Silence like a cancer grows

Se penso a Il laureato – e se parlo di questo film è perché è stato proiettato recentemente, tra altri e numerosi splendidi film, a Bologna per la rassegna de Il cinema ritrovato – mi vengono in mente tre cose: l’atra cura, la tirannide e Buster Keaton.

Il protagonista Ben, dopo un iniziale periodo di idiozia e totale compiacenza nei confronti di ciò che gli viene richiesto (il titolo è eloquente e polemico a questo riguardo), decide di smettere di assecondare gli altri. Un’inquietudine e un vero e proprio «funesto tormento» cominciano a farsi strada nel suo carattere, egli non vuole «ascoltare o imparare come guarire dal male. / Coi medici, pure fidati, m’offendo; con gli amici m’adiro […] E inseguo quel che fa male, fuggo da ciò che potrebbe giovarmi / e a Roma, al pari del vento, sogno Tivoli; a Tivoli Roma». Sono versi dell’epistola 1-8 di Orazio e si adattano bene al protagonista de Il laureato, che insegue una donna in là con gli anni in una relazione perversa e stupida, dettata solamente dalla noia, e fugge dalla figlia di questa donna, Elaine – di cui poi si innamorerà – per il semplice fatto che sono i genitori a sollecitarlo.

Un altro degli argomenti evidenti del film è la tirannide, anche se non si parla direttamente di una questione politica. Alfieri era insofferente verso ogni tirannide e dispotismo e si oppone anche alle oppressioni dell’amore: si faceva legare alla sedia dal servo Elia per non correre dall’amata, così almeno racconta nella Vita. Ancora, Alfieri non ci parla solamente di oppressioni politiche e amorose, perché anche la scrittura – chiaramente, tra le più grandi passioni – richiede una buona dose di devozione e asservimento, una meccanizzata e doverosa imposizione: «La lima è un tedio, la creazione è una febbre», dice, sempre nella Vita. «Io frattanto strascinava i miei giorni nel serventismo, vergognoso di me stesso, noioso e annoiato, sfuggendo ogni mio conoscente ed amico, sui di cui visi io benissimo leggeva tacitamente scolpita la mia opprobriosa dabbenaggine»: queste parole di Alfieri, potrebbe essere Ben a dirle, mentre soppesa il suo passato e infatti, come per un’improvvisa illuminazione, rifiuta il dottorato dopo la laurea appena conseguita, perché la strada è troppo tracciata e imposta; quando la relazione con la madre di Elaine diventa una routine e un obbligo si ribella e la interrompe. Naturalmente, non sappiamo se Mike Nichols conoscesse Alfieri, ma quantomeno Alfieri conosceva bene il capitolo degli Essais di Montaigne, De la solitude, ispirato all’Orazio del «se quoque fugit» e «post equitem sedet atra cura». Dunque, Il laureato non è una semplice storia d’amore, è un film sul fuggire e sull’angoscia, sulla ribellione e sul crescere in un mondo le cui convenzioni, anche quelle in buona fede e giuste, ci stanno strette: è un film sulla libertà. Sembra che ci dica, con Freud, che «la vita, così come ci è imposta, è troppo dura per noi».

La terza e più stringente somiglianza – le prime due servivano ad introdurre la questione, appellarsi a qualsiasi altro noto dissidente avrebbe ugualmente giovato, non dimentichiamoci che il film è del ‘67 – è quella tra Il laureato e i film di Buster Keaton. Keaton è il ribelle per eccellenza: disattende ogni aspettativa che personaggi e pubblico rivolgono nei suoi confronti. All’inizio di ogni suo film è inabile e incapace, anche per le cose più semplici: camminare, aprire un ombrello, una porta, mettersi un cappello. Improvvisamente, verso il finale dei suoi film, diventa bravissimo e in grado di fare ogni cosa: non acquisisce solamente le capacità comuni (camminare, correre), ma diventa in grado di svolgere le imprese più improbabili. Tutto ciò per conquistare l’amata, il motore dell’intero meccanismo. Nel finale però, una volta ottenuta la ragazza, la scena romantica è sempre rifiutata. Non ci sono quasi mai baci e anche in quei rari casi sono comici, goffi. Faccio due esempi. Nella scena finale di The goat passeggia allegramente a braccetto con l’amata, ottenuta dopo varie peripezie, e passando davanti a un negozio con un’insegna che recita: «You furnish the girl, we furnish the home» si mette la ragazza in spalla e entra nel negozio; in College, dopo aver cercato per l’intera vicenda di diventare bravo negli sport, qualità considerata necessaria dalla donna che egli desidera, le dimostra di essere un atleta, lei si innamora, decidono di sposarsi e nel finale scorrono in successione le immagini di loro due in casa coi bambini; loro due ormai vecchi; due tombe. Non esattamente quel che si dice un happy end. Anche quello de Il laureato, nonostante le apparenze, non è un happy end.

In particolare, dunque, sono due gli elementi che fanno pensare a Buster Keaton guardando Il laureato. Il fatto che da idiota diventi un eroe e soprattutto la scena finale, in cui Ben e Elaine non si baciano, quasi non si guardano e sembrano annoiarsi. Keaton e Il laureato ci dicono che le donne sono e non sono una priorità, ma qui la donna è un espediente formale, richiesto dalle convenzioni del genere, il che significa che la donna è un modo per parlare del massimo bene. In definitiva, tutto è una priorità e non è una priorità. La verità è che una volta ottenuto l’oggetto del desiderio ci accorgiamo che non ci interessa e che forse il piacere vero risiede nella quête e che la felicità è nel differirla, come ha detto Carmelo Bene.


L’immagine di copertina è stata presa da questo sito.

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