini di devastazione di quelli che, fino a un mese fa, erano paradisi meta di turisti e vacanzieri provenienti da tutto il mondo: ora questi stessi paradisi, non sono altro che un inferno in cui non si riconosce più il confine tra terra e acqua. Come chiamarlo questo, se non effetto di un cambiamento climatico in corso, col quale dovremo imparare a convivere, per forza di cose? In Italia, gli effetti tangibili di questo cambiamento sono diversi, ma il risultato non si discosta poi molto da quanto appena detto. Dopo un’estate di caldo intenso e preoccupante siccità, nella notte tra sabato e domenica scorsi, un violento nubifragio ha colpito la Toscana, facendo esondare fiumi e canali a Livorno, dove si sono registrati 40 cm d’acqua in 4 ore: in pratica tutta l’acqua che non è caduta nei tre mesi estivi. Un’alluvione in piena regola, che ha causato nove vittime e danni per circa 180 milioni di euro. Con la stima dei danni, però, sopraggiungono anche le prima polemiche: si può costruire a fianco al letto di un fiume, per di più sotto il suo livello? È forse arrivato il momento di smettere di considerare questi eventi come eccezionali, e iniziare a concepire e costruire le nostre città con più criterio e meno cemento? Partendo dal fatto che quasi il 90% dei comuni italiani possono essere classificati come a rischio idrogeologico, perché aspettare che un evento climatico potenzialmente distruttivo si manifesti, affrontandolo sempre e solo come un’emergenza?

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È vero, in Italia manca del tutto la cultura della prevenzione, ma visti i presupposti di un aumento di temperatura globale che difficilmente riuscirà a rimanere al di sotto del grado e mezzo, non sarà possibile continuare su questa strada. Il dissesto idrogeologico nel nostro Paese, complice un territorio difficile e una gestione spesso ottusa da parte di amministrazioni locali e governo, è destinato a un aumento esponenziale se non si rivedrà al più presto il piano urbanistico di città e comuni, con un rischio sempre più elevato per le vite umane. Non possiamo più permetterci di etichettare questi fenomeni meteorologici particolarmente intensi, come eccezionali, fuori dalla norma, imprevedibili: se i corsi d’acqua vengono interrati, se si costruisce abusivamente, se i piani di adattamento continuano ad essere ignorati e dalle pianificazioni urbanistiche e territoriali, le storia continuerà a ripetersi sempre più frequentemente. Solo tre anni fa a Genova, un’alluvione causò una vittima e più di duecento milioni di danni. Ma gli esempi sono diversi: Sardegna, Liguria, Sicilia, Calabria, Toscana, sono solo alcune delle regioni in cui negli ultimi anni si sono verificati smottamenti e frane mortali in seguito a precipitazioni intense e circoscritte.

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La colpa non è del cambiamento climatico, che pure è una realtà innegabile sotto diversi fronti. La responsabilità di un copione che si ripete da anni è unicamente nostra: la costruzione sregolata avvenuta durante gli anni del boom economico oggi ci presenta il conto. Ma invece di prendere atto di tale situazione, continuiamo ad affrontarla a fatto avvenuto. Sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri, si legge che un fondo di 9.8 miliardi di euro è stato stanziato nel 2016 “soprattutto per consentire un’imponente opera di prevenzione di lungo periodo, in particolare nei settori del dissesto idrogeologico”. A un anno di distanza, la domanda è: dov’è finita questa imponente opera di prevenzione di lungo periodo? L’attivismo dal basso ci prova: People4soil, un’iniziativa di più di cinquecento associazioni, ong e istituti di ricerca, ha lanciato una petizione online per chiedere all’Unione Europea delle norme specifiche contro abusivismo e cementificazione, a tutela del suolo che è una fonte primaria di vita.

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«Ogni anno in Europa spariscono sotto il cemento 1000 kmq di suolo fertile, un’area estesa come l’intera città di Roma», si legge sul sito dedicato alla raccolta firme conclusasi il 12 settembre. Ad oggi, una legge europea a tutela del suolo non esiste ancora, ma la problematica sempre più crescente della riduzione di suolo a causa di cemento e speculazione edilizia ha contribuito a svegliare le coscienze. L’augurio è che questa volta la politica ascolti la voce del popolo e inverta la rotta del suo modus operandi, fatto di procrastinazioni e rallentamenti. Questo perché, se impedire uragani e bombe d’acqua è umanamente impossibile, tentare di arginarne i danni non solo è fattibile, ma deve diventare un dovere collettivo e prioritario. Sarà fondamentale iniziare a concepire e mettere in atto una nuova tipologia di società attraverso la costruzione di infrastrutture innovative, di insediamenti urbani più verdi, di edifici e di industrie meno inquinanti. Questo perché, ripensare il nostro territorio, è un aspetto imprescindibile per uno sviluppo futuro più equilibrato e sostenibile. Le temperature più alte, l’anidride carbonica più elevata, gli eventi atmosferici estremi più frequenti non dovrebbero essere altro che incentivi al “fare meglio e farlo subito”.

Le immagini sono state prese da: www.theatlantic.com, tg24.sky.it, confini.blog.rainews.it, www.people4soil.eu/it

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