Se il New Italian Epic esiste ancora, è questo (in breve)

Nel 2008, durante una serie di incontri sullo stato della letteratura italiana contemporanea tenutisi in varie università statunitensi, Wu Ming 1 parla per la prima volta di New Italian Epic per riferirsi a un certo insieme di opere che negli anni precedenti si era venuto a delineare − ma non a definire − nella nostra letteratura nazionale. Poco dopo, nello stesso anno, pubblica online sul sito del collettivo un pdf scaricabile dal titolo New Italian Epic 2.0 − Memorandum 1993-2008 , ed è allora che la polemica si scatena. Critici e scrittori bollano la riflessione con le accuse, tra le tante, anche di  anglofilia e incitamento alla sovversione.  Proviamo a vedere quindi cos’è il New Italian Epic secondo Wu Ming 1 e perché, forse, non esiste più.
Per le citazioni che seguono, mi rifarò invece alla terza redazione del saggio, che è quella pubblicata da Einaudi e che indicherò come NIE (si vedano le note).

Il New Italian Epic è una delle molte-buone-diverse cose che accadono oggi nella letteratura italiana.  […] Il New Italian Epic è un’ipotesi di lettura, la mia ipotesi. È invece un dato di fatto l’esistenza di un corpo di testi, libri scritti nella “seconda repubblica” aventi in comune elementi basilari e una natura allegorica di fondo. Se tale corpo non esistesse il memorandum non sarebbe “suonato bene” a così tante persone, né avrebbe scatenato tutto quest’ambaradàn.  (dal memorandum 2.0)

Una cosa per volta. Per esempio, il tempo: la cronologia, in questa questione, è talmente importante da occupare metà del titolo. Tutte le opere riconducibili a questa nebulosa (termine che usano i Wu Ming stessi) sono infatti posteriori al 1993, anno che segna la fine della Prima Repubblica, preceduto da Tangentopoli e seguito dalla discesa in campo di Berlusconi. Questo non serve tanto a delimitare geograficamente il fenomeno, attribuendogli una specificità nostrana,  ma mette più che altro l’accento sul comune sentirsi parte di e avere a che fare con un “dopo”: «Gli anni Novanta […] furono […] il decennio più illuso, megalomane, autoindulgente e barocco. […] In quei giorni curavamo ancora le ferite di Genova, 20 e 21 luglio [2001] […] L’11 settembre polverizzò tutte le statuette di vetro. […] Sotto la produzione di molti autori italiani degli ultimi dieci-quindici anni vi è un giacimento di immagini e riferimenti condivisi» (NIE). Nel 2002, per esempio, nel giro di pochi mesi vengono pubblicati Romanzo criminale di De Cataldo, Balck Flag di Valerio Evangelisti e 54 degli stessi Wu Ming.

Queste opere sono tanto difficilmente riconducibili a categorie letterarie precise e consolidate che Wu Ming 1 si riferisce a loro chiamandole «oggetti narrativi non-identificati», Unidentified Narrative Objects: l’acronimo diventa UNO e, in effetti, «ognuno di questi oggetti è uno, irriducibile».  Non si tratta infatti di semplice ibridazione, ma contaminazione: Gomorra non è solo romanzo, non è solo reportage, non è nemmeno solo narrativa così come non è solamente giornalismo. L’elemento perturbante dello sfuggire a ogni categoria critica ed editoriale è una delle prime caratteristiche dei libri (che quindi non possiamo definire romanzi, e infatti non lo faremo) presi in esame nel memorandum. Ho detto Gomorra e non Roberto Saviano non a caso, poiché Wu Ming 1 individua queste attinenze non tanto in una generazione di persone quanto in una letteraria: le singole opere sono quindi più caratteristiche degli autori. Tant’è che hanno prodotto libri riconducibili al New Italian Epic anche scrittori noti per occuparsi di altri generi, come Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli o Pino Cacucci. È qualcosa in più rispetto al pastiche a cui si affidava il postmodernismo: si tratta di sperimentazione, non un gioco letterario con materia culturale già prodotta.

Nelle Postille a Il nome della Rosa Umberto Eco diede una definizione del postmodernismo divenuta celeberrima. Paragonò l’autore postmoderno a un amante che vorrebbe dire all’amata: «Ti amo disperatamente», ma sa di non poterlo dire perché è una frase da romanzo rosa, da libro di Liala, e allora enuncia: «Come direbbe Liala, ti amo disperatamente». […] Oggi la via d’uscita è sostituire la premessa e spostare l’accento su quel che importa davvero: «Nonostante Liala, ti amo disperatamente». (NIE)

Poi: perché parlare di epica? In queste opere in effetti compaiono imprese storiche,  eroiche o avventurose che si inseriscono in conflitti più grandi o periodi di crisi, con riferimenti e incursioni anche di elementi soprannaturali, dove i personaggi «puntano i piedi contro se stessi e combattono contro la perdita del sé». Non sono quindi  pacificamente riconducibili al semplice genere del romanzo storico, anche se da questo prelevano certamente alcune convenzioni o stratagemmi. Esempi sono Q di Luther Blissett, il precedente nome del collettivo Wu Ming, Noi saremo tutto di Evangelisti, L’angelo della storia di Bruno Arpaia dove uno dei protagonisti è nientemeno che Walter Benjamin o La banda Bellini di Marco Philopat la cui scheda sul sito dell’Einaudi dice proprio: «Romanzo di dura e metallica epica quotidiana». La parte umana della storia è continuamente riportata in primo piano in queste opere, permettendo così al New Italian Epic di non escludere l’introspezione rispetto all’epica.

E nulla, effettivamente, viene escluso: la prima regola per fare un libro che possa essere attratto in questa nebulosa (non dico «un buon libro», perché, come Wu Ming 1 ammette nel memorandum, non è successo di rado che alcune di queste opere fossero dei mezzi fallimenti) è che gli autori possono e devono utilizzare tutto quanto ritengono sia «giusto e serio utilizzare» (NIE). Ciò permette di forzare ulteriormente la struttura del romanzo storico: anche, per esempio, con l’adozione di un punto di vista quasi sempre obliquo o «sovraccarico» (come avviene per esempio in Gomorra), dove realizzare la «fusione di etica e stile» (NIE) che è altrettanto fondamentale. Questo può succedere perché la fiducia nelle parole che hanno questi autori è totale e per il forte senso di responsabilità che viene avvertito nei confronti della materia e di come viene narrata, tutto il contrario dell’artista postmoderno, disincantato e sfiduciato. Il potere maieutico e la capacità di stabilire legami del linguaggio permettono un suo sovvertimento semantico costante che è lontano dal gioco allusivo e godibile del postmodernismo: i piccoli interventi che modificano la forma e il senso delle parole mantengono il lettore vigile e cosciente di quanto accade (e solo in questo, forse, il termine “epico” può ricordare il teatro epico di Brecht). In Q vengono tolti quasi tutti i verbi nelle descrizioni di combattimento; quando in Hitler di Gerardo Genna questi compare, il suo verbo è sempre «esorbitare»; a pagina 35 di Nelle mani giuste di De Cataldo, quasi tutte le parole iniziano per o e sono zeppe di allitterazioni.
All’apparente difficoltà di queste opere, si combina sempre «un’attitudine popular» data dalla certezza che il lettore è sempre più intelligente di quanto lo credano editori e critici e che la parola, appunto, ha un vero potere che supera la pagina e che si realizza nella transmedialità: «arte e letteratura devono rafforzare la nostra capacità di visualizzare» (NIE).
Altrettanto caratterizzante del New Italian Epic è infatti la possibilità insita in ogni libro di (far) creare oggetti o prodotti che lo riguardano. Proprio come il ciclo dell’Iliade veniva arricchito da ogni aedo che cominciava a cantarlo, così queste opere permettono e anzi autorizzano il pubblico ad ampliarle, arricchirle o manometterle, ma certamente tramandarle, ridando vita allo storytelling epico. Il ciclo di Eymerich di Valerio Evangelisti ha dato vita a un fornito apparato di fanfiction, dapprima gestite tramite una mailing list e poi raccolte dalla piattaforma Carmilla, ma anche a videogiochi, fumetti, sceneggiati radiofonici o canzoni metal, e su Giap è possibile scaricare il risultato del «tifo narrativo», come lo chiamano i Wu Ming, scatenato da L’armata dei sonnambuli.
Il successo di queste opere, tale da spingere i lettori a diventare creatori loro stessi, è quasi interamente spiegabile col fatto che «tutte le narrazioni sono allegorie del presente, per quanto indefinite», e a questo presente fa riferimento il pubblico, perché lo conosce e può, almeno nel mo(n)do virtuale della letteratura e del multimedia, trattarlo a suo piacimento. Così Eymerich può inquisire Berlusconi o parlare del movimento NoTav, Scaramouche può andare a difendere la causa della guerra di classe in giro per l’Europa.

Perché allora, se teniamo conto che L’armata dei Sonnambuli è stata pubblicata nel 2014 e l’ultimo volume del ciclo di Eymerich nel 2010, il titolo di questo pezzo inizia con un’ipotetica? È stato lo sforzo di teorizzare un certo «algoritmo delle allegorie», che veniva percepito come presente e costante in queste opere ma che in qualche modo sfuggiva continuamente a una precisa chiarificazione, che ha portato Wu Ming 1 a riflettere nuovamente sulla questione.
Per esempio, con un pezzo del 3 febbraio 2013, Classe operaia e anima precaria. Conversazione con Alberto Prunetti, autore di Amianto. «A un certo punto mi è sembrato che l’allegoritmo del New Italian Epic avesse a che fare, come ha scritto Wu Ming 2, con la difficoltà di ereditare il mondo»: quest’idea già era presente nel memorandum, dove si parlava del Vecchio come emblema di qualcosa che era appena finito e con cui bisognava cominciare a fare i conti, per poter procedere: «Diverse opere scritte oggi registrano la nostra condizione di postumi, e la rappresentano in allegoria, un’allegoria profonda» (NIE). I tratti di questa nebulosa rimanevano quindi costanti nel tempo, ma i confini delle opere che in essa venivano via via inclusi erano assolutamente intracciabili e imprevedibili, ed era soprattutto questo potere inglobante e allo stesso tempo rispettoso della non-definizione a far diventare la critica italiana sempre più scettica.  Altri anni sono passati tra il memorandum e l’uscita online di questa conversazione, «ora siamo nel 2013, e se facciamo caso ai libri (non solo italiani) che diventano “casi” e producono vera discussione, sono quasi tutti UNO, sono scritti da autori che se ne fottono altamente della frontiera tra narrativa e saggistica, non si pongono nemmeno il problema, passano di qua e di là quando vogliono, sfuggendo ai doganieri senza alcuno sforzo». Quella che all’epoca sembrava una tendenza, sta diventando un vero e proprio modo all’italiana di fare letteratura.
All’inizio di quest’anno, con Dalla fine del New Italian Epic alla collana #Quintotipo, Wu Ming 1 continua la sua riflessione: «Il “fuoco di sbarramento” e le reazioni “de panza” [rispetto alle riflessioni del collettivo] sono stati aggirati semplicemente smettendo di usare l’espressione New Italian Epic. Poiché la maggioranza dei detrattori si era fermata al nome, che per noi era un dettaglio trascurabile, non vedendo più il nome hanno creduto di essersi sbarazzati della cosa. […] Nella realtà vissuta da chi il memorandum l’aveva letto davvero, New Italian Epic non era che il nome transitorio di un corpus eterogeneo – la cosiddetta “nebulosa” – di opere letterarie raggruppate da uno sguardo retrospettivo. Come lapidariamente riassunto da Andreetto, il memorandum, lungi dall’annunciare il futuro, parlava di un’epoca già trascorsa, una fase già terminata della letteratura italiana: quella che andava dai primi anni Novanta alla fine degli anni Zero. Il memorandum proponeva una riflessione su quanto appena accaduto, cercando di cogliere l’allegoria profonda di quelle opere».

È successo sicuramente qualcosa − e sta continuando a succedere − nella letteratura italiana. Per quanto sia difficile scorgere operando dall’interno i confini e la portata di un cambiamento del genere (e intendiamo anche del genere letterario),

è bello ed epico formulare le domande. La letteratura non deve, non deve mai, non deve mai credersi in pace. (NIE)

* NIE sta per: Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi Stile Libero, 2009
* il blog dei Wu Ming invece è giap
* l’immagine di copertina è un’opera dell’artista Blu, a cui vanno tutti i diritti, e che ho scelto per gusto personale e per il carattere di denuncia che hanno molti suoi lavori.

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