Intaccare la memoria collettiva. Intervista a Carolina Orlandi

Non è la prima volta che intervisto uno scrittore e intervistare Carolina è un onore e un piacere. Ci siamo conosciuti ad una cena con altri ragazzi della Scuola Holden, che abbiamo entrambi frequentato. Avevamo appena giocato a calcetto ed eravamo andati in un pub dove ci aveva raggiunto. Mi aveva dato subito l’impressione di una ragazza brillante e con quella onestà toscana che è una cosa tutta linguistica, un parlare che non ammette zone grigie o sottintesi. Ho ritrovato quella stessa intelligenza e quella onestà genuina in tutto il suo percorso, nei progetti portati avanti e nel suo primo libro, Se tu potessi vedermi ora, edito da Mondadori.

Non è la prima volta che intervisto uno scrittore, dicevo. Ma intervistare Carolina è per me incredibilmente difficile. Più che fare domande, verrebbe voglia di mettersi a pensare, incazzarsi, evitare di star fermi.

Se tu potessi vedermi oraSe tu potessi vedermi ora non è soltanto un’inchiesta o una testimonianza su ciò che è successo prima e dopo quel maledetto 6 marzo 2013, quando David Rossi, responsabile della comunicazione di Monte dei Paschi, morì precipitando dalla finestra del suo ufficio. Un evento che è stato bollato troppo presto come suicidio dalla Procura, in un caso di malagiustizia che solo la tenacia della figlia Carolina e del resto della famiglia è riuscito a riaprire. Se tu potessi vedermi ora è un ritratto familiare con un prima e un dopo, che ha il coraggio di attraversare la spaccatura per presentarci ciò che è stato portato via dagli eventi e dalla cronaca: un uomo.

Non è semplice prendere una storia così enorme, così personale e insieme pubblica, e riuscire ad infilarla in un libro. Come hai fatto? E quando hai capito che forma dare al tuo libro?
Mi ricordo perfettamente il giorno esatto: era il 16 maggio del 2016, e mi trovavo ad un incontro con Nanni Moretti alla Scuola Holden. Ho cominciato ad estraniarmi, a pensare a cose mie, senza neanche pensare al libro in sé per sé. Ero semplicemente distratta. Poi, a un certo punto, è arrivata come un fulmine la consapevolezza di dover scrivere il libro e di dovrerlo scrivere così. Fino a quel momento avevo sperato che un giornalista d’inchiesta si sarebbe occupato del caso scrivendo un libro suo: io non potevo farlo, eroCarolina Orlandi 2 troppo coinvolta. Ma quel giorno mi sono detta che il mio punto di vista in tutta questa storia poteva avere lo stesso valore di qualsiasi libro d’inchiesta.  Il problema è che non avevo mai scritto un libro, non sapevo da dove cominciare a raccontare una storia come questa. È stato fondamentale Raffaele Riba (scrittore e docente della Scuola Holden ndr): come prima cosa mi ha consigliato di prendere un grande cartellone e di buttare tutto quello che avrei voluto dentro questo libro: parole chiave, disegni, immagini, discorsi, frecce. Sono stata un mese dietro a questo foglio, e mi è servito per dare un ordine ai miei pensieri, una sorta di indice. In quel modo ho capito come potevo aprire un cassetto alla volta e svuotarli. Sono riuscita ad esaurire ogni piccola area di questa storia, dai ricordi alla vicenda giudiziaria, a suddividere tutta una serie di cose che per me erano legatissime. Così ho cominciato la prima stesura, che è durata da luglio 2016 a gennaio 2017. Calarsi di nuovo in certe situazioni è stato intenso e insieme terapeutico.

Forse ti ha aiutato anche a rimettere insieme i tasselli di questa storia.
Non riuscivo ad essere lucida, questo libro mi ha aiutato a dare un ordine mentale, a dare un nome alle cose.


Il modo che hai di raccontare questa storia, che sia nel libro o nelle interviste che hai fatto, è straordinariamente preciso. Più una questione di ricerca della verità o di bisogno di una corazza?
L’unico modo per essere lucidi è isolare la vita dalla vicenda giudiziaria. Ho dovuto imparare come ci si distacca dalla propria vita per mostrarla agli altri. Altrimenti faccio cortocircuito. Poi ci sono i momenti in cui la vicenda giudiziaria e la mia vita si mischiano, e io vado fuori di testa. Per quanto riguarda la precisione dei ricordi, io ho sempre scritto per immagini, e questo mi ha aiutato molto. Il bello delle immagini è che non c’è bisogno di spiegarle, di specificare il messaggio.

C’è una parte, che è un po’ il cuore del libro, con il filmato delle telecamere di sorveglianza. Mi ha ricordato Anatomia di un istante di Javier Cercas, dove l’autore prende un filmato conosciuto da tutti e lo analizza secondo per secondo, interrogandolo con occhi nuovi. Chiaramente qui ci sono molte differenze: è un video tragico, il tuo sguardo non può che essere carico di molto altro. Quanto è stato duro per te questo lavoro di decodifica, di traduzione di ogni segno, di catalogazione di indizi in una vicenda che coinvolgeva così tanto?
Ho visto più volte il filmato all’inizio rispetto ad oggi. All’inizio era necessario, per analizzare tutti i dettagli, mentre ora so che non serve rivederlo, mi fa soltanto male. Anche questo è stato un processo lento: ho visto prima qualche foto, poi ho cominciato a vederne altre. Ma prima riuscivo molto di più perché questa fase di isolamento della mia emotività era più radicata. Ero molto più sdoppiata rispetto ad ora, riuscivo a tenere a freno quella parte emotiva che è venuta fuori insieme al libro. Ora le due parti sono più difficili da districare.

La sensazione che si ha leggendo il tuo libro è che tu ci stia raccontando qualcosa di noi stessi, della nazione in cui viviamo. Tu che stai presentando il libro in tutta Italia, che sentimento vedi nei lettori? Rassegnazione o rabbia?
Vedo sorpresa, inizialmente, una fase che ho passato anch’io. Poi vedo la rabbia, che è un’altra fase che ho passato. Raramente vedo consapevolezza di come vanno le cose, cosa che invece posso dire di avere, oggi. Ho superato le altre fasi, ho capito che la rabbia non serviva niente e che l’importante era raccontare storie come questa.
Il processo non è stato immediato: nell’ultimo capitolo del libro c’è una voce diversa rispetto al primo, perché io stessa sono cambiata mentre mi approcciavo a tutto questo. Sembra paradossale dirlo, ma anche da una vicenda così trai un insegnamento.

Cosa hai imparato, invece, scrivendo questo libro?
Che la scrittura ha una forza assurda: sono riuscita a ricordare certe cose soltanto scrivendole. Quando scrivi devi utilizzare delle parole per dare un nome a sensazioni, istanti che non hai mai definito davvero dentro di te. Quando ti ritrovi ad utilizzare delle lettere per descriverli, ti reimmergi nella storia e devi farci i conti. Ha una forza terapeutica, non penso possa esistere un percorso più potente di questo. Con la scrittura esorcizzi i tuoi mostri, e riesci a prendere una cosa che portavi dentro e a farne un oggetto fisico, a partorirlo.

Potresti darCarolina Orlandimi una tua definizione di verità?
La prima distinzione che mi viene in mente è tra verità e verità giudiziaria. La verità giudiziaria è un’equazione, un risultato meccanico e burocratico di prove e indizi. La verità è qualcosa da perseguire, ma che non avrò mai. Se la cerco, è perché tutto quello che può fare avvicinare alla verità riesce a riempire tanti piccoli spazi vuoti dentro di me. Tanti mi dicono che questo passerà alla storia come uno dei tanti casi irrisolti della storia italiana, quasi a chiedere cosa continuiamo a fare, in questa ricerca. Io rispondo sempre che se noi non avessimo fatto tutto quello che abbiamo fatto, questa storia sarebbe rimasta quella di un suicida che ha perso la testa e si è buttato dalla finestra. Siamo riusciti ad intaccare la memoria collettiva, e questo è già un grande risultato.

Ma rimarrà un caso irrisolto, questo?
Secondo la verità giudiziaria sì. Per quanto riguarda la verità, penso che ci vorranno tantissimi anni, ma riusciremo ad avere un’idea definita di quanto è successo. Ne sono certa.

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